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Autore: Littlefinger    11/01/2013    1 recensioni
Una nuova avventura per Neil McRoberts. Stavolta il mago-mercenario finisce senza volerlo nel mezzo d'intrighi fra vampiri, mannari e altre creature sovrannaturali in Germania, nel cuore della Foresta Nera.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neil McRoberts'
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Gli alberi si alzavano maestosi in ogni direzione e le loro chiome creavano un tetto che filtrava la luce del sole che tramontava. Un coro di cinguettii e il frusciare di qualche animale fra le foglie e il sottobosco  mi disturbava non poco, mentre guardavo il paesino attraverso un paio di binocoli. Josephine era sdraiata a terra su una coperta a quadri e stava ascoltando un po’ di musica, poco interessata al mondo che la circondava. Sembravamo proprio una coppietta in gita nel bosco: io a fare bird watching, lei a rilassarsi.
    Ci eravamo posizionati a circa cinquecento metri in linea d’aria dal paese di Glavcoso. Lo studiavo da distanza di sicurezza, in preparazione del lavoro di stanotte. Il sole sarebbe tramontato fra poco e sarei partito a notte fonda, quando il villaggio sarebbe stato fra le braccia di Morfeo. Rimisi il binocolo nello zaino e cominciai a prepararmi per la nottata. Tolsi fuori il coltello multiuso e lo ficcai nella tasca della giacca a vento, insieme a un paio di profilattici e al rotolo di nastro, poi verificai che il visore notturno funzionasse. Infine estrassi dai pantaloni la SIG, verificai che non ci fosse un colpo in canna e che la sicura fosse inserita e la misi nello zaino, in compagnia delle altre armi. Non avevo bisogno di un’arma per la ricognizione e se avessi avuto necessità di difendermi - ossia non avrei avuto nessuna possibilità di filarmela a gambe levate - avrei usato la magia. Diedi un colpetto sulla spalla a Josephine per avvertirla e mi sdraiai, cercando di rilassarmi un po’ prima dell’azione.

    Mi svegliai qualche ora più tardi, quando Josephine ricambiò il favore, strattonandomi alla spalla. Mi alzai e mi stiracchiai. Il piccolo campo era illuminato da una torcia elettrica, ma oltre l’oscurità era fitta dato che la luce della luna veniva bloccata dal tetto di fogliame. Dal punto di osservazione si vedeva l’illuminazione del paese. Controllai che avessi tutto quello che mi serviva e accesi il visore notturno. Funzionava perfettamente.
    Avrei potuto usare un incantesimo su degli occhiali normali - avrei potuto usare parecchi incantesimi per facilitarmi il lavoro - ma non conoscendo il potenziale magico dell’obiettivo non volevo rischiare. Un mago capace poteva costruire una rete che permetteva d’individuare l’esecuzione di incantesimi. Una rete semplice poteva “squillare” come un allarme, ma reti più complesse potevano anche dare la posizione dell’intruso o la quantità di energia magica utilizzata. Appena arrivato nella zona avevo fatto un controllo sulla radiazione magica di fondo, ma i risultati erano così sballati e fuori dalla norma che non ero riuscito a trarne nessuna conclusione sensata. Tentare con un rituale di ricerca sarebbe stato tempo sprecato. Probabilmente quella situazione dipendeva dalla presenza del drago e ciò non m’incoraggiava. Avevo dunque deciso di fare una ricognizione acqua e sapone, sperando che mi ricordassi tutte le procedure.
    «Se non torno entro tre ore, smonta tutto e torna a Friburgo. RV a casa di Yelena domani alle quattordici. Se non ci sarò, vorrà dire che dovrete trovare un altro folle per derubare il drago.»
    Josephine annuì.
    M’incamminai verso il buio e controllai che il telefono fosse in modalità silenziosa. Erano anni che non facevo una ricognizione acqua e sapone e avevo paura di dimenticare qualcosa che m’incasinasse la  vita più tardi.
