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Autore: MedOrMad    17/01/2013    17 recensioni
Med ha 24 anni e non ne fa una giusta. Porta avanti una relazione di sesso con un soggetto di discutibile fascino, è 2 anni fuori corso ad una facoltà che non ha intenzione di terminare, è sovrappeso ed è pure stronza. O forse è solo socialmente inadeguata.
Ma più di tutto è persa: nella collana di errori che l’hanno portata a questo punto, ha dimenticato chi voleva essere.
Con Med ci sono Bet e Jules, le persone che di lei sanno tutto. Un trio improbabile, con l’eleganza oratoria di un gruppo di scaricatori di porto, che passa la metà del tempo a prendersi in giro e parlare di sesso. L’altra metà del tempo, però, si completano a vicenda.
All’apice della stronzaggine di Med, arriva lui: un po’ arrogante, impiccione e con un’ossessione - a quanto pare - per il grosso culo di lei.
Una storia di affetti, ridicoli avvenimenti, sesso e parolacce: perché a 24 anni la vita è anche quello.
E anche le ciccione, stronze e infelici fanno sesso. A volte.
Dal Testo:
“Che...che...che cosa vuol dire?” balbetto inebetita.
“Vuol dire che da oggi io e te avremo tantissimo tempo per fare l’amore in ogni stanza della casa.” mi risponde lui, facendomi l’occhiolino.
Questo mi manda ancor più fuori di testa.
“Tu sei tutto scemo! Io starò con la Amish che non si lava, non con uno la cui priorità è il proprio pisello!”
Lui mi fissa smarrito e, suppongo, anche un po' divertito.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mia nonna non vuole


CAPITOLO 11



Mia nonna non vuole





AN: ATTENZIONE! Il nome del fratello di Alex, prima noto come Jake, è stato sostituito con Adam. Il motivo è quasi imbarazzante: non mi era sovvenuto che Jake e Jack (l'amico di Med) sono due nomi praticamente identici.
Secondo: nel corso del capitolo trovere dei link alle canzoni citate... In realtà io suggerisco di tenere a portata di mano soprattutto il primo, così, perché sì. Il secondo è più che altro per rendervi l'idea del mood.
Terzo: Previously on Tuttotondo:

Dunque, lo facciamo tipo riassunto fiction di canale cinque? No, vi prego, poi mi sembra che Tuttotondo diventi Elisa di Rivombrosa.
Ok, ho preso spunto da un post che ho letto su FB per rendermi conto che, effettivamente, a distanza di più di tre mesi, è molto probabile che non vi ricordiate dove eravamo rimasti: quindi, andiamo per punti salienti.
Che L ha braccato Med al ristorante e le ha tirato un limone davanti agli occhi Alex e che Med gli ha (finalmente) tirato un ceffone, ve lo ricordate? Bon.
Che abbiamo scoperto che Alex fa il cuoco in quello stesso ristorante, è pure conservato nella vostra memoria? Ottimo.
Che Mr. "Occhio da Pokemon" ha mostrato la sua stizza per ciò a cui ha assistito? Siete dotate di fenomenali doti mnestiche, molto più di me e della Beta.
Perfetto: al suo ritorno a casa Med origlia una telefonata tra Alex e i suoi genitori in cui coglie particolari confusi del coinquilino e del suo rapporto con la famiglia... in modo particolare col fratello Adam. Ovviamente Med non ci capisce niente, se non che Alex è inviperito. Al confronto col biondello le cose vanno male e Alex si defila, salvo ricomparire giorni dopo, mostrandosi piuttosto sostenuto e per nulla interessato alle spiegazioni di Med.
Poi si susseguono simpatici botta e risposta tra i due, Alex mostra i muscoletti, Med sbava, finiscono per strada -con l'intento di andare a mangiare, non di essere arrestati per atti osceni in luogo pubblico- e, con la proposta di un giochetto, (Do ut Des) Med riesce a spiegarsi... Alex, che ben sappiamo essere bipolare, a quel punto la sbaciucchia... Cioè, nel capitolo aveva più senso, ma coi riassunti io sono una vera frana.
Ora, limonami di qui che ti limono di là, i due fanciulli si trovano costretti a interrompere le loro attività a causa dell'arrivo di una telefonata sul cellulare di Alex da parte di Adam...
Ed è qui che ci eravamo interrotti:

"“Chi è Adam?”
Lui fissa lo schermo con un’espressione dubbiosa, poi risponde:
“Mio fratello.”


