- Mad Tea Party -
ATTO PRIMO, SCENA OTTAVA
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L’Incontro del Giglio e della Rosa
Fece per tre, ben tre inquantificabili
volte quel giro assurdo che ogni volta lo portava ad allontanarsi ed
avvicinarsi asimmetricamente al luogo dell’appuntamento. Non è che non sapesse
come comportarsi, no… no. Lui era
assolutamente sicuro di se stesso. Mai, mai
sarebbe indietreggiato davanti ad un ostacolo, anche se quell’ostacolo era di
carne ed ossa e aveva i capelli neri. E poi perché diamine considerare Mana un
ostacolo? Era un amico di Takeshi per non dire un suo amico, quindi per quale motivo
avrebbe anche solo dovuto minimamente pensarlo come tale?
Il rumore della chiave che girava e spegneva il
motore dell’auto gli rimbombò nelle orecchie come un tuono prima d’un
temporale, e i suoi piedi gli parevano tavole di piombo che aderivano
all’asfalto della strada con tanto inaspettato trasporto che quasi se ne
preoccupò. Quasi, perché a dirla tutta si stava già incamminando verso la
stazione davanti alla quale era atteso.
Portava un completo grigio scuro e avanzava con
quel suo solito e irraccontabile portamento baldanzoso che a malapena gli
faceva perder tempo a guardarsi intorno. Non che ci fosse molto da vedere, a
parte palazzi e palazzoni e centinaia di migliaia di persone diverse che
camminavano come tante piccole irritanti formichine impazzite.
Si drizzò sul suo metro e ottanta e voltò la
testa in giro per vedere di scorgere qualche volto familiare, ma lì per lì non
notò proprio nulla di interessante. Non c’era Mana, che del resto lui pure non
avrebbe saputo riconoscere troppo bene avendolo visto solamente in foto, e non
vedeva neppure Takeshi. Si chiese davvero come
avrebbero potuto vedersi in mezzo a quella confusione e convenne con la sua
coscienza d’essere stato un pazzo una volta di più a lasciarsi guidare dal suo
scriteriato istinto da guerrafondaio.
Emise un sospiro abbattuto, e proprio mentre
stava per tornare sui suoi passi udì una voce che tanto gli suonò come un faro
piantato lì apposta per lui.
« Ehi scemotto! Dove
stai andando? Guarda che noi siamo qui! »
Si girò con un robotico
e lento movimento della testa e come prevedeva vide un ragazzo più basso di lui
che si sbracciava come un deficiente in mezzo a quel casino, ululando a pieni
polmoni al suo indirizzo di modo che più di una signora lo guardò stranamente
nel passargli vicino.
Diede intimamente dell’idiota a quel cespuglio
di capelli scuri con la bocca più larga del resto del viso, e desiderò altresì
accopparlo con le sue stesse mani. Solo che non era arrivato fino a Tokyo per
quello, assolutamente no. Vicino a Takeshi - perché
ebbene sì era proprio lui - non vide tuttavia nessuno che potesse anche solo
vagamente somigliare a Manabu. Non poté far a meno di
essere sottilmente preoccupato dalla cosa, però Taka
aveva parlato al plurale, quindi…
« Ciao imbecille! Ti trovo bene! »
Tuttavia rise e s’avvicinò al ragazzo e appena
l’ebbe a portata di mano gli rifilò una sonorissima e disastrosamente dolorosa
pacca sulla spalla, perdendo pure tempo ad osservare i dintorni con un occhio
per vedere se gli riusciva di identificare il motivo della sua presenza lì.
« Non ti preoccupare, Mana c’è. Sta solo
facendo il timido. »
Al solito. Takeshi
era un sacrosantissimo deficiente, parole sante quelle, ma aveva anche un intuito
da fare invidia a un cane, e perciò lui attese, senza fare altro perché non
c’era altro da fare. Restò immobile, insieme a tutta la gente di quel luogo in
cui pure l’aria sembrò all’improvviso attendere che qualcuno facesse la prima
mossa e poco importava chi sarebbe stato.
Poi Taka alzò infine la
testa al cielo e parve ululare al vento con un sorrisetto divertito che quasi
inquietò Satoru. Quasi.
« Ehi Mana-chan!
Piantala di nasconderti, su. Non è il momento di fare il bambino. »
Fu in quel momento, solo allora e non prima,
che Gackt scorse una persona immobile agli angoli del suo campo visivo, una
persona che prima non c’era o che forse era sempre stata là poggiata a una
delle colonne della stazione a guardarlo fissamente dietro degli enormi
occhiali da sole neri. Forse era vera la seconda e forse lui era stato così
sciocco da non notarla, ingannato dal desiderio evidente di quella persona, che
non aveva voluto essere vista fino a quel momento.
