3.
I
ain’t never seen nothing like a Galway girl
Il giorno
successivo agli strani avvenimenti della Galleria Schäfer la vita di Erin e
Sylvia tornò placidamente alla normalità, come se niente fosse accaduto. A
colazione tennero banco coi colleghi e amici d’orchestra per raccontare loro le
cose incredibili che avevano visto, ed Erin definì il tutto Paura e delirio a Stoccarda,
premurandosi di sottolineare che la paura era stata soltanto dell’amica, non
certo sua: lei anzi tessé le lodi del misterioso guerriero dall’elmo cornuto,
ricevendo parole scandalizzate da parte delle altre donne e un notevole
interesse da parte maschile. Ma gli uomini vollero sapere soprattutto di
Capitan America, della lotta e dell’occhio cavato e il resto rimase
miseramente in secondo piano.
Tuttavia
Francis Bright domandò a Erin cosa avesse detto lo straniero magico, e pur non
trovandosi d’accordo con lei nel dargli ragione la ascoltò con attenzione,
discutendone.
Erin
aveva una cotta per Francis sin da quando, tre anni prima, era entrata a far
parte della Boston Philharmonic Orchestra; lui suonava la tromba e per un po’
erano persino usciti insieme, senza eccessivo impegno. La cosa però non era
andata avanti e Francis aveva posato gli occhi su Sylvia e sui suoi capelli
fulvi, Sylvia che ancora non se n’era resa conto.
Nonostante
ciò tra le due donne non c’era rivalità, né Erin ne aveva mai fatto una
tragedia.
Così il
soggiorno tedesco si concluse senza ulteriori incidenti, per gli orchestrali, e
al momento di partire Erin prese un volo diverso da quello dei colleghi: avendo
una settimana vuota di lì all’inizio delle nuove prove ne approfittò per fare
visita alla sua famiglia, in Irlanda.
Erin era
una “ragazza di Galway” e ne andava fiera. Non aveva i capelli neri e gli
occhi blu come narrava l’omonima canzone, ma la sua bellezza e il suo carattere
non passavano comunque inosservati, specialmente in America dove viveva.
Era
dunque a cena nella sua casa natale, appena giunta dall’aeroporto e desiderosa
soltanto di dormire, quando il telegiornale internazionale divulgò
l’incredibile notizia di un attacco alieno ai danni di New York e di un
manipolo di eroi che lo avevano debellato. Nel vedere le immagini di quel che
stava succedendo al di là dell’Oceano il fratello minore di Erin saltò su come
una molla, sua madre si fece pallida come un cencio e suo padre e suo nonno
finirono misteriosamente col disquisire di politica. Lei tenne gli occhi
incollati allo schermo, riconoscendo il Capitano a stelle e strisce e pensando
che i fatti di Stoccarda e di Manhattan non potevano che essere collegati tra
loro, forse proprio dalla presenza del “suo” guerriero. Nei giorni seguenti
setacciò giornali e notiziari in cerca di qualcosa che parlasse di lui, invano,
e al termine della settimana trascorsa a Galway si convinse a malincuore che
l’uomo dai capelli neri doveva essere svanito o fuggito, magari per sempre.
Allora
rientrò a Boston, dove abitava, tranquillizzando i genitori e il nonno e
promettendo al fratello che se mai avesse incontrato Capitan America per strada
gli avrebbe chiesto una foto con autografo da mandargli. Li salutò con affetto
e abbracciò con sguardo amorevole le verdi campagne e la pioggia leggera della
sua infanzia, e fece ritorno allo scintillìo del nuovo mondo.
Un altro
mese passò snocciolandosi senza fretta. L’orchestra cominciò le prove per il
concerto che avrebbe avuto luogo in città a breve ed Erin riprese la sua solita
routine: dormì fino a tardi ogni volta che poté, uscì con Sylvia, fece nottata
con colleghi e vecchi amici e in un paio di occasioni dette buca a tutti per
rimanere in casa a guardare telefilm o per filarsela fuori da Boston a scattare
fotografie che non comprendessero figure umane nell’inquadratura.