Ed è da lì che riprenderemo.





Not a good time, dude...” accenna Alex portandosi il cellulare all’orecchio e per un attimo le sue labbra si fermano sull’incavo del mio collo, lasciando che la mia pelle reagisca rapidamente al contatto con lui. Prima che io possa aver davvero compreso l’ affermazione in inglese, però, la sua voce si interrompe bruscamente:

What’s wrong?

Normalmente la domanda dovrebbe mostrare una qualche traccia di interesse verso il suo interlocutore, eppure, mentre chiede al fratello cosa non vada, il tono del ragazzo di fronte a me sembra assolutamente privo di affezione: quando giunge prontamente una risposta che non mi è concesso sentire, Alex serra la mascella e i suoi muscoli, ancora in contatto con il mio corpo, sembrano contarsi sotto un’ondata di tensione.

Call your girlfriend...

Resto immobile cercando di non respirare troppo rumorosamente nel patetico tentativo di sentire cosa dice il fratello dall’altro capo della comunicazione; tutto quello che riesco a cogliere, però, è un vago fruscio in cui non distinguo alcuna parola di senso compiuto.

Alex tace per qualche secondo, accarezzando distrattamente l’incavo del mio collo con la punta del naso e prestando attenzione a ciò che Adam borbotta.

Espira con impazienza contro di me, scaldando la mia pelle per pochi istanti, costringendomi a rabbrividire non appena l’aria fredda torna a avvolgermi l’epidermide: al mio sussulto lui solleva il viso, incrociando i miei occhi e aggrottando la fronte confuso. Mi limito a stringermi nelle spalle non sapendo come spiegare a gesti la mia reazione, facendolo ridere: ma il divertimento si smorza nella sua gola quando torna a concentrarsi sulla conversazione con il fratello e lo vedo rabbuiarsi.

Is this a sick joke? Of all the people you know, I’m the one you call for this shit?

In silenzio ascolto mentre Alex chiede al fratello perché abbia chiamato proprio lui per il problema che, apparentemente,  Adam da solo non sa risolvere e  cerco di immaginarmi in che sordida situazione il fratello del mio coinquilino si trovi al momento, ovviamente senza alcun successo.
Il viso del ragazzo di fronte a me è duro e seccato proprio come il tono della sua voce, il che mi eccita in modo del tutto sconveniente, considerato che mi sembra evidente che lui e suo fratello siano sull’orlo di una lite.

Io il fratello di Alex non ho idea di che faccia abbia ma, più penso ai geni che possono condividere e sento il mio coinquilino adirarsi, più mi trovo a considerare seriamente l’idea di un ménage à trois. La qual cosa, nello specifico, mi porta a sentirmi grandiosamente maliziosa e accaldata alla splendida prospettiva dell’unione di due fratelli arrabbiati, americani e piacevoli all’occhio.

Devo aver assunto un’espressione demenziale perché, mentre mi perdo nel mio sistema di pensiero perverso e assolutamente inadeguato, Alex inizia a sventolarmi una mano davanti agli occhi, scrutandomi dubbioso.

Hold on a sec...” comunica nel ricevitore del telefono prima di rivolgersi a me.
“Che problema hai? Sei in trance?”
“Testa di cazzo.” borbotto dandogli un pizzicotto sul fianco, provocando l’insorgere dell’ennesimo sorriso beffardo sulle sue labbra.
“A che diavolo stavi pensando?”

Se glielo dico potrei ottenere due risultati ben differenti.
Nell’opzione A, quella in cui io sono particolarmente fortunata, alla mia confessione Alex si mostra incredibilmente entusiasta e si offre di invitare il fratello a raggiungerci. Il che ha, persino nella mia testa malata, qualcosa di vagamente sbagliato. E utopico, me ne rendo conto.
L’opzione B, ben più probabile, vedrebbe la sottoscritta risalire le scale da sola, essendosi del tutto bruciata ogni possibilità di consumare con il coinquilino e dovendo incassare qualche epiteto che possa apostrofare le mie evidenti perversioni e turbe psichiche.
Se fossi una persona religiosa, forse, ora mi confesserei.

A fronte degli scenari possibili, realizzo che l’unica strada percorribile è quella di sviare la sua attenzione da me e riportarla sulla sua conversazione telefonica.

