2.
The
descendant
«Altezza, vostro padre vi attende.»
Il Dio
degli Inganni si voltò appena in direzione della grande porta aurea, ora
spalancata, che delimitava l’ingresso alle sue stanze: sulla soglia v’era il
Sommo Cerimoniere di Odino, circondato da un drappello di guardie in alta
uniforme, e l’espressione pacata e quasi rispettosa con cui lo stava osservando
gli procurò uno spasmo d’insofferenza.
Loki non
riusciva a comprendere per quale motivo quella gente si ostinasse a
considerarlo come uno di famiglia, come una persona cara. Tornando ad Asgard da
prigioniero assieme a Thor – Thor che ancora lo chiamava fratello – si era aspettato parole d’odio e una punizione esemplare
e lo scherno del popolo; eppure Frigga
aveva pianto stringendolo a sé e il Padre degli Dei lo aveva mirato con occhio
dolente e commosso, e invece di comandare la sua disfatta lo aveva fatto
rinchiudere nei suoi vecchi alloggi ponendo soldati a controllare ogni suo
movimento e blocchi magici a impedirgli l’uso di incanti.
Loki
avrebbe preferito una pena capitale alla quale sfuggire con abili trucchi,
piuttosto che quella prigione dorata e le visite inconcludenti dei suoi
sciocchi parenti: l’amore che questi seguitavano a dimostrargli lo soffocava,
infastidiva e confondeva, giacché per lui sarebbe stato più logico rispondere
all’odio con l’odio. Invece costoro apparivano
semplicemente delusi ma al contempo felici per averlo ritrovato vivo, come se
mai l’avessero perduto. La loro debolezza lo rendeva debole a sua volta, e questo
non poteva tollerarlo.
Per
giorni e giorni si era dunque sentito una bestia in gabbia e aveva camminato da
una parte all’altra della stanza, talvolta con passi violenti e talaltra con
maggior lentezza, soffermandosi a guardare il cielo oltre le alte finestre e
studiando opzioni per un’eventuale fuga; e aveva ripensato con rabbia al
proprio fallimento su Midgard, all’occasione che aveva sprecato con tanta
leggerezza e al modo in cui avrebbe potuto, magari, tentare ancora la conquista
senza armate di alieni indisciplinati al seguito e, soprattutto, senza promesse
fatte a folli titani.
Ma le ore
erano trascorse e niente era cambiato e Loki era rimasto dov’era, intuendo che
presto o tardi Odino avrebbe fatto la sua mossa. Del resto era sempre stato
paziente – di certo più paziente di quello sciocco di Thor – e agire d’impulso
non lo aveva mai aiutato troppo.
Rifletteva
su questo, i verdi occhi puntati sulle lucenti acque e torri di Asgard
illuminate dal sole del meriggio, quando la voce ossequiosa del Cerimoniere lo
aveva d’un tratto raggiunto: Odino aveva infine scelto la mossa da fare.
«A cosa
devo tale novità?» domandò con freddo sarcasmo.
«Vostro
padre vi ha convocato nella sala del trono.» rispose l’altro inchinandosi: «Di più non mi è dato sapere, principe.»
Loki fu
nuovamente attraversato da un brivido di fastidio nell’udire quell’appellativo:
«Mi
adeguerò a ciò che Odino comanda. Fai strada.» si limitò però a dire,
imperioso, e si affiancò al dignitario sulla soglia tenendo le mani intrecciate
dietro la schiena.
Subito i
guerrieri della scorta li circondarono, disponendosi in due file ordinate, e il
Sommo Cerimoniere lo precedette lungo i vasti corridoi della reggia;
traversarono le molte lame di luce solare che penetravano dai colonnati,
infrangendosi in danzanti scintillii sulle armature delle guardie, e
incrociarono pochi cortigiani e dame che si fecero da parte per lasciarli
passare. Loki catturò i loro sguardi e si compiacque nel cogliervi timore e
disprezzo, e sogghignò. Quelle erano le reazioni che lo facevano sentire a
proprio agio, che gli miglioravano l’umore e gli ricordavano chi era realmente:
l’affetto degli sciocchi non faceva più per lui.