Gli era parso una donna, così di primo acchito,
invece era ormai certo che fosse lui, quello non poteva essere altri che Mana.
Gli sembrò oltremodo bizzarra quella sua istintiva certezza, ma ancor più
assurdo gli parve il pensiero che ne seguì: quel ragazzo, dio santo, puzzava di genio.
Non seppe indicare con precisione quale vocina
del suo cervello glielo sussurrò, seppe solo che lo pensò e ne prese atto
nell’istante medesimo in cui Mana si staccò dalla colonna e venne verso di
loro, a passi piccoli e nascostamente incerti. Era la cosa più immensamente
strana in cui si fosse mai imbattuto: finché era stato immobile l’aveva
scambiato per una donna, ora che s’era mosso non avrebbe potuto più farcela
neppure volendolo e ancora di nuovo non afferrava il perché. Forse era solo una
delle sue tante impressioni sbagliate e certamente non poteva andargliela a
rivelare. Che figura ci avrebbe fatto?
Attese in silenzio, s’aspettò che lo salutasse,
che gli dicesse un “buongiorno” e poi se ne sarebbero andati da qualche parte
tutti e tre e finalmente avrebbero potuto fare conoscenza di persona in santa
pace. Eppure Mana non gli parlava, non spiccicava una parola. Perché non gli
parlava? Perché si limitava a guardarlo dietro le scure lenti di occhiali da
sole più grandi di lui? Si ravviò i capelli castani un po’ lunghi con una mano,
con una solerzia quasi imbarazzata che palesava un nervosismo che all’inizio
non aveva sentito… lui? Lui, Gackt Camui, era imbarazzato e per giunta a causa di qualcuno che
conosceva, perfino? Ah, stava
dannatamente perdendo colpi. Gli ci voleva decisamente una grossa, salutare e benedetta
bevuta.
Finalmente, dopo un tempo per lui imprecisato –
non doveva essere stato molto in ogni caso – Mana diede segni di vita. Lui capì
che l’avrebbe fatto ancor prima che il suo braccio si muovesse, perché Takeshi poteva pure avere l’istinto del cane, ma lui aveva
dalla sua una percezione straordinaria. Mana si tolse gli occhiali da sole – un
movimento incredibilmente fluido e vivace che per un singolo istante lo
intimorì – e lui poté finalmente scorgergli il volto. Vide due occhi a mandorla
un po’ piccoli su un viso forse appena troppo largo, ed erano neri. Così neri
come mai ne aveva visti altri, brillavano d’una vitalità così
straordinariamente intensa che ne fu sconcertato ed affascinato insieme. In
quell’istante comprese che Manabu Satou
aveva in sé delle capacità che con gli anni non avrebbero potuto far altro che
accentuarsi e comprese pure quella che sarebbe stata la sua risposta se mai
quella questione, il vocalist, fosse stata ripresentata.
« Non sembri un musicista. »
Mana glielo disse con assoluto candore e
innocenza, allargando appena le iridi nero pece e parlando tranquillamente e
adagio, con una sicurezza invidiabile in quella voce che suonò incredibilmente
composta alle sue orecchie. In effetti, stava indossando un completo elegante e
se n’era quasi dimentica.
Poi Takeshi scoppiò a
ridere, improvvisamente e sguaiatamente come al solito, prendendolo a pacche sulle spalle.
« Oddio… ha ragione, sembri un capo della yakuza! »
« Ma sta’ zitto tu! »
Però non ne poté fare a meno, di unirsi alla
risata a sua volta, e fu felice di vedere che perfino nel viso di Mana s’era
formato un sorriso tenue, quel medesimo timido sorriso che tante e tante volte
gli era sembrato di vedere ma che aveva sempre solo immaginato.
« Allora? Dove vogliamo andare? »
Fu proprio Mana a domandarlo, e Takeshi parve cogliere la palla al balzo.
« Io me ne torno a casa! »
Bastò, notò Gackt con sconcerto, un’unica
pallida mano di Manabu poggiata istantaneamente sul
retro della sua maglietta a bloccarlo, irrigidendolo peggio del morso di un
serpente a sonagli. Stava stringendo molto forte, Mana, senza dir nulla.