“Al fatto che dovresti concludere la telefonata con una certa rapidità: io avrei un paio di cose in mente.”
"E che vuoi da me?” scherza lui, assolutamente consapevole del genere di cose a cui mi riferisco.
“Sono cose che richiedono la tua presenza...”
“Ah, sì?” sussurra facendo scivolare una mano fino al mio fianco con fare languido e spocchioso, ammiccando compiaciuto quando non riesco a non liberare un impaziente sbuffo.

Sembra in procinto di proseguire la sua discesa lungo il mio corpo, assolutamente determinato a provocare altre reazioni in me, ma la sua attenzione viene prontamente catalizzata dalla voce del fratello che chiama insistentemente il suo nome.
Alex fa schioccare un bacio veloce sulle mie labbra, seguito da un “Later” sussurrato e torna a interloquire con Adam. Segue un lungo minuto di silenzio in cui Alex si limita ad ascoltare con interesse misto a disappunto; i suoi occhi si muovono sbadatamente sul mio viso e le sue mani tornano ad intrappolarsi nei miei capelli in un movimento distratto e regolare.

In realtà vorrei fargli sapere che, se prosegue, mi ritroverò aggrovigliata come il filo degli auricolari del mio iPod o, cosa forse ancora più possibile - e mortificante - pelata, ma la storia sembra seria e il linguaggio del corpo del mio coinquilino tende ad essere molto più comunicativo di quella sua bocca tanto carina ma così poco convincente.
A confermare la tensione sempre più palpabile, dopo l’ennesimo morso auto inflitto al proprio labbro inferiore (gesto che ho imparato compie in situazione di particolare irritazione), la sua voce, ora profonda e tagliente, ribatte a una probabile provocazione:

“Yeah, I’m your fucking brother! Why don’t you keep that in mind next time you choose to tell on me?!” che, in parole povere vuol dire che Adam ha rivelato qualche segreto di Alex, che gli rinfaccia il loro legame di sangue - al quale sembra appena essersi appellato il fratello - condito da un bel fucking, che non fa mai male.

La sua rivelazione di sputtanamento fraterno attiva le rotelline del mio cervello e alimenta la mia sete di informazioni: nascondo il volto contro la sua spalla nella speranza che non sia del tutto conscio della mia presenza e provo a mettere insieme qualche pezzetto del puzzle che Alex sta rivelando di essere.
Adam deve avergli fatto un torto: fin qui non ci piove. Uno sgarbo che, riflettendoci, potrebbe avere a che fare con la telefonata che Alex ha ricevuto dai suoi genitori qualche giorno fa. Se non rimembro male il nome di Adam era stato fatto nella discussione.
Mi perdo nel mio ragionamento investigativo, inspirando a pieni polmoni il ricordo di Armani Code rimasto debolmente vivo sulla pelle del ragazzo che, immagino sovrappensiero visti i toni della discussione, fa scorrere il palmo della mano su e giù lungo la mia schiena.
Nel frattempo gli animi tra i due fratelli sembrano scaldarsi ulteriormente quando Alex prosegue nella sua missione di rispondere per le rime, rinfacciando a Adam realtà che io ignoro.

E la curiosità mi divora parola dopo parola.

“An eye for an eye, big bro... yeah, well, apparently I’m not the smart one. Yet, somehow, I end up being the responsable one to call for help when you...”

Sulla considerazione di essere reputato il fratello responsabile su cui contare quando c'è qualcosa di cui occuparsi e non quello intelligente, l’inflessione della sua voce subisce un colpo di rammarico e, anche se l’intera conversazione continua ad essere priva di logica alle mie orecchie, vorrei potermi intromettere nel tentativo di sedare il conflitto in atto o, quantomeno, di tranquillizzare il mio coinquilino.

Parliamoci chiaro: ha avuto più sbalzi umorali lui nell’ultima ora di quanti ne ha Jules in sindrome premestruale. Tutto ciò non può essere salutare. Forse è una forma di disturbo ormonale anche la sua? Potrebbe causare ipertensione?

Alt, l’ipertensione che effetti ha sulla libido e sulle capacità amatoriali? Perché se rischio di rimetterci io, mi sento in dovere di intervenire in difesa di Alex.
Ma lui sembra del tutto in grado di combattere le proprie battaglie e, sfortunatamente per me, pare essere tornato sulla scia della riservatezza perché, sollevando il mio viso dalla sua spalla, lascia la frase a metà, evidando di rivelare cosa abbia combinato suo fratello e aggiunge con una punta di astio:

Anyway, I’m with someone right now.”

