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Autore: Blackmoody    15/01/2013    1 recensioni
Nel frattempo l’agente Hill si era spostata in un angolo, la fronte corrugata e due dita premute sul proprio auricolare come se stesse ascoltando qualcosa con estrema attenzione:
«Signori, devo interrompervi. Ho appena appreso novità importanti da Boston.» annunciò infatti, e i suoi occhi grigi saettarono nervosamente da Fury a Thor.
[...] «Diversi invasori sono stati uccisi prima che la nostra squadra di ricognizione giungesse in città, e non a opera dell’esercito o dei civili. Molti testimoni hanno confermato di aver visto un’auto decappottabile di marca italiana color verde oliva sfrecciare per le strade con a bordo due persone armate che hanno attaccato i nemici in almeno due differenti occasioni per poi scomparire verso le campagne. Una di esse portava in testa un elmo cornuto.»

Erin Anwar è una midgardiana giovane, brillante e arrogante. Non ha poteri o strani segreti, solo una mente particolare – e non brama l'asservimento. Non per se stessa, sicuramente. Il giorno in cui la sua strada incrocia quella di un certo dio asgardiano sarà un giorno che almeno due mondi ricorderanno a lungo.
Post-Avengers, diciassette capitoli, EPIC BADASSERY.
microcorrezioni 2O14
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Majestic Tale of the Mischief Maker and the Flute Maiden'
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3.

I ain’t never seen nothing like a Galway girl

 

 

 

 

 

 

Il giorno successivo agli strani avvenimenti della Galleria Schäfer la vita di Erin e Sylvia tornò placidamente alla normalità, come se niente fosse accaduto. A colazione tennero banco coi colleghi e amici d’orchestra per raccontare loro le cose incredibili che avevano visto, ed Erin definì il tutto Paura e delirio a Stoccarda, premurandosi di sottolineare che la paura era stata soltanto dell’amica, non certo sua: lei anzi tessé le lodi del misterioso guerriero dall’elmo cornuto, ricevendo parole scandalizzate da parte delle altre donne e un notevole interesse da parte maschile. Ma gli uomini vollero sapere soprattutto di Capitan America, della lotta e dell’occhio cavato e il resto rimase miseramente in secondo piano.

Tuttavia Francis Bright domandò a Erin cosa avesse detto lo straniero magico, e pur non trovandosi d’accordo con lei nel dargli ragione la ascoltò con attenzione, discutendone.

Erin aveva una cotta per Francis sin da quando, tre anni prima, era entrata a far parte della Boston Philharmonic Orchestra; lui suonava la tromba e per un po’ erano persino usciti insieme, senza eccessivo impegno. La cosa però non era andata avanti e Francis aveva posato gli occhi su Sylvia e sui suoi capelli fulvi, Sylvia che ancora non se n’era resa conto.

Nonostante ciò tra le due donne non c’era rivalità, né Erin ne aveva mai fatto una tragedia.

Così il soggiorno tedesco si concluse senza ulteriori incidenti, per gli orchestrali, e al momento di partire Erin prese un volo diverso da quello dei colleghi: avendo una settimana vuota di lì all’inizio delle nuove prove ne approfittò per fare visita alla sua famiglia, in Irlanda.

Erin era una “ragazza di Galway” e ne andava fiera. Non aveva i capelli neri e gli occhi blu come narrava l’omonima canzone, ma la sua bellezza e il suo carattere non passavano comunque inosservati, specialmente in America dove viveva.

Era dunque a cena nella sua casa natale, appena giunta dall’aeroporto e desiderosa soltanto di dormire, quando il telegiornale internazionale divulgò l’incredibile notizia di un attacco alieno ai danni di New York e di un manipolo di eroi che lo avevano debellato. Nel vedere le immagini di quel che stava succedendo al di là dell’Oceano il fratello minore di Erin saltò su come una molla, sua madre si fece pallida come un cencio e suo padre e suo nonno finirono misteriosamente col disquisire di politica. Lei tenne gli occhi incollati allo schermo, riconoscendo il Capitano a stelle e strisce e pensando che i fatti di Stoccarda e di Manhattan non potevano che essere collegati tra loro, forse proprio dalla presenza del “suo” guerriero. Nei giorni seguenti setacciò giornali e notiziari in cerca di qualcosa che parlasse di lui, invano, e al termine della settimana trascorsa a Galway si convinse a malincuore che l’uomo dai capelli neri doveva essere svanito o fuggito, magari per sempre.