« Che vuoi da me? Il cavaliere te lo sei
trovato mi pare! »
Quella della povera vittima Taka
era un’ultima difesa disperata, e Mana di tutta risposta rafforzò la presa così
che a Gackt parve finalmente sensato intervenire.
« E dai Taka! In fin
dei conti io e te non ci vediamo da un secolo! »
« Ma ci sentiamo sempre, e questo mi basta e avanza! »
« Non fare il timido! »
« Veramente l’unico timido qui è quello che mi
sta stritolando la maglietta! »
Fu questione di un istante, quella singola
asserzione fu più che sufficiente a fare in modo che Mana lo mollasse, ancora senza
proferire una parola che fosse stata una. Gackt osservò divertito Takeshi dare una pacchetta sulla spalla
anche a Mana.
« Facciamo così, stasera vengo a cena da te!
Così siamo contenti tutti quanti, compreso il mio stomaco! »
Un risolino salì alle labbra di Satoru quando s’accorse che Mana aveva riagganciato con
evidente infantile divertimento la maglietta di Taka,
e solo in quel momento gli venne in mente che lui pure non aveva ancora
spiccicato parola con quel ragazzo.
« Be’, » fu inaspettatamente proprio Mana che
parlò, d’un tratto girandosi a guardarlo con una punta di mesta inquietudine
nei luminosi occhi neri « vogliamo fare un salto a casa mia? »
Lo disse alzando le spalle con una noncuranza
che sorprese Satoru, come se per lui non avesse avuto
importanza il fatto che, a dispetto delle ore trascorse al telefono, loro due
fossero praticamente estranei.
Taka alzò a sua volta le spalle: « D’accordo! Camui, hai la macchina tu? »
Lui si trovò solo a poter annuire, prima ancora
di rendersi conto di ciò che quella domanda implicava.
Poco dopo erano saliti tutti e tre sulla sua Ferrari, Mana davanti assieme a lui e Takeshi
dietro, il maledetto fetentissimo…
« Sai, io conosco questo scemo da quando
andavamo al liceo, pensa che palle! »
Takeshi sghignazzava beatamente sdraiato sui sedili
posteriori dell’auto, elemento quello che stava alquanto contribuendo a far
saltare i nervi di Satoru, senza contare poi le stronzate che il ragazzo aveva iniziato a sparare a raffica
di lì a qualche minuto.
Mana gli stava seduto accanto in perfetto
silenzio, guardando fisso la strada con quei suoi acuti occhi nerissimi – non s’era
più rimesso gli occhiali da sole – e limitandosi a dargli ogni tanto innocue
indicazioni come “qui svolta” o “continua dritto”. Anche Gackt stava
perfettamente muto, incapace di trovare qualsiasi cosa da dirgli. Non che non
avesse argomenti, per carità, eppure… non riusciva ad intavolare un discorso
che fosse uno.
E intanto Takeshi
continuava a raccontare aneddoti più o meno veri e assurdi, quasi tutti che
coinvolgevano Satoru. Era in quei momenti che lo
detestava, ma davvero tanto tanto tanto.
« …e poi ha rotto il naso con un pugno a due di
loro e… »
« Taka? Finiscila. »
« Spiacente bello, la mia lingua non prende
ordini da te. Massimo massimo da Mana-chan…
che è cento volte più charmant
di te. »
« Eh? Cosa vorresti dire?! »
S’era involontariamente voltato verso Takeshi, che spaurito lo spinse con un ceffone a guardare
la strada.
« Taci e guida, che sei pericoloso. »
Rimase ancora in silenzio, con le sopracciglia
corrugate in una smorfia di puro e crudele disappunto, quando un lievissimo ma
deciso ticchettio su una sua gamba lo fece sobbalzare. Roteò appena gli occhi a
guardare Mana, vide che sorrideva. Fu con un divertito occhiolino e un cenno
della mano che Manabu lo invitò a restare in silenzio
e prese fiato.
« Takeshi, smettila…
o niente cena stasera. »
Un lungo, febbricitante e spaurito brivido gli
sconvolse le vertebre una per una quando sentì quella voce. Era una death voice perfetta, incredibilmente potente.
Guardò per un istante Mana e scorse sul suo viso un ghignetto di palese e
gioiosa soddisfazione.
« La voce cimiteriale no, Mana, ti prego mi
metti l’angoscia! »
Fu la prima volta che sentì ridere quel ragazzo
dai lunghissimi e ondulati capelli neri, la prima volta che sentì la sua risata
incredibilmente composta ma libera. Capì che nella risata di quel ragazzo c’era
sempre quella strana eleganza che poteva essere un artificio come una
consuetudine, e di nuovo si convinse di non aver davanti una persona qualunque.