Non cessò
mai di pensare allo sconosciuto dall’elmo lucente, ma poiché a Sylvia scoppiava
un embolo al solo sentirlo nominare e agli altri non interessava troppo Erin
tenne quei pensieri per sé: si sentiva come Amy Pond di Doctor Who, “la ragazza che aveva
atteso” un tizio stropicciato piovuto dal cielo una notte, un uomo che
nemmeno conosceva – e questo le dava l’impressione di essere una sciocca
bamboccia fantasiosa malgrado i suoi ventisei anni.
Poi, in
una giornata particolarmente tiepida e limpida, dopo una prova intensa e
sfiancante, Erin decise di andare di nuovo in campagna armata di reflex e
cavalletto; fece rombare il motore della sua gloriosa Alfa Romeo Duetto 1600,
splendido esemplare arrivato direttamente dagli anni settanta italiani, e
sfrecciò lungo le strade di periferia nella luce gonfia del pomeriggio. Fare
foto la rilassava e appagava il suo senso estetico, e lei non aveva pretese di
spacciarsi per una vera fotografa come invece molti facevano: quel voler sempre
apparire dannatamente intelligenti e artistici e intellettuali pur non
essendolo era uno dei molti aspetti dei suoi simili che mal tollerava. Non
avrebbe saputo spiegarne il motivo, ma la sua mente era come scevra dagli
schemi e dalle etichette tipiche della società che la circondava, ed era semplicemente più logica e lineare. Erin veniva spesso definita "cinica", anche
da chi ben la conosceva, eppure l’aggettivo era abbastanza riduttivo. Le era
difficile trovare persone con cui sentisse di potersi confrontare alla pari,
persone che avessero opinioni vicine alle sue, e probabilmente era per questo
che il ricordo dello straniero di Stoccarda la ossessionava.
Rimuginò
sull’argomento per l’intero pomeriggio, mentre metteva a fuoco spighe e fiori e
distese di campi rigogliosi, il sole che piano piano si abbassava
sull’orizzonte.
Al tramonto
la batteria della macchina fotografica era andata a farsi benedire e lo stomaco
di Erin protestava per l’assenza di cibo. La giovane reimpacchettò
l’attrezzatura e saltò sul Duetto per rientrare in città. Ma non aveva
percorso che un quarto del tragitto quando i suoi occhi acuti colsero, mescolato al
chiarore morente del giorno, un bagliore che squarciava il cielo a ovest:
rassomigliava al lampeggiare di un temporale, e tuttavia non si vedeva alcuna
nuvola; e d’un tratto una lieve scia luminescente se ne dipartì, disegnando una
linea nell’aria tersa e svanendo in un istante. Erin rallentò e col cuore in
subbuglio osservò le campagne attorno a lei, chiedendosi se non stessero
piovendo altri alieni e se non avesse scelto un perfetto momento di merda per
allontanarsi in solitaria dalle sicure vie di Boston.
Mandando
l’auto a passo d’uomo abbassò il finestrino e tese le orecchie. Per un po’ udì
solo canti d’uccelli e il ronzìo del proprio motore, e dato che il cielo era
tornato alla normalità Erin mandò giù un bel sospiro di sollievo: forse era un
pezzo di satellite, si disse.
Ed ecco
che, d’improvviso, una voce scaturì dal nulla. Non era troppo distante da lei e
suonava rabbiosa, la voce di qualcuno che urlava come un matto – e tra i campi
alla sua sinistra, Erin si accorse con un sussulto, si muoveva una sagoma alta
e vacillante, una sagoma umana.
«Porca
puttana!» imprecò la ragazza, e inchiodando accostò al ciglio della strada.
Scese di
macchina e si avviò tra le spighe e l’erba, squadrando con cautela la figura
che effettivamente barcollava e gridava furiosamente qualche metro più in là,
rivolta al cielo. Nella debole luce violacea del crepuscolo Erin distinse un
uomo con indosso una tunica verde scuro e pantaloni e stivali neri, e capelli
corvini pettinati all’indietro; gli andò incontro con maggior decisione e
l’altro la notò e si fermò, tacendo, e volse il viso verso di lei.