Oh, sono io quel someone con cui è adesso! Sono io il suo passatempo.

Mi sento importante: insomma, se un ragazzo scarica il fratello per fare del salutare sesso con te devi per forza avere un certo peso, no? E io quello ce l’ho a prescindere!

I don’t have time for you.”

Non ha tempo per il fratello perché deve - finalmente - mettersi nudo di fronte a me!
Evvai!

Certa di aver vinto il mio Alex-pacchetto-regalo-da-spacchettare-fino-alle-mutande, però scopro il suo viso rabbuiarsi ancora una volta: resta in silenzio ad ascoltare le parole che provengono dal fratello; appoggia la fronte alla mia, socchiudendo gli occhi e sospirando prima di bisbigliare:

“Mi dispiace, Med.”

Svanite le possibilità di spacchettarlo fino alle mutande ed oltre.

Sono una pessima ragazza e una donna insensibile? Immagino di sì, ma penso che sarei molto più propensa all’empatia dopo aver avuto accesso a una mezz’oretta di fuoco con Alex.
Ogni donna è più sensibile dopo un orgasmo. È biologia, credetemi.
Provo un irrefrenabile desiderio di rispondere “Mi dispiace un cazzo!”, ma riesco a deglutire la mia protesta, riprendendo a farmi gli affari di Alex che nomina qualcuno di nome Andie, affermando che correrà in aiuto del fratello per il bene di tale Andie.

Ora, chi cazzo è Andie? È maschio o femmina? È figa? Oddio, non è che è tipo l’oggetto dei desideri di entrambi? Come quella Elena in The Vampire Diaries?

Sono in procinto di farmi sommergere da un sentimento che mi rifiuto di identificare come gelosia - del tutto infondata, tra l’altro - quando Alex, riposto velocemente il cellulare nella tasca posteriore dei jeans, poggia entrambi i palmi contro le mie guance e, ammiccando, domanda:
“Perché sei tutta rossa?”

Poggia piano le labbra sulle mie, impedendomi di confessare il mio ennesimo quanto ridicolo viaggio mentale e catturando la mia incondizionata attenzione. Mia e dei miei ormoni, si intende.
Ma è un bacio troppo breve, interrotto dalle sue dita che scivolano un paio di volte sulla mia bocca.
“Devo andare...”
“L’avevo capito.” sussurro cercando di nascondere il mio disappunto, conscia del fatto che sarebbe sconveniente mostrarsi capricciosa di fronte a un probabile problema di famiglia.

La verità è che non vorrei fare la persona matura: vorrei dirgli che io aspetto da quattro giorni e che ora che abbiamo parlato, non può andarsene un’altra volta. E vorrei che non ci spostassimo da qui se non per tornarcene a casa nostra. Che vorrei andare avanti nella simpatica esplorazione che avevamo intrapreso poco fa, possibilmente a porte chiuse, vestiti levati e telefoni spenti.

E, se non fosse per le sue mani contro la mia pelle che continuano a distrarmi, forse lo farei, incurante del fatto che ciò mi farebbe apparire per la tronfia egoista che, in questo preciso istante, avvinghiata ad Alex, so di essere.

“Vuoi che ti accompagni?” suggerisco accarezzandogli la pancia e, per un attimo, un flash dei suoi succulenti muscoletti si insinua nei miei ricordi e la mia salivazione aumenta.
“Non è il caso...”

Ovviamente.

Sarei tentata di forzare la mano e proporre un Do ut des a riguardo, ma temo che con Alex le questioni di famiglia siano tasti troppo delicati per tentare di strappargli informazioni quando non è ancora disposto a condividerle.
Mi guarda a sorride, con quel suo sorriso pungente che mi fa attorcigliare l’ombelico: il mio viso ancora tra le sue mani e il suo petto premuto contro il mio che si muove impercettibilmente ad ogni respiro.

“Ma tu stai bene?” provo a chiedere, nella speranza di non risvegliare la bestia isterica che ogni tanto sembra impossessarsi di lui.
“Starò bene quando sarò tornato a casa.”

Affonda i polpastrelli nella la mia nuca e guida di nuovo la mia bocca sulla sua, facendo schioccare una serie di baci veloci e rumorosi sulle mie labbra, rendendomi difficile articolare le parole. Immagino sia il suo patetico tentativo di zittirmi. Illuso.

