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Autore: younghearts    13/01/2013    0 recensioni
Stesso pianeta, stessa nazione, stessa regione, stessa provincia, stesso paese, stesso quartiere. Mancava solo che dividessero la stessa casa.
Il loro era un paese abbastanza grande. Trentacinquemila abitanti, ma, nonostante tutto, più o meno tutti conoscevano tutti. Molti lo conoscevano come il paese delle ceramiche, il paesello pacifico circondato dalle campagne di uliveti e viti.
Eppure nessuno si sarebbe mai aspettato di una piccola bomba che, seppur impercettibile, scoppiò nel cuore di quei due ragazzi, scombussolando – quasi – l’intero paese, o almeno i loro coetanei.
Amicizia, odio, ancora amicizia e poi ancora odio. Un amore sottinteso, da leggere tra le righe, quasi come se fosse un qualcosa di talmente scontato da non poter essere descritto nella sua purezza.
Genere: Comico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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II.
 

“One of these morning you're
 gonna rise up singing,
You're gonna spread your wings,

 child, and take to the sky.”
Summertime, Janis Joplin

 
 
A sedici anni, il massimo a cui una ragazza può aspirare è lo stare con un ragazzo solo per gioco. Lei invece non era così. O relativamente, almeno.
“Non capisco perché ad ogni ragazzo che ti passa davanti la bava inizia ad uscire dalla tua bocca” diceva irritato il riccio.
“Tanica, il punto sta proprio in questo: io amo il bello della vita” puntualizzò lei chiamandolo per cognome.
“Anche a me piace guardare le cose belle, ma di certo non sbavo dietro alle ragazze.”
Si voltò lentamente verso di lui con uno sguardo seriamente divertito dalla sua battuta.
Il ragazzo non rispose, si limitò a sorridere porgendole la coca che aveva in mano.
“Sbaglio o la coca-cola fa parte delle cose non salutari sulla tua lista?” domandò lei curiosa.
Lui e la sua fissa del mangiare salutare. Non c’era giorno che non le ricordasse che il cioccolato faceva male, ma intanto lui era il primo a cedere e mangiarsi intere uova di Pasqua.
“In questo periodo non ho l’allenamento, carissima la mia Erika.”
“Oh, non potrò più-” ammiccò ai suoi amici.
Rise. “Temo di no.”
La panchina su cui erano seduti era la solita sulla quale ogni giorno facevano i loro discorsi filosofici.
“E tu non avevi amiche modelle?” aggiunse poco dopo.
Erika fissò con lo sguardo annoiato il negozio di mobili davanti a loro, soffermandosi su una signora che litigava con il proprietario del locale perché un divano costava troppo per i suoi gusti.
“Non capisco perché ad ogni ragazza che ti si viene presentata il tuo amichetto debba essere così allegro” gli fece il verso.
La sua risata cristallina fece capolino. Era talmente divertito che si piegò verso di lei poggiando entrambe le mani sulla sua gamba.
Dispiaciuta per il suo cervello poco funzionante, battè delicatamente dei colpi sulla sua chioma riccissima sussurrando parole confortanti.
“Stasera molto probabilmente torno prima a casa” disse non appena si fu ripreso del tutto.
Why, my dear?
“Stefano.” sbuffò.
“Cosa? Cosa? Tu stai dicendo che passare la serata con il mio adorato fidanzatino sia noioso?” urlò lei divertita dal suo sguardo seccato.
“Non fare la pedofila” rispose “non voglio diventare zio a quest’età, specie se so che mio fratello che ha sette anni meno di me è pazzo della sua compagna.”
“Oh, è il bambino più adorabile del mondo!” esultò con occhi a cuoricino.
“Scommetto che stasera rimarrai a casa con me.”
“Avevo alternative?”
“C’è gente che esce il sabato di solito, sai com’è” disse con aria di sfida.
“Se vuoi liberarti di me dillo senza mezzi termini” dichiarò la ragazza piegando le braccia all’indietro e poggiando le mani dietro la nuca.
“Non voglio liberarmi di te.”
“E allora cosa?”
“Siamo degli asociali.”
“Ma se conosciamo chiunque in questo buco di paese!”
“Ma usciamo sempre e solo noi due.”
“Allora?”
Si alzò, porgendole la mano. Erika la fissò un attimo interdetta: aspettava una risposta.
“Mi fa piacere che tu preferisca la mia compagnia piuttosto che quella di qualcun altro"
 