Non
portava né elmo cornuto, né bastone dorato, né armatura, ma Erin lo avrebbe
riconosciuto in mezzo a mille altri. Un sorriso trionfante le fece brillare gli
occhi: il guerriero misterioso era tornato.
«Io sono
Erin Anwar e vengo dall’Irlanda.» lo parafrasò; «Il piacere è tutto mio.»
Loki
emise un piccolo sbuffo e prese a camminarle intorno in cerchio:
«Com’è
possibile che tu non dia l’impressione di temermi, donna?» disse.
Lei fece
spallucce: «Boh. Dammi una buona ragione e avrò
paura di te. Ma adesso non sei armato e possente come a Stoccarda, e io non so
cosa pensare.»
Il Dio
degli Inganni fremette di rabbia, conscio della propria ridicola condizione
terrena, e a pugni serrati si allontanò di pochi passi. Trovava surreale
conversare con quell’umana, eppure l’idea di poter volgere quell’imprevista
situazione a proprio vantaggio tornò a tentarlo.
«Non vi
sono buone ragioni, al momento.» ammise senza guardarla: «Sono stato bandito
dalla mia casa e sono l’ombra di ciò che ero, di come tu mi hai veduto laggiù.
Perciò va’ pure per la tua strada, donna d’Irlanda, e non aver tema di me. A
meno che...»
S’interruppe
e la fissò con un’ombra di sospetto. Erin aggrottò la fronte:
«A meno
che?» incalzò con una certa strafottenza.
«A meno
che tu non sia affiliata allo S.H.I.E.L.D. In tal caso le cose si farebbero più
complicate. Non ho intenzione di avere a che fare di nuovo con quegli
inetti.» rispose Loki.
La
giovane incrociò le braccia e ricambiò l’occhiataccia: «Cacchio sarebbe lo
Shield? Io sono musicista, e l’unica affiliazione che ho è quella con la Boston Philharmonic Orchestra.»
Lui
sogghignò al suo tono carico d’orgoglio e si rilassò, l’espressione
conciliante:
«Allora
non abbiamo spinose questioni da risolvere. Puoi andartene.» concesse.
Ma Erin
non mosse un muscolo: «E tu cos’avresti intenzione di fare?»
«Niente
che possa riguardarti, assurda mortale! O magari vorresti aiutarmi?» la
schernì Loki.
«Perché
no? Avrei voluto esprimerti il mio appoggio a Stoccarda, quindi perché non
rimediare ora?» disse lei; «Puoi raccontarmi come sei finito qui e cosa cerchi,
e se eri tu la scia luminosa piovuta dal cielo poco fa. Puoi spiegarmi cosa
facevi alla Galleria Schäfer e che diavolo è successo a New York un mese fa, e
io vedrò cosa posso fare per te.»
L’asgardiano
esultò in silenzio a quelle parole, all’implicito aiuto che la mortale gli
stava offrendo e in cui lui aveva sperato sin dal principio della loro
conversazione.
Tuttavia
si mostrò ancora dubbioso e domandò: «Perché lo faresti?»
«Perché
tu mi piaci, Loki, e perché non
andrai lontano senza denaro in tasca.»
«E
perché ritieni che avrei bisogno di denaro o di una mano, come se fossi un
mortale tuo pari?» seguitò a provocarla lui. Voleva capire se ne valeva la
pena – se lei valeva la pena.
Erin
sorrise di nuovo: «Prima hai detto di essere l’ombra di te stesso. Credo che
se tu potessi agire come a Stoccarda lo avresti già fatto, e magari mi avresti
uccisa o costretta con la forza a fare qualcosa per te. Ma ti ho trovato solo e infuriato
in mezzo alla campagna, e quali che siano i tuoi piani ti serve qualcuno che ti
dia una mano a muoverti tra gli umani come un uomo normale.»