La sala
del trono era immersa nella penombra e solo tre figure vi si distinguevano con
chiarezza. Una era quella di Odino, assiso sul suo grande seggio d’oro e con lo
scettro in mano; poi la sua sposa, in piedi accanto a lui, e naturalmente Thor,
alla base della gradinata. V’erano anche diversi soldati disposti lungo il
perimetro del salone, immobili, mentre l’assenza di Lady Sif e dei Tre
Guerrieri fece assai piacere a Loki. Qualunque decisione avesse preso Odino, e se l’aveva presa, era ovvio che sarebbe
rimasta segreta ai più.
«Puoi
ritirarti adesso, Cerimoniere.» annunciò l’anziano re con un gesto vago.
Il
dignitario s’inchinò e abbandonò la sala in fretta, seguito dalla scorta,
lasciando il Dio degli Inganni solo al centro di quel vasto spazio, le spalle
dritte e le gambe ben piantate a terra.
Per una
manciata di secondi nessuno parlò, ma Frigga aveva gli occhi lucidi e Thor si
muoveva nervoso sul posto, incerto sul da farsi. Loki restò immobile a
fissarli.
Poi Odino
disse gravemente: «È giunto il momento, figlio mio.»
«Perché?» scattò il giovane dio, la voce aspra: «Perché ti incaponisci nel volermi
chiamare così? Per prenderti gioco di me? O magari per negare la verità?»
Il
sovrano scosse il capo canuto:
«E tu
perché ti ostini nel rifiuto? Sei mio figlio, Loki. Lo sei sempre stato e
sempre lo sarai, questa è la sola verità che conta.»
Loki
avanzò di un passo e nell’ombra le guardie si spostarono appena, pronte ad
agire qualora le cose fossero degenerate. Frigga tese le mani verso di lui:
«Amarti significa
forse prenderci gioco di te?» domandò tristemente.
«Il vostro amore si basa su una menzogna.» sibilò Loki sprezzante; «Il vostro
amore è una menzogna,
è pietà, e io non ne ho bisogno.»
«L’affetto non è compassione, fratello.» intervenne Thor.
L’altro gli
si rivolse con espressione febbrile, le braccia spalancate: «Allora è follia.
Voi siete incapaci di detestarmi, e dunque siete folli. Non sarebbe più
semplice rispondere all’odio con l’odio?» interloquì. Le sue parole suonavano
convinte, eppure dentro di sé Loki sapeva perfettamente di non essere in grado,
nemmeno lui, di detestare fino in fondo coloro che aveva creduto per un tempo
lunghissimo la propria famiglia.
Odino si
alzò dal trono con un profondo sospiro e disse:
«Hai
ragione, figlio, e lo stesso vale per te. Tuttavia, nonostante l’amore che ti
portiamo, non posso lasciarti impunito per le malefatte che hai commesso. Ho
rimandato questo momento più che ho potuto e adesso non posso più permettermi
di attendere.»
Loki fece
un mezzo sorriso, inarcando le sopracciglia: «Finalmente. E dimmi, Padre degli
Dei, quale destino hai pensato per me? Come ripagherai il male che ho seminato?» lo provocò.
Il re non
rispose, non subito. Raggiunse invece la sommità della gradinata del trono e vi
si pose proprio al centro, tenendo lo scettro con entrambe le mani; la regina e
il Dio del Tuono distolsero lo sguardo e il sorriso di Loki svanì, mentre una
cappa d’oscurità sembrava calare su Odino e concentrarsi in lui. Poi questi
alzò il bastone d’oro dei sovrani di Asgard e con grande forza lo battè a terra
per tre volte: una sottilissima crepa di luce parve disegnarsi sugli scalini e
sul lucido pavimento, e serpeggiando raggiunse i piedi di Loki.
Quivi si
fermò e gli si dipanò attorno in un alone luminescente, e il Dio degli Inganni
avvertì una fitta al petto e con un grido si piegò in avanti serrando i pugni.
«Io ti
bandisco da Asgard, Loki figlio di Odino, e sottraggo i poteri dal tuo corpo
immortale.» tuonò il Padre degli Dei: «Sarai esiliato su Midgard, tra gli
umani che tanto disprezzi, e come tuo fratello prima di te dovrai apprendere
umiltà e onore per poter fare ritorno.»