    Dopo una ventina di passi, quando fui certo di essere abbastanza lontano dal campo, mi fermai per fare pipì. Era meglio soddisfare certi bisogni prima di entrare in azione. Poi indossai il visore notturno e il mondo si colorò di verde. Dovevo percorrere circa settecento metri nel bosco, prima di raggiungere le case più esterne del paese, quindi mi ci voleva almeno un quarto d’ora, considerando che dovevo muovermi in una foresta in collina. Il sottobosco non era molto sviluppato e lo spostamento non fu troppo faticoso. Quando arrivai in vista delle prime case, spensi il visore. Più avanti ci sarebbe stata troppa luce per poterlo usare efficientemente e volevo che gli occhi si abituassero alla notte.
    Mi guardai intorno, alla ricerca di un albero che fosse riconoscibile. Ne trovai subito uno che sembrava essere stato spezzato a metà da un fulmine. Mi avvicinai e cominciai a spostare le foglie morte intorno alle sue radici e scavai una piccola buca nel terreno friabile. Spensi il telefono e tolsi i soldi dal portafoglio, infilandoli nella tasca posteriore dei jeans. Dopo di che presi un profilattico, lo aprii e misi dentro il tutto. Annodai la base, lo sistemai nella buca insieme al visore notturno e la ricoprii. Dovevo rendermi “sterile” per fare il lavoro in maniera tale che se fossi stato ucciso non sarei stato riconoscibile. Se fossi stato catturato, invece, la cose sarebbero state differenti. Se mi avessero torturato, presto o tardi avrei ceduto. Non credete ai fumetti, dove il grande eroe non urla per non dare soddisfazione al cattivone. Dopo alcune sessioni di waterboarding e di altri abusi più o meno umilianti, tutti cedono. Ognuno ha un limite di sopportazione, che sia un’ora, un giorno o una settimana.
    Non avevo lasciato i documenti a Josephine perché non mi fidavo di lei. In caso le cose si fossero messe male per me e fossi stato in qualche modo tradito dai miei datori di lavoro, sarei fuggito direttamente a Parigi, via Strasburgo, e da là avrei potuto raggiungere qualsiasi parte del mondo e sparire. Piano che difficilmente avrei potuto realizzare se Riccioli d’Oro fosse stata in possesso dei miei documenti. Avrei potuto anche utilizzare dei Portali, ma ci vuole tempo per prepararli e in questo caso preferivo una via di fuga molto veloce.
    Era tempo di concentrarsi sul lavoro. Avevo in mente di percorrere tutto il confine a valle del paese, alla ricerca del punto più tranquillo per avanzare verso il centro.  L’idea era di costeggiare gli edifici e cercare di memorizzarne fattezze particolari o interessanti, la cui conoscenza avrebbe potuto farmi comodo più avanti.  Gran parte erano piccoli villini con giardino e un muretto di cinta che li separava  dalla foresta. Quasi tutte le proprietà erano adiacenti e condividevano la recinzione, poche altre erano un po’ staccate e selva incolta occupava lo spazio fra i due muri. La disposizione era piuttosto lineare e ordinata. Glavcoso aveva approvato un ottimo piano regolatore per il suo paesello.  
    Finalmente trovai un punto che mi permetteva di attraversare la fila di abitazioni. Una centralina elettrica occupava una piccola piazzola e gli edifici adiacenti erano a una certa distanza, probabilmente per questioni di sicurezza. La luce riflessa dalla luna illuminava abbastanza perché una persona alla finestra potesse vedere un losco figuro camminare per la strada, per cui dovevo muovermi tenendomi il più possibile fra le ombre. L’ora era quella più conveniente per un’operazione di quel tipo - a quell’ora della notte gran parte della gente si trova nella parte più profonda del sonno - ma nessuno mi assicurava che un tizio che soffriva d’insonnia in quel momento non fosse alla finestra a guardare la luna oppure che una vecchia zitella non stesse curiosando alla ricerca di succosi pettegolezzi. Ok, eravamo abbastanza certi che non ci fossero vecchi - pardon, anziani - nel paese, ma avete capito.