Allora rientrò a Boston, dove abitava, tranquillizzando i genitori e il nonno e promettendo al fratello che se mai avesse incontrato Capitan America per strada gli avrebbe chiesto una foto con autografo da mandargli. Li salutò con affetto e abbracciò con sguardo amorevole le verdi campagne e la pioggia leggera della sua infanzia, e fece ritorno allo scintillìo del nuovo mondo.

Un altro mese passò snocciolandosi senza fretta. L’orchestra cominciò le prove per il concerto che avrebbe avuto luogo in città a breve ed Erin riprese la sua solita routine: dormì fino a tardi ogni volta che poté, uscì con Sylvia, fece nottata con colleghi e vecchi amici e in un paio di occasioni dette buca a tutti per rimanere in casa a guardare telefilm o per filarsela fuori da Boston a scattare fotografie che non comprendessero figure umane nell’inquadratura.

Non cessò mai di pensare allo sconosciuto dall’elmo lucente, ma poiché a Sylvia scoppiava un embolo al solo sentirlo nominare e agli altri non interessava troppo Erin tenne quei pensieri per sé: si sentiva come Amy Pond di Doctor Who, “la ragazza che aveva atteso” un tizio stropicciato piovuto dal cielo una notte, un uomo che nemmeno conosceva – e questo le dava l’impressione di essere una sciocca bamboccia fantasiosa malgrado i suoi ventisei anni.

Poi, in una giornata particolarmente tiepida e limpida, dopo una prova intensa e sfiancante, Erin decise di andare di nuovo in campagna armata di reflex e cavalletto; fece rombare il motore della sua gloriosa Alfa Romeo Duetto 1600, splendido esemplare arrivato direttamente dagli anni settanta italiani, e sfrecciò lungo le strade di periferia nella luce gonfia del pomeriggio. Fare foto la rilassava e appagava il suo senso estetico, e lei non aveva pretese di spacciarsi per una vera fotografa come invece molti facevano: quel voler sempre apparire dannatamente intelligenti e artistici e intellettuali pur non essendolo era uno dei molti aspetti dei suoi simili che mal tollerava. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo, ma la sua mente era come scevra dagli schemi e dalle etichette tipiche della società che la circondava, ed era semplicemente più logica e lineare. Erin veniva spesso definita "cinica", anche da chi ben la conosceva, eppure l’aggettivo era abbastanza riduttivo. Le era difficile trovare persone con cui sentisse di potersi confrontare alla pari, persone che avessero opinioni vicine alle sue, e probabilmente era per questo che il ricordo dello straniero di Stoccarda la ossessionava.

Rimuginò sull’argomento per l’intero pomeriggio, mentre metteva a fuoco spighe e fiori e distese di campi rigogliosi, il sole che piano piano si abbassava sull’orizzonte.

Al tramonto la batteria della macchina fotografica era andata a farsi benedire e lo stomaco di Erin protestava per l’assenza di cibo. La giovane reimpacchettò l’attrezzatura e saltò sul Duetto per rientrare in città. Ma non aveva percorso che un quarto del tragitto quando i suoi occhi acuti colsero, mescolato al chiarore morente del giorno, un bagliore che squarciava il cielo a ovest: rassomigliava al lampeggiare di un temporale, e tuttavia non si vedeva alcuna nuvola; e d’un tratto una lieve scia luminescente se ne dipartì, disegnando una linea nell’aria tersa e svanendo in un istante. Erin rallentò e col cuore in subbuglio osservò le campagne attorno a lei, chiedendosi se non stessero piovendo altri alieni e se non avesse scelto un perfetto momento di merda per allontanarsi in solitaria dalle sicure vie di Boston.

Mandando l’auto a passo d’uomo abbassò il finestrino e tese le orecchie. Per un po’ udì solo canti d’uccelli e il ronzìo del proprio motore, e dato che il cielo era tornato alla normalità Erin mandò giù un bel sospiro di sollievo: forse era un pezzo di satellite, si disse.