Il
giovane dio crollò su un ginocchio, sentendosi debole e colmo al contempo di
una furia cieca per l’onta che quel vecchio pazzo lo stava costringendo a
subire. Urlò di nuovo, provando a rimettersi in piedi e a contrastare la forza
che lo asserragliava, ma Odino parlò ancora:
«Impara,
figlio, o la tua condanna sarà di vivere e morire da mortale tra i mortali.»
Picchiò
lo scettro a terra per la quarta volta e per un istante la luce si fece così
intensa da cancellare le forme della stanza e le sagome degli astanti. Thor e Frigga
chiusero gli occhi.
Lentamente
il fulgore scemò, e così il drappo tenebroso che gravava sul sovrano. Madre e
figlio riaprirono le palpebre e il Padre degli Dei voltò le spalle al salone.
Loki era scomparso
nel nulla.
Il Dio
degli Inganni precipitò nel vuoto per attimi lunghi quanto una vita terrestre.
Attorno a
lui vorticavano il cosmo e aurore boreali, e stelle pulsanti e altre morenti, e
pianeti e galassie che riusciva soltanto a intravedere. Con mente confusa
rimembrava le proprie passate cadute attraverso gli universi, i viaggi che
aveva compiuto: ricordava quando si era lasciato andare sotto gli sguardi
disperati di Thor e Odino, ricordava i mondi che aveva scoperto e i popoli in
cui si era imbattuto – i titani, i chitauri. Gli umani.
Era stato
vinto per l’ennesima volta, e vilipeso, abbandonato a una sorte ridicola e
beffarda che lo allontanava sempre di più dai suoi obiettivi, dai
riconoscimenti che bramava.
Precipitò
nel vuoto ancora e ancora, fin quando i suoi occhi non furono colpiti da un
bagliore accecante e il suo corpo oltrepassò qualcosa di vaporoso e umido che
rassomigliava a una cortina di nuvole. Loki distinse, dall’alto, campi e strade
e piccoli punti luminosi immersi nella penombra violetta che segue il tramonto,
e seppe che Midgard era sotto di lui, in attesa.
L’impatto
col suolo fu meno violento del previsto, o quantomeno tale gli risultò. Per un
po’ rimase sdraiato a faccia in giù, le dita conficcate nella terra odorosa e
fresca, il cuore che gli martellava furiosamente e le membra fastidiosamente
doloranti: quella era la sua rovina, e non ci sarebbero state stupide lezioni
da apprendere in grado di restituirgli ciò che aveva perduto, poiché lui non
era Thor e non possedeva il suo debole animo.
Mille
volte meglio una pena capitale cui sottrarsi, si ripeté, mille volte meglio la
morte di quel ridicolo atto di clemenza! Si sollevò a fatica, maledicendo la
stanchezza terrena che lo pervadeva, e rovesciando indietro la testa gridò al
cielo tutta la sua rabbia e la sua frustrazione, e bestemmiò contro ognuno e
ogni cosa e vagò come ebbro tra i verdi campi.
Arrivò
così nei pressi del ciglio di una strada e si accorse di non essere solo: un
veicolo di medie dimensioni si era fermato a poca distanza da dove si trovava
lui, i fari accesi che illuminavano un’ampia zona tutt’intorno, e un’ombra
esile ne era scesa.
Loki
aguzzò la vista. Era una donna giovane, con indosso una maglia e dei calzoni
stretti tipicamente midgardiani che ne mettevano in risalto le forme snelle, e
lunghi capelli che nel chiarore morente del crepuscolo sembravano del color
dell’oro brunito. Avanzava cauta ma sicura e l'accenno di un sorriso incredulo
si andava dipingendo sul suo volto.
Quando fu
a meno di un metro da lui la donna si fermò, lo squadrò da capo a piedi e
infine sorrise apertamente: «Non posso crederci. Sei tu!» esclamò, e la sua voce tradiva emozione.
Il dio
caduto si lasciò sfuggire una risata di scherno: «Dunque tu sai chi sono,
mortale? Ho forse accidentalmente ucciso qualche tuo congiunto nella grande
città che ho invaso?»
Con sua
enorme sorpresa lei scoppiò a ridere di rimando, affatto sconvolta:
«Per
fortuna io vivo a Boston! E no, non so chi sei, ma ti ho già
incontrato e ho sperato di poterti ritrovare, un giorno.» rispose
tranquillamente.