    Le stradine secondarie che risalivano la collina erano poco illuminate per cui potei spostarmi abbastanza velocemente, però una volta giunto alla via principale, che tagliava il paese a metà, la storia cambiò e mi fermai per decidere il da farsi. Dal mio angolino potevo vedere la chiesa dall’altro lato del paese, a circa trecento metri. Era il mio obiettivo principale, ma anche la taverna m’incuriosiva. Si trovava dalla parte opposta alla chiesa ed era ancora in attività. C’erano alcune persone davanti all’entrata, con un bicchiere in una mano e una sigaretta nell’altra: tipica notte di divertimenti in un paesello sperduto. Una tenue luce usciva dalla vetrata del locale, segno che gran parte delle luci interne erano spente e il locale si apprestava a chiudere.  Dovevano essere gli ultimi clienti che consumavano il bicchiere della staffa.
    A quel punto decisi di sfruttare quella situazione. Se il locale era ancora aperto, nessuno si sarebbe stupito se  una persona camminava per la strada per tornare a casa dopo una serata a base di birra e nicotina. Tornai indietro, percorrendo le stradine che portavano alle case più a valle e poi risalii verso il centro in direzione della chiesa. Quando arrivai nuovamente al livello della strada principale, mi trovavo quasi di fronte all’edificio. Si trovava dopo una piazzetta illuminata da quattro lampioni in ferro battuto e oltre una scalinata in marmo. L’edificio sembrava abbastanza antico. Il portone principale era sormontato da un arco gotico e due rosoni si trovavano ai suoi lati. Il campanile si stagliava alto, tappezzato da bifore e trifore, anch’esse di stile gotico.
    La situazione alla taverna non sembrava essere cambiata, anche se da questa distanza non potevo vedere nel dettaglio. Rimasi in attesa per almeno dieci minuti prima che l’allegra brigata cominciasse a salutarsi. Quando rimasero solo due persone, un uomo uscì della taverna. Sembrava essere abbastanza alto, dato che sovrastava con tutta la testa gli altri due. I capelli brizzolati erano tinti di giallo dalla luce dei lampioni e teneva uno straccio sulla spalla. Doveva essere il padrone del locale. Gli altri due lo seguirono all’interno e dopo un po’ le luci si spensero. Interessante: i tre vivevano nel locale oppure c’era un’uscita secondaria. Di norma, i locali pubblici dovevano avere anche un’uscita di sicurezza, ma per quale motivo i tre avrebbero dovuto uscire dall’altra parte? Forse dovevano aiutare il padrone a spostare qualcosa. Oppure erano entrati nei sotterranei. In ogni caso una visitina al retro della taverna era d’obbligo.
    Uscii dalla strada laterale e mi misi a camminare lungo la via principale. Il colletto della giacca a vento alzato, mani in tasca, passo tranquillo. Dovevo appartenere al luogo, mostrare che avevo un motivo per essere là. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe dovuto pensare semplicemente a un tizio che tornava a casa dopo una serata al pub. Diedi uno sguardo all’orologio, come un marito preoccupato di svegliare la propria moglie. Mettendo in conto il tempo per tornare al campo, avevo circa due ore per scovare quei famigerati sotterranei.
    Percorsi un lato della piazzetta, ma, anziché salire per la scalinata, presi la strada laterale che saliva verso le case in cima alla collina. Il portone  principale era sicuramente chiuso per la notte, ma di solito ci sono delle entrate laterali che danno sulle stradine intorno a essa.  Anche quella chiesa l’aveva.  La sorpassai senza guardarla direttamente e continuai a camminare. Prima di entrare volevo avere un’immagine completa dell’edificio. C’era una porticina identica anche su lato opposto, segno che entrambe davano sulla chiesa e non in una sagrestia.  Mi avvicinai e provai a premere la maniglia. Era aperta e dentro non c’era nessuno.