“Ma...” Bacio.
“Tu e...” Bacio.
“Alex, aspet...” Bacio.
“Mmmhh... Shh!” Bacio. Bacio. “Sto cercando di baciarti!”
Bacio. Bacio con lingua.

Esasperata quanto combattuta, scosto il viso dal suo, porto una mano sulla sua bocca, ignorando il grugnito di protesta che si fa sentire nella sua gola, e lotto per porre la mia logorante domanda.

“Ma tu e la tua famiglia parlate sempre in inglese?”
“Che ne sai di come parlo con il resto della mia famiglia?” chiede ammiccando vittorioso, liberandosi della mia mano e ridendo di fronte al mio evidente imbarazzo.

Beccata!

“Origliare non è da signorine...”
“Mai stata una signorina.”

La mia risposta lo diverte incredibilmente e, non so per quale motivo, sembra scatenare in lui l’ormone impazzito perché, pochi secondi dopo, preme con prepotenza il suo corpo, tutto il suo corpo, contro il mio, sussurrando sul il mio collo:

“Beh, sì, siamo americani...”
“Allora non invitarmi mai a casa tua!” annuncio quasi disinteressata, ormai completamente concentrata su una sola meta: portare i miei adorabili palmi delle mani sul suo culetto d’oro!

“Credevo capissi l’inglese.” puntualizza sfiorando la punta del naso sulla mia clavicola mentre la mie dita si fanno strada lungo il bordo dei suoi jeans.
“Lo capisco.” sussurro mentre la sua bocca si sposta sulla mia “Ma se mi trovo in mezzo a voi che comunicate in inglese, rischio di ritrovarmi eccitata per ore...”
Mordo delicatamente il suo labbro inferiore, i suoi occhi sorridono per un istante, prima che le sue pupille si dilatino di colpo per lo stupore.

Meta, ladies! Mano destra di Med in F5, che identificheremo come “il sedere di Alex”.

“Sei una svergognata!” sghignazza in risposta al mio gesto audace, sospirando scocciato quando gli ricordo che non lo scoprirà mai se non si sbriga ad andare ad aiutare il fratello.
Un ultimo bacio leggero e sorridente e lo spingo lontano da me: se non me ne vado lo spoglio in mezzo alla strada tra 4 secondi.

“E tu che fai intanto?” chiede mentre io apro il portone di casa con la rapidità di un bradipo sotto formalina.
“Andrò a sostituirti con un sacchetto di Lindor.” rispondo riuscendo nell’impresa di fare ruotare le chiavi nella serratura e voltandomi verso di lui per salutarlo con la mano.
“Ti ci vorrà molto di più di un po’ di cioccolato per supplire a ciò che ti avrei fatto io...”
“Le parole se le porta il vento, mio caro. Quelli hanno la scioglievolezza...”
I’ll show you la scioglievolezza...” ride allontanandosi e estraendo le chiavi della macchina dal giubbotto.

Io lo osservo mentre se ne va e solo due pensieri si fanno strada dentro di me:
Perché aveva le chiavi della macchina in tasca? E, a questo punto, vorrei avere un pacchetto di cioccolato da due chili o essere Jules e possedere un vibratore?
Salendo le scale, però, l’unica risposta che mi sovviene è: nessuno dei due. Vorrei Alex.
Stupidi problemi di famiglia!

Mi ricordo quando io e Michele avevamo un rapporto orribile: io gli dicevo che gli volevo bene e lui, simpaticamente, mi rispondeva:

“Io invece ti odio”.

Mi chiamava Palla. Diceva che si faceva prima a saltarmi che a girarmi attorno. Detto tra noi: aveva ragione.
La sua battuta migliore era: “Il volume di Palla sai qual è? Quattro terzi, pi greco, r tre.” Insomma, il volume della sfera.

Io, a quel punto offesa, gli davo del Callacalla: parola priva di un vero significato ma che, se pronunciata con vocina acuta e stridula, in unione al caratteristico viso piangente con bocca spalancata da deprivazione totale di ossigeno, sembrava causargli un fastidio incomparabile.
Quindi la cosa proseguiva: lui mi chiudeva nell’armadio più alto e mi diceva di lanciarmici giù sparando ragnatele dai polsi e proclamandomi Spiderman. Il tutto finiva quando io sceglievo di sparare le ragnatele dalla bocca sputando sui suoi capelli corvini.