***

Un mini-Tanica sbucò dal grande salone correndo tra le braccia della ragazza che lo strinse forte e lo portò in cucina, dove salutò tutti i membri della famiglia.
“Stasera rimanete qui?” chiese gentilmente Patrizia, la madre dei ragazzi.
Annuirono.
“Ho lasciato della pasta al forno nel microonde, riscaldatela ed il gioco è fatto. Spero vi piaccia” fece l’occhiolino ad Erika.
“Oh, sicuramente” sorrise in risposta.
“Oh, di te mi fido, so che mangi qualsiasi cosa. Piuttosto mi preoccupo dei due diavoli lì” indicò i due figli che ora stavano ridendo perché un pesce rosso nell’acquario era diventato nero “ti prego, prova a farli mangiare. Specie il più grande. E poi ci lamentiamo dei bambini!”
Franco, loro padre, nel frattempo era intento ad aggiustare qualcosa alla televisione.
“Antonio sarà con noi stasera?” esclamò speranzosa.
Lo sguardo di Pierfrancesco, il maggiore dei due fratellini allora presenti, si rivolse completamente a lei, ma quella fece finta di non essersene accorta.
“No, stasera esce con degli amici. Ora si sta preparando.”
“Oh” fu l’unica cosa che riuscì a formulare.
Cavolo! Avrebbe voluto passare la serata con quello schianto di ragazzo, il maggiore dei tre fratelli, quello con cui passava momenti interminabili davanti ai documentari storici, mentre Tanica si lavava. Quello che le aveva insegnato ad ascoltare ogni cosa che Piero Angela diceva, quello che… insomma, il tizio con cui aveva condiviso ogni programma intelligente. A volte quando il pomeriggio era da loro e lei e Tanica guardavano la tv, lui si accomodava vicino a loro ed Erika lo ascoltava con occhi sognanti. Bello, bravo e intelligente. Altro che il fratello.
Antonio, dannatamente razionale e bello.
Pierfrancesco, una Erika al maschile, il che non era una buona cosa.
Stefano, l’unico bambino che la adorava e al quale lei ricambiava i sentimenti.
Quando Patrizia e Franco se ne andarono Stefano la trascinò in camera sua per farle vedere il nuovo videogioco che si era comprato.
“Vorresti giocare?” chiese speranzoso.
“Potrei mai dirti di no?” rispose con una domanda scompigliandogli i ricci biondi.
Joystick, a noi due, pensò la ragazza.
In realtà non era mai stata una gran cima in campo di videogiochi. Aveva una minima esperienza in qualcosa riguardante il calcio perché Tanica la costringeva spesso a giocarci quando si annoiavano.
“Premi start” riconobbe quella voce dannatamente irritante.
Le mani si poggiarono sulle sue che tenevano il joystick.
Un colpo al cuore. Qualcosa che non era mai successo.
Bum, bum, bum, bum.
Stava bollendo. Ma perché poi? Avevano avuto tanti contatti come quelli. Forse era perché ora la guancia di lui era poggiata alla sua e i suoi capelli le solleticavano il viso? Non… no.
“Erika, vuoi premere start?” sussurrò dolcemente.
Dolcemente? Oddio.
Premette quel maledetto ‘start’ e riprese il controllo. No, aspettate. Le sue mani presero il controllo, lei non fece assolutamente niente, fu quello il guaio maggiore.
Si ritrovò sulle sue gambe, ancora col joystick in mano.Ovviamente anche le sue mani fecero capolino aiutandola a giocare per bene. La testa poggiata sulla spalla di lei, la guancia che ancora sfiorava la sua. La sedia era bassa e abbastanza larga tanto da permetterle di spostarsi di qualche centimetro e togliersi dalle sue gambe.
Prontamente lui le cinse la spalla con un braccio dandole il joystick, continuando, però, a prendere il controllo dei tasti.
Eravano maledettamente vicini.
Una voce alle loro spalle interruppe le seghe mentali della ragazza.
“Sapevo che prima o poi vi sareste messi insieme!”
No, no, no, no, no, no, no!
Voltarono contemporaneamente le teste in direzione della voce che avevano appena ascoltato.
I loro visi erano rispettivamente: imbarazzato quello di Erika, strafottente quello di Pierfrancesco.
“E pure che fosse?” chiese Tanica.
“Niente, sono contento. Sai quanto stimi Erika.”