« Ecco come lo controllo », lo sentì dire « Gli
faccio troppa paura quando parlo così! »
E rise di nuovo.
« Oh, siamo arrivati! »
Gackt accostò davanti a una modesta palazzina
bianca, con un piccolo giardino, un’abitazione talmente normale che quasi si
sentì deluso.
« Bene! » disse Taka
saltando giù dall’auto « Ora, se voi due principi me lo permettete, io me ne
tornerei a casa. Ci vediamo questa sera, ti va bene se passo verso le nove? »
« Certamente. »
Mana sorrideva ancora ma, notò Gackt, teneva le
braccia conserte attorno alla vita, con una mano a sfiorargli un fianco e
l’altra a sorreggergli il gomito. Salutarono Takeshi,
l’uno alzando una mano e l’altro facendogli ciao ciao,
infine si guardarono in silenzio. Manabu non
sorrideva più, ma gli indicò con un cenno del capo il portone e s’avviò su per
le scale.
Gackt lo seguì, notando il passo incredibilmente
leggero con cui Mana saliva i gradini nonostante ci fosse l’ascensore.
Evidentemente c’era abituato, e lui del resto non aveva alcuna difficoltà a
tener dietro a quel passetto fugace da ballerino, allenato nel combattimento e
robusto com’era.
Quel che lo sorprese, quando finalmente entrò
dopo tre rami di ripidissime scale, fu la quantità di specchi che trovò appesi
per casa, specchi di tutte le dimensioni, di ogni genere. Era un tipo vanitoso,
dunque… e non aveva mica tutti i torti ad esserlo. Aveva dei bei lineamenti,
tutto sommato, ed era più che evidente che la sua persona la curava molto. Lo
vide poggiare con delicatezza gli occhiali da sole su un tavolinetto
vicino all’entrata, dopo essersi tolto le scarpe. Lo imitò.
« Se vuoi appendere la giacca, l’appendiabiti è
lì. »
Mana gli indicò un armadietto accanto
all’ingresso, vicino alla scarpiera.
« Grazie. »
Satoru lo raggiunse poco dopo e vide che aveva
iniziato a trafficare con un gigantesco impianto stereo nel salotto.
« Me lo sono fatto portare da casa dei miei, »
gli disse Mana quando s’accorse d’essere osservato « è un mio caro amico. Io
non vivo senza musica. »
Fu con un sorriso che posò una delle sue mani,
che a Gackt parvero incredibilmente piccole, su uno degli altoparlanti. Sì,
ancora una volta non era stato tradito dal suo intuito: Manabu
Satou era un ragazzo affascinante, suo malgrado.
Aveva davvero la stoffa per diventare qualcuno.
« La ascolti la classica? »
Gackt sorrise ed annuì.
« Sì, studio pianoforte da parecchio tempo
quindi me ne intendo abbastanza. »
« Io pure. Difatti ecco là l’altro mio amico. »
Gli indicò qualcosa dietro le sue spalle, Gackt
si girò e vide un piano verticale. In quello stesso momento le note di un
pianoforte cominciarono a spandersi per la stanza, ma dallo stereo.
« Questo è l’Allegro del concerto brandeburghese
numero quattro, di Bach. Lui è da sempre il mio
preferito… »
Lo disse sussurrando con quella sua voce un po’
bassa, Mana, quasi avesse temuto di sciupare il suono di quell’arrangiamento per
pianoforte. Socchiuse le palpebre, appena mostrando l’iride nera, poi si girò
un attimo e vide che lui stava ancora in piedi.
« Ma che fai? Siediti! »
Gli indicò con un sorriso il posto al suo
fianco, dando una leggera pacca sul divano.
« Vieni a goderti il momento. »
Gackt gli ubbidì senza storie, e mentre si
sedeva perse qualche istante ad osservare il ragazzo che gli stava accanto e
che aveva chiuso ancora gli occhi. I capelli, legati in una coda bassa, gli
scendevano morbidi come onde su una delle minute spalle, piccole come quelle di
una ragazza. Stava ascoltando, teneramente rinchiuso in un sogno, e le sue dita
tenevano perfettamente il tempo con quelle del musicista. Anzi, di uno dei due
musicisti, perché evidentemente si trattava di un brano eseguito a quattro
mani.