Poi arrivava madre Eleonora che, borbottando, si chiedeva cosa avesse mangiato in gravidanza per partorire due animali da trifola e, prendendomi in braccio, mi portava in cucina dove, di fronte ad un panino alla nutella (o al salame, o a quello che offriva la casa) io mi placavo placidamente e tornavo serena, completamente inebriata dagli zuccheri e dei grassi fluttuanti in me.

Overdose d’amore, altro che ciccia!

Se anche Alex e suo fratello fossero capaci di risolvere i problemi bene come me e Michele, ora non sarei sprofondata sotto il mio piumone da sola, azzannando una scatola di Grizbì e ascoltando “Straight to number one”  per simulare un virtuale rapporto sessuale.
Ma la vita è ingiusta. Quindi, con astio, dopo aver inviato un sms a mio fratello con scritto “Siamo una cazzo di potenza.”, mi accascio tra i cuscini e, tempo due minuti, russo come un facocero.

Non so se sia merito della frustrazione sessuale o semplicemente della stanchezza accumulata negli ultimi giorni ma, per una volta, il mio è un sonno così profondo che giurerei di essermi addormentata da pochi minuti quando sento una cascata di pizzicotti e morsetti leggerissimi precipitare sul retro del mio collo.

È qualcosa di così delicato e fresco che, per una volta, non vengo avvolta dall’istinto omicida che mi accompagna ad ogni risveglio ma, al contrario, mi riscopro a ridacchiare con la faccia affondata nel cuscino quando Alex, che come un ninja è salito a cavalcioni sulla mia schiena, soffia contro la mia pelle per fare una pernacchia.

“Molto maturo, Alex...”
“Svegliati!” protesta lui quando non mostro alcun desiderio di sollevarmi dal letto ma mi limito a sghignazzare al suo tono infantile.
Mostrando la sua tenacia, però, il mio coinquilino muove piano le ginocchia sul materasso e le fa scivolare lungo le mie gambe fino a che non si sdraia completamente sul mio corpo: intrufola le mani sotto il cuscino in cerca delle mie e riprende la sua deliziosa tortura alternando ai morsi baci leggeri.

Vivo con un alieno, è ovvio.

“Sofia, apri gli occhi.” mormora sfiorandomi la nuca e ridendo di fronte alla mia ostinata negazione.
“Dai, alzati. Ti porto a fare colazione...”

Mi porta a fare colazione? Dove?

“Se pensi di potermi sollevare fino alla cucina, sopravvaluti i tuoi muscoli o sottovaluti il mio peso.”
“Non sottovaluterei mai il tuo peso, Scintilla.”
Ecco tornato in tutto il suo splendore il mio coinquilino faccia di guano.

“Quando sei tornato?”
“Poco fa... c'mon, get up!” borbotta solleticando la mia scapola, ma io sono ancora piuttosto titubante all’idea di sollevarmi dal letto, tanto più che sotto il suo corpicino si sta una meraviglia: lui non sembra condividere la pigrizia che aleggia in me, però. Intreccia le dita con le mie sotto il cuscino e trascina le nostre braccia allo scoperto; poi, con una mossa che conferma il mio sospetto che sia un ninja in incognito, mi fa rotolare così che, inaspettatamente, mi ritrovo supina accanto a lui.

“Buongiorno!”
E io ribatto con una sorta di grugnito.
“Sensuale, molto.” sussurra con quel suo sorriso compiaciuto e gli occhi colmi di entusiasmo.
“Ma che ti prende?”
“Voglio che andiamo a fare colazione fuori!” mi spiega scendendo dal letto e tirando le mie mani verso di sè; quando riesce a costringermi a mettermi in posizione verticale, picchietta l’indice sulla punta del mio naso un paio di volte e mi annuncia:

“Hai quindici minuti per renderti presentabile e per raggiungermi in macchina.”

Io in quindici minuti forse mi sposto dal letto al water. Questo si è pippato un barattolo di zucchero a velo se pensa che io possa cambiarmi in un quarto d’ora.
“Ma che ore sono?”
“Le 8:30...” risponde lui uscendo dalla mia stanza e l’impulso assassino che latitava pochi minuti fa sale come un’onda devastante dentro di me.
“Ma vaffanculo, Alex! È l’alba!”
“Quindici minuti, o la colazione la paghi tu.” lo sento ridere dal salotto prima che chiuda la porta d’ingresso dietro di sé.