Loki
corrugò la fronte: «Non riesco a comprenderti.»
«Stoccarda.» disse la giovane; «“Voi siete nati per essere governati”.»
Quel
riportare sorridendo le parole ch’egli aveva pronunciato e l’assenza di paura
che ostentava fecero pensare a Loki che la donna non lo ritenesse né una
minaccia né un nemico; inoltre la sua postura decisa e la luce fiera che le
brillava negli occhi non gli erano del tutto sconosciute, e con rinnovato
stupore la riconobbe: era la mortale che si era alzata subito prima del vecchio
sciocco, nella piazza in cui gli umani si erano inginocchiati a lui. Quella sera
portava un abito blu come la notte trapunto di scaglie d’argento e delicate
calzature azzurre e aveva i capelli raccolti, ma i lineamenti gradevoli e gli
occhi intelligenti erano gli stessi.
«Tu. Tu
non sei fuggita come i tuoi simili, quella notte, e mi guardavi.»
«Ti
guardavo, sì, perché ero curiosa e perché hai detto cose interessanti.»
Loki le
si avvicinò, sovrastandola con la sua statura e ghignando cortesemente:
«Io sono
Loki, assurda mortale, e vengo da Asgard. Qual è il tuo nome?» le domandò.
Non che
gl’importasse davvero, dal momento che aveva ben altri pensieri a cui far
fronte, eppure qualcosa in lei lo incuriosiva a sua volta e gli suggeriva che
avrebbe potuto tornargli utile: era solo e senza poteri, e un’alleata
volontaria avrebbe costituito una piacevole novità.
La donna
gli rivolse l’ennesimo, incredibile, arrogante sorriso:
«Io sono
Erin Anwar e vengo dall’Irlanda.» lo parafrasò; «Il piacere è tutto mio.»
> Note a piè
di pagina
E qui si comincia a entrare nel vivo: gli Avengers hanno
vinto, Loki è tornato ad Asgard insieme a Thor e al Tesseract ed Erin lo ha
ritrovato. Cosa sia successo a lei dopo la notte di Stoccarda, quanto tempo sia
passato da allora e come sia capitata vicino al luogo in cui è caduto sono
questioni che rientreranno nel prossimo capitolo.
Qui inizio anche a delineare la mia visione del Dio degli
Inganni e dell’intera famigghia reale
asgardiana, ed è una parte assai delicata. So che molti immaginano crudeli
prigionie e labbra cucite e chissà cos’altro, terribili punizioni inflittegli
come fio da pagare per le malefatte commesse, ma è pur vero che non ritengo
Odino capace di fare realmente del male al figlio adottivo – non adesso,
almeno, sebbene nelle storie originali lo diventi in seguito all’assassinio di
Baldr (quando incatena Loki alla roccia col simpatico rettile che gli sputa
veleno in volto); inoltre secondo me esiliarlo sul mondo che ha tentato di
soggiogare, rendendolo oltretutto debole come un mortale qualsiasi, è di per sé
una condanna sufficientemente pesante per un dio che paragona Midgard e i
midgardiani a formiche e che è nato per essere re, molto più pesante di quanto
lo fu per Thor.
Soliti aneddoti tecnici:
– la “cappa di oscurità” che sembra calare su Odino fa
riferimento a una cosa che Loki dice a Thor nel film, quando gli domanda “quanto
potere oscuro” abbia dovuto raggranellare il Padre degli Dei per permettere al
figlio maggiore di tornare sulla Terra in assenza del Bifröst;
– il titolo del capitolo è ripreso da quello del film The descendants (per noi italici Paradiso amaro) con George Clooney, e
sta a indicare tanto la “discendenza” quanto la “discesa”, la “caduta”, la “rovina” (da descent);
– una canzone che si abbina perfettamente a questo capitolo e
ai personaggi in generale è Fine line
di sir Paul McCartney, poiché oltre ad essere bella ha un testo che sembra
scritto apposta per i due divini fratelli;
– no, Erin non è del tutto sana di mente, no :D
Ringrazio chi finora ha recensito, messo la storia tra le
seguite e letto soltanto: continuate a dirmi cosa ne pensate, mi raccomando.
Ossequi asgardiani e alla prossima settimana!