Allora lo imitò, sedendosi accanto a lui e
chiudendo gli occhi, e stette bene, così
in pace come da molto tempo non s’era sentito più. Neppure il suo cuore sentiva
più ma solo la musica, solo quelle note che parevano stillare come gocce di
pioggia e fluire dolcemente e fresche come l’acqua di sorgente, meravigliose.
« Dopo, » glielo chiese così, senza neppure
guardarlo e sottovoce come se avesse temuto di parlare « mi fai sentire come
suoni? »
« Certo… »
Schiuse infine le palpebre, si girò verso il
ragazzo al suo fianco e vide che gli aveva puntato un occhio saldamente
addosso, nero e sfolgorante come l’ossidiana. Da quanto tempo lo stava
guardando? Da quanto? Non riusciva a
rendersene conto e con orrore scoprì di non riuscire a preoccuparsene.
« Che c’è? »
« Niente. »
Poi fu con un unico scatto di un corpo
incredibilmente sottile ed agile che Mana s’alzò, stiracchiandosi e scuotendo
più volte la testa.
« A proposito, se ti serve il bagno è l’ultima
porta in fondo », gli indicò il corridoio che s’apriva di fronte all’atrio
d’ingresso, nella parete opposta. Gackt si guardò ancora una volta attorno e rifletté
che i soldi non dovevano mancare neppure a lui: ricordò che Mana gli aveva
detto una volta che i suoi erano insegnanti di musica, quindi doveva
appartenere a una famiglia piuttosto benestante. Perché s’era spinto fino a
Tokyo, allora? Ah, di nuovo aveva partorito una sciocchezza degna solo di lui:
non avrebbe neppure avuto bisogno di domandarglielo né di pensarci. Naturalmente
per il sogno che tutti i musicisti possedevano, più o meno interrato nel fondo
del loro cuore: sfondare.
« Senti, ti va di andare a trovare Közi? È un altro dei membri della band, te lo presento!
Abita qui vicino, ci mettiamo cinque minuti. »
Si domandò in breve se fosse il caso di pensare
che quell’improvvisa proposta fosse un modo per evitare di rimanere con lui da
solo, più per disagio che per timidezza. Allora annuì, sorridendogli.
« Perché no? »
« Se hai la pazienza di aspettare due minuti,
mi cambio! »
« Ti cambi? »
Mana non gli rispose, semplicemente gli accennò
di sì col capo e schizzò nel corridoio con la velocità di un piccolo tornado.
Lui restò in salotto, ad attendere immobile, e
per i circa dieci minuti che aspettò, continuò ad ispezionare la stanza con un
certo interesse. Era una casa piuttosto semplice, in verità: niente di troppo
sfarzoso, solo quell’incomprensibile quantità di specchi e qualche mazzo di
fiori sopra i mobili. C’erano delle foto, probabilmente della famiglia di Manabu: suo padre, sua madre, una ragazza che data la
somiglianza poteva essere sua sorella… sì, avevano le stesse labbra sottili.
C’era una chitarra poggiata al muro, piena di scrittine e ghirigori che doveva
essere quella che usava sul palco. S’avvicinò poi al pianoforte, sollevando il
coperchio e passando le dita sulla tastiera, in silenzio. Era un bello
strumento, niente da ridire in proposito. Non seppe resistere alla tentazione,
e suonò qualche accordo.
Fu allora e solo allora che lo sentì arrivare
correndo trafelato come una tempesta, fermandosi sull’uscio del corridoio.
Gackt alzò gli occhi e l’osservò: s’era sciolto i lunghissimi capelli neri, che
gli ricadevano ondeggianti attorno al corpo come un manto, vide che s’era
infilato una lunghissima gonna nera che terminava in un buon centimetro di
pizzo, e che lo guardava. Lo guardava con una strana, indecifrabile smorfia
impercettibile delle labbra socchiuse, come se avesse voluto parlare senza aver
saputo tuttavia che cosa dire. Se ne sorprese, fu quasi certo d’averlo irritato,
anche se quel viso bianco come porcellana lavorata non mostrava nulla o quasi,
in quel momento. Solo gli occhi s’erano appena allargati, solo e solo quelli.
« Scusami, » disse allora Gackt richiudendo il
coperchio « avrei dovuto chiederti il permesso. »
« Non fa niente. »
« Sicuro? »
« Sì. »
Poco dopo, proprio di fronte alla porta
d’ingresso, Mana s’immobilizzò dopo essersi infilato un paio di innocui
zoccoletti bianchi e sembrò pensare a qualcosa: s’incantò per qualche secondo,
poi si girò verso di lui di nuovo e gli sorrideva. Quel sorriso timido e dolce.