    L’interno della chiesa era costituito da una singola navata, divisa in tre corridoi da due file di panche. Agli estremi del transetto c’erano due cappelle dedicate ad altrettanti santi di cui ignoravo il nome e di cui non potevo leggere le targhette per via della flebile illuminazione generata da alcune candele elettriche. Era comunque curioso trovare una chiesa cattolica nella protestantissima Germania. Forse Glavcoso aveva fatto male le sue ricerche per nascondere il vero utilizzo del luogo di culto.
    Nell’abside, dietro l’altare, c’era il tabernacolo e accanto a esso due statue di un angelo, forse San Michele, a grandezza naturale - supponendo che un angelo abbia le stesse proporzioni di un uomo, ma non ne ho mai incontrato uno, per cui non ne sono certo.
    Se fossi una chiesa e avessi una cripta, dove metterei l’entrata?
    Percorsi il perimetro dell’edificio alla ricerca di qualcosa d’interessante e fui premiato praticamente subito. L’ingresso alla cripta si trovava nell’abside, accanto a una della statue di San Michele. Erano delle semplici scale, circondate da un cordone rosso legato a dei paletti di metallo. Allungai le mani verso la recinzione e mi concentrai alla ricerca di eventuali trappole magiche. Era una pratica magica passiva, per cui non c’era il pericolo di rivelare la mia presenza. Vedetela un po’ come i sonar dei sottomarini: finché fossi rimasto un bersaglio passivo, l’unico modo di trovarmi era una ricerca attiva, un ping del sonar di un mago che mi cercava. Un eventuale mago in ascolto, invece, non avrebbe sentito nulla.
    Il cordone era pulito, per cui lo presi e aprii il lato che dava sulle scale. Lo superai e lo rimisi a posto, senza però fissarlo completamente, in maniera tale che non mi bloccasse in caso di fuga improvvisa, lasciandolo però in una posizione che non insospettisse un osservatore. Scesi molto lentamente, i muscoli tesi nel muovermi piano per non fare troppo rumore; lo sguardo fisso in avanti, pronto a reagire in caso qualcuno - o qualcosa - fosse apparso alla base delle scale. A metà della discesa m’immobilizzai e rimasi in ascolto.
    Nulla, solo il timido ronzare delle lampade a fluorescenza che illuminavano la scala e la cripta.
    Scesi di tre gradini e ripetei l’operazione.
     Ancora nulla d’insolito.
    Iterai il processo fino ad arrivare alla cripta vera e propria.
    Non ero un esperto di architettura, ma sembrava essere abbastanza antica. Basso Medioevo, forse.  I muri erano formati da ossa e alcuni scheletri, probabilmente di persone più importanti, erano adagiati su delle alcove scavate nei muri.  Sul soffitto, a distanze periodiche, c’erano le lampade che illuminavo i locali. In fondo alla al corridoio principale - ai lati c’erano due cappelle che contenevano roba interessante solo per un archeologo - era presente qualcosa che sicuramente non risaliva al Medioevo: una porta metallica.
    Mi avvicinai, sempre con l’orecchio teso, e la studiai. Sembrava essere abbastanza robusta e in alto aveva una di quelle finestrelle per controllare chi c’è dall’altra parte. Allargai la mano davanti a essa e subito sentii un incantesimo di protezione. I peli del braccio si rizzarono e mi venne la pelle d’oca.
    Quello era un problema. Potevo provare ad aprirla e rischiare che l’incantesimo si azionasse, oppure potevo fermarmi e continuare la ricognizione alla taverna. Cercai di analizzare l’incantesimo. Era abbastanza standard: se si attraversava la soglia scattava un allarme, ma non possedeva nessuna difesa attiva, per cui, anche se l’avessi fatto attivare, nessuna scarica elettrica mi avrebbe fulminato e nessuna palla di fuoco mi avrebbe abbrustolito. Sicuramente era stato congiurato in quel modo perché era una porta molto usata e non c’erano mai stati problemi di sicurezza - quale folle entra non invitato nella tana di un drago? Io, signori, Neil McRoberts - quindi il mago aveva predisposto un incantesimo non pericoloso e per il quale bastava possedere un oggetto “segnato” magicamente per poter passare indisturbati.