Ed ecco che, d’improvviso, una voce scaturì dal nulla. Non era troppo distante da lei e suonava rabbiosa, la voce di qualcuno che urlava come un matto – e tra i campi alla sua sinistra, Erin si accorse con un sussulto, si muoveva una sagoma alta e vacillante, una sagoma umana.

«Porca puttana!» imprecò la ragazza, e inchiodando accostò al ciglio della strada.

Scese di macchina e si avviò tra le spighe e l’erba, squadrando con cautela la figura che effettivamente barcollava e gridava furiosamente qualche metro più in là, rivolta al cielo. Nella debole luce violacea del crepuscolo Erin distinse un uomo con indosso una tunica verde scuro e pantaloni e stivali neri, e capelli corvini pettinati all’indietro; gli andò incontro con maggior decisione e l’altro la notò e si fermò, tacendo, e volse il viso verso di lei.

Non portava né elmo cornuto, né bastone dorato, né armatura, ma Erin lo avrebbe riconosciuto in mezzo a mille altri. Un sorriso trionfante le fece brillare gli occhi: il guerriero misterioso era tornato.

 

 

«Io sono Erin Anwar e vengo dall’Irlanda.» lo parafrasò; «Il piacere è tutto mio.»

Loki emise un piccolo sbuffo e prese a camminarle intorno in cerchio:

«Com’è possibile che tu non dia l’impressione di temermi, donna?» disse.

Lei fece spallucce: «Boh. Dammi una buona ragione e avrò paura di te. Ma adesso non sei armato e possente come a Stoccarda, e io non so cosa pensare.»

Il Dio degli Inganni fremette di rabbia, conscio della propria ridicola condizione terrena, e a pugni serrati si allontanò di pochi passi. Trovava surreale conversare con quell’umana, eppure l’idea di poter volgere quell’imprevista situazione a proprio vantaggio tornò a tentarlo.

«Non vi sono buone ragioni, al momento.» ammise senza guardarla: «Sono stato bandito dalla mia casa e sono l’ombra di ciò che ero, di come tu mi hai veduto laggiù. Perciò va’ pure per la tua strada, donna d’Irlanda, e non aver tema di me. A meno che...»

S’interruppe e la fissò con un’ombra di sospetto. Erin aggrottò la fronte:

«A meno che?» incalzò con una certa strafottenza.

«A meno che tu non sia affiliata allo S.H.I.E.L.D. In tal caso le cose si farebbero più complicate. Non ho intenzione di avere a che fare di nuovo con quegli inetti.» rispose Loki.

La giovane incrociò le braccia e ricambiò l’occhiataccia: «Cacchio sarebbe lo Shield? Io sono musicista, e l’unica affiliazione che ho è quella con la Boston Philharmonic Orchestra.»

Lui sogghignò al suo tono carico d’orgoglio e si rilassò, l’espressione conciliante:

«Allora non abbiamo spinose questioni da risolvere. Puoi andartene.» concesse.

Ma Erin non mosse un muscolo: «E tu cos’avresti intenzione di fare?»

«Niente che possa riguardarti, assurda mortale! O magari vorresti aiutarmi?» la schernì Loki.

«Perché no? Avrei voluto esprimerti il mio appoggio a Stoccarda, quindi perché non rimediare ora?» disse lei; «Puoi raccontarmi come sei finito qui e cosa cerchi, e se eri tu la scia luminosa piovuta dal cielo poco fa. Puoi spiegarmi cosa facevi alla Galleria Schäfer e che diavolo è successo a New York un mese fa, e io vedrò cosa posso fare per te.»

L’asgardiano esultò in silenzio a quelle parole, all’implicito aiuto che la mortale gli stava offrendo e in cui lui aveva sperato sin dal principio della loro conversazione.

Tuttavia si mostrò ancora dubbioso e domandò: «Perché lo faresti?»

«Perché tu mi piaci, Loki, e perché non andrai lontano senza denaro in tasca.»

«E perché ritieni che avrei bisogno di denaro o di una mano, come se fossi un mortale tuo pari?» seguitò a provocarla lui. Voleva capire se ne valeva la pena – se lei valeva la pena.