Lei aprì la bocca per dire qualcosa, anche un grazie, qualsiasi cosa, ma fu interrotta dalle manine stritolatrici di Stefano che ora era attaccato al suo collo a mo’ di scimmietta, abbracciandola.
“Credo che comunque preferirebbe lui” sorrise Antonio.
Tanica poggiò la fronte a quella della ragazza, nonostante lei stesse di lato a lui. Sorrise e le diede un bacio sulla guancia.
Lei si alzò di scatto e formò una croce con le dita.
“Esci da questo corpo!” gli urlò contro.
Lui rise, andandole incontro e prendendola in braccio come un sacco di patate. Ovviamente lei si divincolò più e più volte, invano.
Da lontano sentirono un “Uffa lei doveva stare con me!” seguito da un “Non sei felice per tuo fratello?”: la voce dell’innocenza e la voce della coscienza.
Che poi, felice per cosa?
La ragazza si ritrovò qualche attimo dopo davanti al divanetto della loro stanza segreta in terrazza. Quando ci si buttò su, però, si fece un gran male all’osso sacro.
“Non sei per niente delicato” dichiarò quando si girò verso di lei, dopo aver chiuso la porta a chiave.
“Dovremmo badare a tuo fratello” aggiunse poi.
Il ragazzo si sedette accanto a lei. Sembrava distratto quella sera.
"Che succede?" lo intimò lei, cercando di capire cosa non andasse in lui, a parte il cervello.
Pierfrancesco rimase in silenzio a lungo, fissando il poster di Che Guevara che aveva appeso con tanto amore. Il suo essere comunista non l'aveva aiutato granchè quando suo padre, un uomo convintissimo di destra, vide quell'immagine. Franco urlò qualcosa tipo "Non puoi pretendere che viva come un barbone" e iniziarono una lunga discussione da cui uscì sconfitto, venendo consolato dalla sua fedele amica comunista. Ovviamente non poteva andare altrimenti da un anno a quella parte.
Erika si alzò dal divanetto e acchiappò una bottiglietta d'acqua nell'armadietto al suo fianco. La bevve, nonostante fosse bollente, e gliene pose un po'.
"Davvero, potrei pensare che tu sia impazzito" disse ancora.
Non ricevendo alcuna risposta, si alzò e lo avvisò di stare andando a vedere come stesse Stefano. Dopotutto era compito loro badare al bambino.
Venne bloccata dalla voce bassa del ragazzo ancora immobile sul divano, con le mani congiunte e i capelli ricci disordinati.
"Rimani qui, idiota"
"Touchè" e si sedette ancora accanto a lui, pensando che Stefano se la sarebbe cavata da sola.
Il fatto che lui riuscisse a convincerla così velocemente anche solo insultandola amichevolmente era fastidiosissimo.
"Allora?" chiese ancora lei. "Non ho intenzione di stare a fissare il tuo profilo per tutta la vita"
Momento di silenzio, seguito dallo scatto che il ragazzo fece verso di lei, che prontamente portò una mano al cuore per la paura. Brutta situazione.
"Un anno fa ci conoscemmo" rispose lui quasi ansioso.
Erika sorrise. "Te lo ricordi?"
Lui annuì e le sorrise leggermente, senza sforzarsi molto.
"Non sapevamo ancora i nostri nomi. Non li abbiamo saputi per una settimana intera!" esordì ancora, ora divertito dai ricordi.
"E tu eri alto un metro e una cicca e io ti prendevo in giro non sapendo che saresti diventato così... così."
Sorrisero all'unisono.
"Sono pensieroso perchè se non ci fossi tu io me ne starei chiuso in casa. Se non ti fossi sporcata quella maglietta e io non ti avessi presa in giro, io non avrei nessuno con cui confidarmi."
"E' lo stesso per me"
Attimo di silenzio tutt'altro che imbarazzante.
"Ieri notte ho pensato a come sarebbe stato se avessim avuto un altro approccio" le disse prendendole la mano.
Il cuore ricominciò a battere forte. Troppo forte.
"C-cioè?" balbettò lei insicura.
Il ragazzo si alzò - come al solito di scatto - e le si posizionò davanti, tirandola in piedi e sorridendole ancora e ancora.
Le porse la mano e le parole gli uscirono quasi spontanee. "Piacere, Pierfrancesco. Bella maglia"
Erika guardò prima la mano davanti a lei e poi la sua maglia. Di un rosso acceso, rosso comunista, appunto.
Gli strinse la mano divertita e rispose a modo.
"Io sono Erika. Attento, potresti starmi simpatico"


  
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