    Inoltre era molto facile da bypassare. Chiamai Mic. Ovviamente era al corrente della situazione e non comparve come suo solito in un tripudio di luci e acrobazie aeree, ma rimase invisibile e l’unica prova della sua presenza era la voce che mi parlava all’orecchio. Gli chiesi di controllare l’incantesimo sulla porta e confermò la mia analisi: allarme standard facile da bypassare. Lo congedai ringraziandolo e mi misi all’opera.
    Naturalmente poteva esserci un posto di guardia dall’altra parte e non avrei potuto andare avanti, ma il contro-incantesimo mi sarebbe comunque servito per la notte successiva, quando sarei entrato per completare il lavoro.  
    M’inginocchiai davanti alla porta e mi misi in ascolto.
    Dall’altra parte non giungeva nessuno suono. Ottimo. Presi il Leatherman, il coltello multiuso, dalla tasca ed estrassi il coltellino. L’incantesimo d’allarme legava un oggetto a una precisa azione - un trigger, come si dice in gergo. Se veniva eseguita senza avere l’oggetto “segnato” nelle vicinanze allora l’incantesimo si attivava. In quel caso l’oggetto era la porta e il trigger la sua apertura.
    Una maniera di bypassarlo era quella di modificare uno dei due campi. Non modificare; era un termine scorretto. Tecnicamente è impossibile modificare un incantesimo già congiurato. Una volta eseguito le energie in gioco sono quelle e non si può più fare nulla. Si trattava, più correttamente, d’ingannare l’incantesimo originale e fargli credere che l’oggetto fosse un altro.
    Cominciai a intagliare col coltellino sulla malta del muro accanto alla porta, rasente al pavimento in modo che non potessero venire notati da un’occhiata casuale. Tracciai una specie di porta stilizzata e poi la circondai con un quadrato. Più rettangolo che quadrato, visto che non stavo lavorando con riga e compasso su carta millimetrata, ma l’accuratezza della geometria dell’incantesimo in quel caso era trascurabile. Trasferii un po’ di energia dalla porta alla sua rappresentazione sul muro. Era una quantità così irrisoria che forse non sarebbe stata rilevata nemmeno alle reti di controllo che si usano a Xiam durante gli esperimenti che richiedono un’accuratezza di qualche parte per milione. Figurarsi un ipotetico sistema di controllo costruito da un drago o da qualche suo scagnozzo. A meno che uno dei suoi sgherri non fosse laureato Xiam e si fosse preso la briga di costruire una rete di controllo così dispendiosa da richiedere un circolo di trentasei apprendisti per rimanere attiva. Era improbabile.
    Avevo appena costruito una replica magica della porta, nel senso che, magicamente parlando,  l’oggetto in sé e la sua rappresentazione erano equivalenti. È lo stesso principio che viene usato nelle bambole voodoo. Infine si trattava semplicemente di ingannare l’incantesimo di allarme nel fargli credere che la rappresentazione fosse la vera porta. Tracciai un paio di circonferenze concentriche intorno alla figurina per amplificarne il segnale e completare il trucchetto.
    Mi alzai e chiusi il Leatherman, infilandomelo nuovamente nella tasca della giacca a vento. In teoria non dovevo più preoccuparmi dell’incantesimo e potevo aprire la porta senza correre il rischio di attivarlo. L’unico problema era che non avevo la minima idea di cosa potesse esserci oltre. Per quel che ne sapevo poteva essere un magazzino di candele per la chiesa - difficile, visto lo spioncino - oppure poteva esserci un tizio armato di fucile pronto a farmi saltare la testa.
    Al diavolo! Tanto dovevo trovare un modo per entrare nei sotterranei, per cui non aveva senso tentennare e perdere tempo. Se le cose dovevano andare a donnine di facili costumi, ci sarebbero andate comunque se non avessi saputo come entrare nella tana del drago, per cui al diavolo tutto e avanti con il lavoro.