Erin sorrise di nuovo: «Prima hai detto di essere l’ombra di te stesso. Credo che se tu potessi agire come a Stoccarda lo avresti già fatto, e magari mi avresti uccisa o costretta con la forza a fare qualcosa per te. Ma ti ho trovato solo e infuriato in mezzo alla campagna, e quali che siano i tuoi piani ti serve qualcuno che ti dia una mano a muoverti tra gli umani come un uomo normale.»

Al Dio degli Inganni piacque quel ragionamento, tanto più che, suo malgrado, non faceva una piega. Dimostrava che la donna che gli stava di fronte era più intelligente della media e che il suo pensiero si avvicinava probabilmente al suo, in una qualche enigmatica maniera. Perciò decretò tra sé che ne valeva la pena, e annuì:

«Mi hai convinto, assurda mortale.»

«Ti fa così schifo chiamarmi Erin? L’accezione “mortale” ha un che di offensivo.» replicò la ragazza mentre si avviava verso l’auto facendo tintinnare un paio di chiavi.

Loki non si curò di risponderle ma la seguì fino al Duetto parcheggiato sul limitare del campo, osservandola aprire lo sportello e prendere posto all’interno, e la imitò dopo un attimo di principesca esitazione: in fondo, l’ultima volta che si era servito di un veicolo midgardiano aveva controllato la situazione dal tetto, non certo dal sedile del passeggero.

Erin riavviò il motore e riportò l’auto in carreggiata, acquistando presto velocità. Guidò nella notte ormai calata con un piccolo sorriso segreto dipinto sulle labbra e guardando l’uomo che le sedeva accanto con la coda dell’occhio: si sentiva euforica, l’adrenalina che le scorreva come un fiume rovente nelle vene e il cuore in gola per l’eccitazione e il trionfo. La sua speranza non si era rivelata vana, e come se non bastasse adesso era lei a tenere le redini della situazione, ad avere un vantaggio sul guerriero piovuto dal cielo; avrebbe potuto saperne di più sul suo conto e sui suoi propositi, e magari con un po’ d’astuzia questo l’avrebbe portata a realizzare un paio di folli, grandiosi desideri che aveva in animo da sempre. E poi, non riusciva a negarlo, quel Loki era maledettamente attraente.

Erin scosse il capo per tornare a concentrarsi sugli aspetti seri della faccenda:

«Mi hai detto che vieni da Asgard. Il nome non mi è nuovo, ma dimmi di più, ti prego.» lo interpellò dopo diversi minuti di silenzio. In lontananza si scorgevano le luci di Boston.

«E il mio nome non ti dice niente, invece?» chiese lui, la voce maliziosa.

«Entrambi mi dicono qualcosa.» confermò l’irlandese, pur non sapendo cosa.

Loki la fissò: «Asgard è il mondo in cui sono stato allevato. Gli umani lo chiamano anche Valhalla, la Dimora degli Dei. E io sono Loki, Signore dell’Inganno e della Menzogna, legittimo erede a un trono che mi è stato sottratto con stoltezza e stupidità.» disse, e le sue iridi fiammeggiarono di fiera collera nel buio abitacolo del Duetto.

La giovane donna sobbalzò e la macchina sterzò pericolosamente verso destra:

«Cazzo!» esclamò riprendendo a stento il controllo del volante; «Sospettavo che tu fossi un re poco terreno, ma addirittura un dio, quel dio...»

Loki parve divertito e lusingato dalla sua reazione: «Questo cambia qualcosa?»

«Non credo. Comunque sia al momento non sei molto divino, o sbaglio?» mormorò Erin; lui fece uno stizzito gesto d’assenso e lei proseguì: «Dunque cos’è successo lassù? Chi ti ha spedito qua come un pacco postale prendendosi i tuoi poteri?»

«Odino.» rivelò Loki in un ringhio. Quel dialogo iniziava a stancarlo.

«E Odino non è tuo padre?» indagò lei, che aveva le idee confuse al riguardo.

«Va’ a rileggerti la mia storia su qualche sciocco libro midgardiano.» fu la secca replica del dio caduto, e la ragazza di Galway comprese che per quella sera l’argomento era da considerarsi chiuso.