« Andiamo? »
Satoru gli sorrise a sua volta, per poi avviarsi
assieme a lui.
Parcheggiò la sua macchina un paio di quartieri
più in là. Mana era stato in silenzio tutto il tempo, aprendo bocca semplicemente
per indicargli la direzione. Gackt l’osservò suonare il campanello e disse a
quel tale che rispose, Közi, che l’avrebbero
aspettato di sotto.
Quello che uscì qualche minuto più tardi fu un
ragazzo apparentemente così ordinario che Gackt se ne stupì. Aveva i capelli
tinti di biondo che gli arrivavano appena sopra le spalle e un accenno di
baffi. Camminava con la schiena curva, con un passo incredibilmente rapido e
disarticolato, e indossava una felpa grigio chiaro e un paio di jeans larghi.
Ricordò che Mana, durante una delle loro tante telefonate, gli aveva accennato
al fatto che un membro del gruppo stava provando a farsi crescere i baffi.
Doveva essere lui.
Fu proprio la reazione di Mana a sorprenderlo:
appena lo vide gli corse incontro quasi saltellando, urlando un “ciao Közi” e abbracciandolo forte fin quasi a stritolarlo.
L’altro ragazzo rise.
« Ciao Mana-chan! Ti
trovo bene! »
« Come al solito, tu invece sei dimagrito. Fumi
troppo! »
Közi a quel punto si girò finalmente a guardare
Gackt: anche lui aveva un bel viso, pur se dai tratti molto più marcati e
virili rispetto a quelli di Manabu.
« Questo è Koji Hagino, in arte Közi,
chitarrista e qualche volta seconda voce! »
Mana rideva quando glielo presentò, questo non
sfuggì a Gackt. Be’, del resto che s’aspettava? Che Mana si comportasse con
naturalezza con lui, che conosceva appena?
« Piacere, io sono Satoru
Okabe, detto Gackt Camui. »
« Ho ascoltato la tua cassetta. Complimenti,
sei bravo! »
« Grazie mille. E prego, sali pure! »
Közi prese posto nel sedile posteriore e chiuse la
portiera, mentre Mana tornava diligentemente a sedersi davanti.
« Posso fumare in macchina? » domandò Közi armeggiando nelle tasche della felpa per trovare
l’accendino. La sigaretta ce l’aveva già in bocca, pareva essere proprio un
tipo parecchio sfrontato e la cosa lo interessò e innervosì al tempo stesso.
« Se ti chiedo di non fumare, tu non fumerai? »
Non seppe perché gli rispose in quel modo,
sinceramente non lo capì, e realizzò quel che aveva detto solo quando rimasero
in perfetto silenzio tutti e tre. Közi sbuffò e Gackt
guardò verso la strada, mettendo in moto il motore. Non ebbe bisogno di girarsi
verso Mana per capire che aveva chinato il capo. Aveva rimesso gli occhiali da
sole, quindi della sua espressione capiva poco, ma comprendeva bene il suo
imbarazzo.
« Dunque… » iniziò, così per rompere il
ghiaccio « Conoscete qualche posto interessante dove andare? »
« Ah, io non ne ho idea », rispose Közi.
« Neppure io », fu la risposta di Mana – data,
parve a Satoru, più per adeguarsi all’altro che non
per una vera e propria convinzione personale.
Restarono di nuovo in silenzio. Gackt odiava
quell’atmosfera così pesante, voleva trovare qualcosa di cui parlare ad ogni
costo.
« Se non sbaglio, qui a Tokyo c’è la sede centrale
dell’Ohm Cult, no? »
« Chi, quei pazzi che hanno lanciato del gas
velenoso sotto la metropolitana di Aoyama? »
Decisamente, quel Közi
era molto più loquace di quanto non fosse Mana in quel momento.
« Già! Andiamo a vederla? »
« Vuoi forse arruolarti tra le loro fila? »
Közi rise forte a quella prospettiva, e senza
volerlo pure lui si ritrovò a ghignare di rimando.
« Perché no? »
Stava facendo sera rapidamente, il riverbero
del sole al tramonto tra i palazzi investiva la loro auto che sfrecciava per le
strade semideserte . Gackt aveva indossato pure lui un paio d’occhiali da sole
che aveva lasciato nel portaoggetti della Ferrari, in
modo da non rischiare di venire abbagliato.