    Continuavo ad ascoltare con attenzione, in attesa di un qualsiasi suono che potesse rivelarmi qualcosa, ma il silenzio era immutato. Posai la mano sulla maniglia e mi preparai ad aprire.
    L’abbassai lentamente, tutti i muscoli in tensione pronti a reagire al minimo cenno di pericolo.
    Niente di niente.
    La spinsi in avanti, tenendomi appoggiato a essa, in modo da mostrarmi il minimo possibile. Pian piano il mio raggio visivo si allargò mostrandomi un desolato corridoio decisamente più moderno della cripta dal quale arrivavo. I muri erano intonacati grezzamente e possedevano quella monotona colorazione grigia tipica degli edifici in costruzione. Le lampade continuavano imperterrite nella loro periodica disposizione  lungo il corridoio, che continuava per un altro paio di metri, terminando in un’altra scala che sprofondava in basso.
    Scesi come prima, fino ad arrivare a tre quarti della sua lunghezza. Stavolta avevo sentito dei suoni.
    Erano delle voci: una costante che sembrava uscire da un altoparlante e altre due che parlavano a tratti, alternandosi. Parlavano in tedesco e non sapevo cosa dicessero. Probabilmente stavano guardando la TV e commentavano il programma. Era il primo posto di guardia che incontravo, per cui voleva dire che mi stavo avvicinando al centro della tana. Un’altra nota positiva era che la sicurezza era abbastanza lassista, se le guardie si rilassavano a guardare la TV durante il lavoro. Immaginai che non c’erano molti tentativi di attacco alla tana di un drago, ma conoscevo colleghi che erano stati cacciati a calci nel sedere per trasgressioni molto più trascurabili.
    Mi avvicinai un altro po’, scendendo per un paio di gradini, fino quasi ad arrivare alla base della scala. Le voci giungevano da una porta a sinistra, mentre il corridoio proseguiva avanti per un paio di metri prima d’incrociarsi perpendicolarmente con un altro. Provai ad allungare la testa per vedere se riuscissi a dare un’occhiata dentro la stanza, ma non mi arrischiai più di tanto. Se io arrivavo a veder loro, allora loro potevano vedere me, per cui non mi pareva il caso di tirare troppo la corda. Finora la sicurezza non era certo professionale, ma non avrei mai creduto che fossero stati così stupidi da piazzare il televisore in maniera d’avere le spalle contro la porta.
    Oggi non era il caso di rischiare, ma domani non avrei potuto fare altrimenti. Per ora l’importante era aver trovato la tana del drago. Risalii la scala e, tornato nella cripta, richiusi la porta e cancellai i simboli magici che avevo tracciato sul muro. Percorsi la strada inversa con la stessa attenzione che avevo avuto all’andata per evitare incontri spiacevoli, magari con qualche cultista in ritardo per il suo turno notturno.
    Non successe nulla d’inaspettato per cui, uscito dalla chiesa, guardai l’orologio. Avevo ancora un po’ di tempo prima di tornare al campo. L’idea era quella di fare una visitina alla taverna, almeno all’esterno, anche se più passeggiavo per il paese maggiore era il rischio di essere visto da qualcuno.
    M’incamminai verso la taverna. Qual era la probabilità che una persona, vedendomi, pensasse “Ah, ecco, quella persona che cammina di notte è sicuramente un ladro che domani tornerà per rubare qualcosa nella tana di Glavcoso”? Il gioco valeva la candela.
    Decisi di muovermi lungo le stradine a monte della via principale, per avere un conoscenza migliore di tutto il paese. Quando ero abbastanza certo di essere all’altezza dalla taverna, scesi verso la strada principale.  Ci arrivai due traverse oltre l’edificio. Risalii e tornai indietro fino a trovare il retro della taverna.