Percorsero l’ultimo tratto di strada senza parlare, entrambi a disagio, mentre l’auto s’immetteva nel raccordo d’ingresso occidentale di Boston e sfrecciava sotto le luci sempre più fitte e intense della grande città. Loki osservò la frenesia di quel luogo con infastidito distacco e i suoi alti palazzi ricoperti di specchi gli ricordarono New York e la sconfitta subìta, e il sangue gli ribollì nuovamente all’idea del ridicolo destino che lo aveva condotto da misero esiliato in un’altra città umana, scarrozzato da una folle mortale su uno strano veicolo.

Il Duetto svoltò in un groviglio di vie centrali meno trafficate e imboccò una discesa lastricata che conduceva a un parcheggio seminterrato, sotto una robusta casa di mattoni a più piani. Erin tirò nervosamente il freno a mano, spegnendo il motore.

«Merda, domani devo fare benzina.» borbottò nell’aprire la portiera; raccolse la borsa e la macchina fotografica dal sedile posteriore e guardò Loki, in attesa.

«Dove mi hai portato?» questi volle sapere scendendo finalmente dall’auto.

«A casa mia. Ti ospiterò per questa notte, poi vedremo che fare.»

Chiuse la macchina e lo condusse nell’ascensore, e salirono fino al penultimo piano del palazzo: qui, in un corridoio dipinto di bianco e rosso, Erin puntò con decisione su una portone di legno scuro e lo aprì, una mano posata sul pomello d’ottone che lo ornava. Loki indugiò, mirando le forme in penombra che si distinguevano all'interno e la sagoma esile dell’irlandese stagliata contro il chiarore che filtrava dalle finestre dell’appartamento.

Erin accese la luce dell’ingresso e gli dedicò un sorriso storto:

«Allora?» disse in tono più morbido, ignorando di proposito l’ambiguità della situazione e il calore che suo malgrado le era salito alle guance e alla punta delle orecchie.

Il Dio degli Inganni varcò infine la soglia ed Erin richiuse la porta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

> Note a piè di pagina

Ed ecco che comincio con le Citazioni Colte Da Veri Intenditori: il riferimento a Doctor Who e a Amy Pond, “the Girl who Waited”, e l’Alfa Romeo Duetto, che oltre a essere un’auto strepitosa è anche quella che si vede ne Il laureato, se avete presente di che film si tratta. In origine la macchina di Erin era una Giulietta, sempre Alfa e sempre degli anni ’70, quella della polizia nei poliziotteschi nostrani, ma poiché negli USA non è mai stata omologata ho dovuto scegliere il Duetto. Non che sia una perdita, sono belle entrambe e molto badass.

Così avete scoperto nuovi elementi sulla nostra mortale fuori di cucuzza, la quale si è appena portata a casa un asgardiano pluriomicida come se niente fosse. Sta giocando col fuoco ed è probabile che abbia un paio di idee malsane in testa, e credo che l’asgardiano pluriomicida in questione sia piuttosto intrigato dalla cosa.

Ammetto di non essere sicura che intorno a Boston vi siano campi e campagne come quelli in cui la donna d’Irlanda cazzeggia con la reflex prima d’incappare nel suo dio stropicciato, perché ho semplicemente occhieggiato le foto satellitari e letto qualcosa qua e là – voglio dire, ci saranno, ma di certo non nelle immediate vicinanze della metropoli. Chiudete un occhio, per favore.

Il titolo del capitolo è l’ultimo verso della canzone tradizionale irlandese Galway girl cui faccio riferimento nel descrivere Erin. Adoro l’Irlanda, sapevatelo ascoltatela nella versione di Sharon Shannon e Steve Earle, merita.

Di nuovo grazie mille a chi legge, a chi segue la storia e a chi l’ha messa tra preferite e ricordate. Però andiamo, scrivetemi le vostre impressioni: continuerò a pubblicare comunque, poiché la adoro e vado fiera di ciò che ho creato, ma sapere cosa ne pensate non potrà che farmi un immenso piacere.

Ossequi asgardiani e a presto! :)

 

 

 

  
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