« Satoru-san? Ma a
quanto stai andando? »
Közi s’era sporto verso di lui e osservava la sua
guida con palese interesse misto a una certa inesprimibile inquietudine.
« Vado troppo veloce? Comunque mi puoi chiamare
Gackt, lo fanno tutti i miei amici. »
« Ok… »
« So che ho un modo un po’ spericolato di
guidare, me lo dicono tutti anche questo! »
Gackt ridacchiò un po’, poi continuò: « Tranquillo,
non ci schiantiamo. So quel che faccio, più o meno. E me ne accorgerei se
stessi per morire. »
Colse appena l’occhiata che gli lanciò Manabu a quella frase, senza tuttavia commentare nulla.
Per sua fortuna Közi
non pareva interessato ad approfondire quel discorso.
« Il nostro Mana-chan
invece è tranquillo e silenzioso eh? Io scommetto però che si sta divertendo,
adora le auto da corsa! »
« Sul serio? » Gackt sgranò gli occhi e prese
una curva a gomito a cento all’ora rischiando di volare sopra lo
spartitraffico. Per fortuna che a quell’ora il numero di auto era limitato e
non rischiavano di ammazzare troppa gente…
« Be’… » fu il solo commento di Mana « Diciamo
che mi piacerebbe comprarmene una se un giorno le mie finanze me lo
permetteranno. Siamo una band indie, per ora i soldi sono quelli che sono… »
« Per cui, produttore, datti da fare! » lo
apostrofò Közi.
« Cosa cosa? I Malice Mizer li produci tu? »
« Io insieme ad una mia parente che mi ha fornito
il capitale. Comunque sì, ho una mia casa discografica. »
« Produci altri artisti? »
« No. Oh, siamo arrivati. »
Gli parve che Mana volesse a tutti i costi
evitare l’argomento musica, almeno con Közi presente,
e non capì bene il perché, cosa avesse da tergiversare tanto. Aveva paura di
sentire la sua risposta, forse? Paura di illudersi? O il suo era solo un modo
per tastare il terreno?
Rimasero in macchina, senza scendere e senza
dire una parola, mentre la notte incombeva in quel giorno un po’ fresco di
inizio primavera, e mentre gli uomini negli uffici della Ohm Cult lavoravano
come formiche. Li vedevano dalle finestre illuminate, a sfacchinare come
bestie, e si chiesero forse se anche loro sarebbero finiti così in futuro,
oppure no.
Loro erano così, tre ragazzi neppure ancora
amici, neppure ancora nulla. Senza saper che dire, restarono in silenzio e dopo
una mezz’ora tornarono a casa.
Lui e Mana rientrarono che mancava un’ora
all’appuntamento con Takeshi.
« Se vuoi ti preparo un bagno, » gli disse Mana
« sarai stanco dopo il viaggio. »
« No, tranquillo. Mi basta una doccia. »
« Allora io comincio a preparare. Ti piace il
curry? »
« Certo! »
« Gli asciugamani puliti sono sul ripiano
appena fuori dalla doccia, per i vestiti ti va bene se ti presto qualcosa io?
Tempo di lavare i tuoi. »
« Ma dai, non preoccuparti! Non c’è bisogno che
ti disturbi tanto! »
« Nessun disturbo. Anzi, mi fa piacere che tu
sia qui, davvero. »
Gackt sorrise. Desiderava davvero lavarsi e
tornare presentabile, a dire il vero.
Mentre faceva la doccia sentiva distintamente
il rumore delle pentole e di Mana che ciabattava per la cucina spostando piatti
e piattini. Aveva l’udito molto acuto, lui, e riusciva a sentire anche cose che
agli altri esseri umani talvolta sfuggivano.
Quando uscì dal box doccia, grondante acqua,
trovò i vestiti che gli aveva lasciato Mana: un paio di pantaloni sportivi
larghissimi, una felpa e pure la biancheria. Era un ragazzo meticoloso, non si
lasciava sfuggire proprio nulla.
Dopo essersi vestito s’affacciò un attimo in
cucina per domandare a Mana se aveva un phon per i capelli. Quasi rise quando
vide che s’era legato i suoi in una coda alta e aveva infilato un grembiulino
celeste tutto pizzi.