    C’era una porta, accanto a un bidone della spazzatura, e un auto era parcheggiata là di fronte. Era una vecchia Volkswagen, la cui vernice consunta e le macchie di ruggine indicavano che aveva visto tempi migliori.  In alto a destra rispetto alla porta, c’era una piccola finestrella, una di quelle che si aprono dall’alto.  Come al solito, rimasi un attimo in attesa all’angolo, verificando che non ci fosse nulla in corso, dopo di che mi avvicinai con cautela alla porta, drizzai le orecchie e provai ad aprirla. È sempre la prima cosa da fare, a volte si è fortunati e qualcuno l’ha dimenticata aperta.
    Non era quello il caso. La seconda cosa da fare era cercare la chiave. Solitamente i proprietari lasciano una chiave di riserva da qualche parte: sotto lo zerbino, dietro la cassetta della posta oppure sotto una pietra in giardino. Nonostante ciò era vero per molte residenze, non sapevo se fosse una pratica usata anche per i negozi. Sicuramente non era sotto il bidone della spazzatura, considerando che veniva spostato a ogni raccolta. Passai le dita sul davanzale della finestrella senza trovare nulla. Il muro era liscio e ben curato e non c’era nessun buco o crepa in cui potesse stare una chiave. Provai a dare un’occhiata dentro l’auto, ma l’unica cosa interessante al suo interno era un numero di Nuts sul sedile del passeggero. Tutte le portine erano chiuse.
    Le uniche informazioni che potevo acquisire sull’edificio erano all’esterno. Aprii il bidone della spazzatura e controllai gli ultimi sacchi. Gran parte della gente non si rende conto quanto si possa scoprire dai rifiuti di una persona. Forse qualcuno crede che i bidoni della spazzatura siano dei portali interdimensionali che fanno sparire i rifiuti, ma in realtà sono una fenomenale fonte d’informazioni. Dalla quantità di avanzi si può capire quante persone abitino in una casa o se la sera prima ci fosse qualche ospite. Si scopre quale sia il take-away cinese preferito guardando le confezioni gettate e dalle buste pure i negozi preferiti per lo shopping. E non parliamo di scontrini, ricevute e fogli di carta con appunti o numeri di telefono. Come si suol dire: la spazzatura di un uomo è il tesoro di un altro.
    I primi sacchi non contenevano nulla di strano o interessante. Li aprii con cura e feci attenzione a non danneggiarli. Quando si fanno certi lavori è fondamentale lasciare tutto come si è trovato se non si vuole che nessuno sospetti qualcosa. A circa metà del bidone, invece, trovai una busta nera, diversa in consistenza rispetto alle precedenti: era piena di vestiti da donna. Alcuni erano in condizioni pietose - sporchi e strappati - mentre altri erano completamente distrutti e chiamarli vestiti era un eufemismo. Vidi anche alcune macchie di sangue. Rimisi tutto a posto e chiusi il bidone. Quel ritrovamento era illuminante: era la prova che anche la taverna era collegata al sotterraneo-harem di Glavcoso. Perché non avessero bruciato il tutto, anziché gettarlo nella normale spazzatura, era un mistero, ma non mi aveva stupito. Tutta la sicurezza del villaggio sembrava essere gestita da un bambino di sei anni.
    Era ora di tornare al campo, prima che Riccioli d’Oro pensasse che fossi stato compromesso e smontasse baracca e burattini per tornare a Friburgo.  Attraversai la strada principale lontano da entrambi gli obiettivi e poi uscii dal paese dal punto in cui era entrato, vicino alla centralina elettrica. Ritrovai con facilità l’albero colpito dal fulmine, recuperai documenti, cellulare e visore notturno e mi diressi in linea retta verso il campo.
    Quando arrivai, Josephine mi stava aspettando, sdraiata comodamente nel suo sacco a pelo. Al sentire i miei passi aveva acceso la torcia elettrica e me l’avevo puntata contro. Le raccontai i punti salienti dell’operazione mentre m’infilavo nel sacco a pelo, poi mi sdraiai e chiusi gli occhi.
    L’indomani sarebbe stata una lunga giornata.
   
 
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