Al Dio
degli Inganni piacque quel ragionamento, tanto più che, suo malgrado, non
faceva una piega. Dimostrava che la donna che gli stava di fronte era più
intelligente della media e che il suo pensiero si avvicinava probabilmente al
suo, in una qualche enigmatica maniera. Perciò decretò tra sé che ne valeva la
pena, e annuì:
«Mi hai
convinto, assurda mortale.»
«Ti fa
così schifo chiamarmi Erin? L’accezione “mortale” ha un che di offensivo.» replicò
la ragazza mentre si avviava verso l’auto facendo tintinnare un paio di chiavi.
Loki non
si curò di risponderle ma la seguì fino al Duetto parcheggiato sul limitare del
campo, osservandola aprire lo sportello e prendere posto all’interno, e la
imitò dopo un attimo di principesca esitazione: in fondo, l’ultima volta che si
era servito di un veicolo midgardiano aveva controllato la situazione dal
tetto, non certo dal sedile del passeggero.
Erin
riavviò il motore e riportò l’auto in carreggiata, acquistando presto velocità.
Guidò nella notte ormai calata con un piccolo sorriso segreto dipinto sulle
labbra e guardando l’uomo che le sedeva accanto con la coda dell’occhio: si
sentiva euforica, l’adrenalina che le scorreva come un fiume rovente nelle vene
e il cuore in gola per l’eccitazione e il trionfo. La sua speranza non si era
rivelata vana, e come se non bastasse adesso era lei a tenere le redini della
situazione, ad avere un vantaggio sul guerriero piovuto dal cielo; avrebbe
potuto saperne di più sul suo conto e sui suoi propositi, e magari con un po’
d’astuzia questo l’avrebbe portata a realizzare un paio di folli, grandiosi
desideri che aveva in animo da sempre. E poi, non riusciva a negarlo, quel
Loki era maledettamente attraente.
Erin
scosse il capo per tornare a concentrarsi sugli aspetti seri della faccenda:
«Mi hai
detto che vieni da Asgard. Il nome non mi è nuovo, ma dimmi di più, ti prego.»
lo interpellò dopo diversi minuti di silenzio. In lontananza si scorgevano le
luci di Boston.
«E il mio
nome non ti dice niente, invece?» chiese lui, la voce maliziosa.
«Entrambi mi dicono qualcosa.» confermò l’irlandese, pur non sapendo cosa.
Loki la
fissò: «Asgard è il mondo in cui sono stato allevato. Gli umani lo chiamano
anche Valhalla, la Dimora degli Dei. E io sono Loki, Signore dell’Inganno e
della Menzogna, legittimo erede a un trono che mi è stato sottratto con
stoltezza e stupidità.» disse, e le sue iridi fiammeggiarono di fiera collera
nel buio abitacolo del Duetto.
La
giovane donna sobbalzò e la macchina sterzò pericolosamente verso destra:
«Cazzo!» esclamò riprendendo a stento il controllo del volante; «Sospettavo che tu
fossi un re poco terreno, ma addirittura un dio, quel dio...»
Loki
parve divertito e lusingato dalla sua reazione: «Questo cambia qualcosa?»
«Non
credo. Comunque sia al momento non sei molto divino, o sbaglio?»
mormorò Erin; lui fece uno stizzito gesto d’assenso e lei proseguì: «Dunque
cos’è successo lassù? Chi ti ha spedito qua come un pacco postale prendendosi i
tuoi poteri?»
«Odino.» rivelò Loki in un ringhio. Quel dialogo iniziava a stancarlo.
«E Odino
non è tuo padre?» indagò lei, che aveva le idee confuse al riguardo.
«Va’ a rileggerti
la mia storia su qualche sciocco libro midgardiano.» fu la secca replica del dio caduto, e
la ragazza di Galway comprese che per quella sera l’argomento era da
considerarsi chiuso.