« Oh certo, il phon! Scusami, te lo prendo
subito! »
In quel momento suonò il campanello e
certamente era Takeshi che s’era preso qualche minuto
d’anticipo. Mana aprì la porta, se lo trovò davanti e si guardarono. Taka guardò Mana, poi spostò lo sguardo su Satoru che si stava frizionando i capelli con un
asciugamano, poi di nuovo su Mana in versione “casalinga indaffarata”, restando
in silenzio. I due seppero che stava per spararne una, ne furono consapevoli
nel momento stesso in cui videro delle rughe formarsi sulla sua fronte. Stava
pensando, e quello non era mai un buon segno. Mana si premunì cominciando a
tirar fuori una delle sue scarpe col tacco altissimo.
« A quanto vedo avete fatto passi avanti
rispetto a qualche ora fa… »
Takeshi ebbe appena il tempo di scorgere Mana
sollevare la scarpa e atteggiarsi in una minacciosa posizione di lancio.
« Non ti mancherò. Lo sai. »
E Takeshi non seppe
resistere a quella voce così tenera,
amorevole e ruggente. Fulmineo si sciolse, avvicinandosi all’ignaro Manabu e abbracciandolo stretto con tale scioglievole melassa che a Gackt quasi venne da vomitare.
« Mana-chaaan, ti
adoro! »
Così facendo facilitò il compito a Mana, che la
scarpa non ebbe neppure bisogno di lanciarla.
« E ringrazia che i tuoi capelli ammortizzano
qualsiasi urto! » gli urlò il ragazzo prima di tornare verso la cucina.
Da là lo sentirono chiamare, qualche minuto
dopo, proprio mentre s’erano tranquillamente accomodati in salotto e stavano
chiacchierando del più e del meno come – finalmente – due bravi e vecchi amici
che si rincontrano dopo anni di latitanza.
« Venite, ho preparato! »
Entrambi s’alzarono, e Takeshi
consigliò a Gackt di dare un’annusata per aria, tanto per rendersi conto di
quali fossero le doti culinarie di Mana. Lui lo fece, e subito l’aroma un po’
forte e speziato del curry gli inondò le narici.
« L’hai preparato tu? » domandò a Mana mentre
si sedevano a tavola.
« Certo! Ogni singolo ingrediente è stato
selezionato da me! »
« Un giorno dovrai insegnarmi come si fa, è
spettacolare! »
Takeshi, che stava sollevando del riso dalla sua
ciotola, rimase coi bastoncini a mezz’aria e l’espressione perplessa.
« Cavoli, fai già progetti a lungo termine, eh Sacchan? »
Nel dire questo gli lanciò il riso che teneva
fra le bacchette facendoglielo finire nel piatto.
« Ma si può sapere di che t’impicci tu? »
Taka stava per replicare, ma il suo intervento
venne bloccato sul nascere dalla funerea percezione dell’ombra funesta di Mana
e di quella della sedia che il ragazzo dai capelli neri aveva sollevato, pronto
a fracassarla in testa al malcapitato amico.
« Sono spiacente, Gackt, se ti troverai
costretto ad assistere a scene di violenza gratuita, ma posso assicurarti che
non c’è altro modo. »
« No problem, succede
anche a me di volerlo pestare ogni tanto. »
« E ora veniamo a noi, Takeshi.
A casa mia non si spreca il cibo.
Sappi che se usi ancora un solo chicco di riso per i tuoi innominabili
giochetti ti costringo a mangiarlo dal secchio della spazzatura. »
Ed era spaventoso.
Inutile dire che, quella sera, Takeshi fece il bravo.
- continua -
N.d.A.
Un capitolo che mi ha fatto penare questo, mi scuso infatti se è giunto così
tardi ma tra esami e caldo non ho avuto proprio tempo di lavorarci. Un po’ più
serio per i canoni di Gackt, questo anche per via di Mana che altrimenti penso
si sarebbe rifiutato di apparire… ^^; se mi sciopera lui è la fine. Comunque,
finalmente ce l’hanno fatta visto? Si sono incontrati, la miccia è stata accesa
e d’ora in avanti potranno scatenarsi! Ci tengo a precisare che il nome di Közi me lo sono bellamente inventato, non essendoci alcuna
notizia riguardo a quale potrebbe essere il suo vero nome. Tanto d’ora in
avanti non mi servirà più, lo chiameranno tutti col suo nome d’arte. Takeshi continua ad essere la vittima della situazione e il
mio principale inviato all’interno di Mad Tea, povero
ragazzo, e finalmente mi sono potuta togliere una soddisfazione: dipingere il
caro Mana in versione casalingaaa!! Ahahahahah!!!
Spero
davvero che abbiate gradito il capitolo nonostante il caldo che mi ha castrato
l’ispirazione, e scusatemi ancora una volta per la lunghissima attesa!
Vitani