Percorsero
l’ultimo tratto di strada senza parlare, entrambi a disagio, mentre l’auto
s’immetteva nel raccordo d’ingresso occidentale di Boston e sfrecciava sotto le
luci sempre più fitte e intense della grande città. Loki osservò la frenesia di
quel luogo con infastidito distacco e i suoi alti palazzi ricoperti di specchi
gli ricordarono New York e la sconfitta subìta, e il sangue gli ribollì
nuovamente all’idea del ridicolo destino che lo aveva condotto da misero esiliato
in un’altra città umana, scarrozzato da una folle mortale su uno strano veicolo.
Il Duetto
svoltò in un groviglio di vie centrali meno trafficate e imboccò una discesa
lastricata che conduceva a un parcheggio seminterrato, sotto una robusta casa
di mattoni a più piani. Erin tirò nervosamente il freno a mano, spegnendo il
motore.
«Merda,
domani devo fare benzina.» borbottò nell’aprire la portiera; raccolse la
borsa e la macchina fotografica dal sedile posteriore e guardò Loki, in attesa.
«Dove mi
hai portato?» questi volle sapere scendendo finalmente dall’auto.
«A casa
mia. Ti ospiterò per questa notte, poi vedremo che fare.»
Chiuse la
macchina e lo condusse nell’ascensore, e salirono fino al penultimo piano del
palazzo: qui, in un corridoio dipinto di bianco e rosso, Erin puntò con
decisione su una portone di legno scuro e lo aprì, una mano posata sul pomello
d’ottone che lo ornava. Loki indugiò, mirando le forme in penombra che si
distinguevano all'interno e la sagoma esile dell’irlandese stagliata contro il
chiarore che filtrava dalle finestre dell’appartamento.
Erin accese la luce dell’ingresso e gli dedicò un sorriso storto:
«Allora?» disse in tono più morbido, ignorando di proposito l’ambiguità della
situazione e il calore che suo malgrado le era salito alle guance e alla punta
delle orecchie.
Il Dio
degli Inganni varcò infine la soglia ed Erin richiuse la porta.
> Note a piè
di pagina
Ed ecco che comincio con le Citazioni Colte Da Veri
Intenditori: il riferimento a Doctor Who e
a Amy Pond, “the Girl who Waited”, e l’Alfa Romeo Duetto, che oltre a essere
un’auto strepitosa è anche quella che si vede ne Il laureato, se avete presente di che film si tratta. In origine la
macchina di Erin era una Giulietta, sempre Alfa e sempre degli anni ’70, quella della
polizia nei poliziotteschi nostrani, ma poiché negli USA non è mai stata
omologata ho dovuto scegliere il Duetto. Non che sia una perdita, sono belle
entrambe e molto badass.
Così avete scoperto nuovi elementi sulla nostra mortale fuori
di cucuzza, la quale si è appena portata a casa un asgardiano pluriomicida come
se niente fosse. Sta giocando col fuoco ed è probabile che abbia un paio di
idee malsane in testa, e credo che l’asgardiano pluriomicida in questione sia
piuttosto intrigato dalla cosa.
Ammetto di non essere sicura che intorno a Boston vi siano
campi e campagne come quelli in cui la donna d’Irlanda cazzeggia con la reflex
prima d’incappare nel suo dio stropicciato, perché ho semplicemente
occhieggiato le foto satellitari e letto qualcosa qua e là – voglio dire, ci
saranno, ma di certo non nelle immediate vicinanze della metropoli. Chiudete un
occhio, per favore.
Il titolo del capitolo è l’ultimo verso della canzone tradizionale
irlandese Galway girl cui faccio
riferimento nel descrivere Erin. Adoro l’Irlanda, sapevatelo ♥ ascoltatela nella versione di
Sharon Shannon e Steve Earle, merita.
Di nuovo grazie mille a chi legge, a chi segue la storia e a
chi l’ha messa tra preferite e ricordate. Però andiamo, scrivetemi le vostre
impressioni: continuerò a pubblicare comunque, poiché la adoro e vado fiera di
ciò che ho creato, ma sapere cosa ne pensate non potrà che farmi un immenso
piacere.
Ossequi asgardiani e a presto! :)