Resto imbambolata qualche secondo cercando di capire dove io possa trovare una Giratempo così da potermi travestire da essere umano prima di andare a fare colazione ma, nel bel mezzo della riflessione, mi rendo conto di un fatto assai più importante che si articola in due rilevanti sottoproblemi: prima di tutto, io non sono mai stata portata fuori a colazione da nessuno che avesse un pene.

Cosa diavolo ci si mette per andare a colazione con un ragazzo?
E, dilemma numero due, questo è una specie di primo appuntamento tra me e Alex?

Perché se lo fosse dovrei probabilmente chiamare Bet o Jules e chiedere istruzioni.

Attanagliata dal dubbio, dunque, mi sollevo rapidamente dal letto e corro alla finestra, aprendola e spalancando con pochissima cura le imposte: mi sporgo e scruto attentamente il marciapiede in cerca di Alex.
Appena poso gli occhi sulla sua testolina bionda mi metto ad urlare il suo nome come la peggiore piazzista e il mio coinquilino, precedentemente appoggiato al cofano della sua macchina, sussulta - non saprei se per il volume della mia voce o se per la sorpresa - per poi guardare nella mia direzione.

“Med... che stai facendo?!” domanda con un tono che potrebbe risultare di rimprovero, cosa che io ignoro volutamente.
“Ma questo è un appuntamento?”
“Che cosa?”
“La colazione. Tu che mi porti a colazione, intendo. È un appuntamento?”

Non lo posso vedere dal terzo piano, ma azzarderei che Alex sia appena arrossito a causa delle mie parole: forse era una cosa sottintesa e chiederlo è stata una mossa idiota? O è stata una domanda da ragazzetta appiccicosa e ora lui pensa che io lo stia pressando?

Perché giuro che non è così: io punto al sesso e al muscoletto.

“Med, ti dispiace?!”
“Cosa?”
“Potresti non urlare i fatti nostri dalla finestra?”
“Perché, io e te abbiamo dei fatti in comune?”

Poi, senza rispondermi, si mette a camminare verso il portone: ho appena il tempo di sporgermi come una giraffa dalla finestra per cercare di capire se è effettivamente entrato nel nostro palazzo o meno prima di sentire la porta d’entrata che sbatte e la sua voce che mi intima di “ritirare il mio stupido corpo all’interno della nostra proprietà prima che un piccione mi caghi in testa”.

Alex è uno sciocco: questo appartamento è della signora Riposi, non nostro.

Rientro e chiudo la finestra sbuffando quando lo vedo entrare in camera mia con uno sguardo scocciato:
“Ti sembra il modo?”
“Che modo?”
“Il tuo!”
“Quale mio modo?”

Sembriamo due aborigeni che comunicano come tacchini gloglottando e credo che Alex si sia appena pentito di avermi proposto di uscire a colazione. Fa un respiro profondo e si avvicina all’ armadio di fronte al letto a cui sono appoggiata, gli occhi fissi su di me.
“Stai per ritirare il tuo invito?” chiedo un po’ preoccupata.

Io ora ho fame! Pregustavo un cornetto alla marmellata.

“Prima di tutto vorrei che il resto del mondo non sapesse se e quando porto qualcuno ad un appuntamento. E, in secondo luogo, chiamalo come ti pare: io volevo solo che uscissimo insieme a fare colazione. Non c’è bisogno di dare un’etichetta ad ogni cosa...”
“Questo lo so, imbecille...” borbotto sottovoce, incurante della sua risatina che segue la mia protesta.

“Quindi?”
“Che ne so! Pensavo che se fosse stato un appuntamento mi sarei dovuta acchitare come si deve. Insomma, non è così che si fa?”
“Scintilla, io ho un lavoro da raggiungere tra non molto e, onestamente, le formalità le trovo frustranti...”
“Io pure...” confesso ridendo e ripensando alla mia inadeguatezza sociale.

“Mettiti quello che avevi addosso ieri sera.”

“Perché?” chiedo ammiccando e avvicinandomi a lui.
I suoi occhi ricominciano a sorridere e, quando i miei rovinano sulle sue labbra, lo sento inspirare. Fa scorrere le mani sui miei fianchi e intreccia le dita dietro la mia schiena, chinandosi lievemente su di me.

“‘Cause it was sexy as hell...” e libera l’aria sulle mie labbra, quasi sfiorandole con le sue.

Poi, senza preavviso, mi tira un leggero sculaccione, spostandosi da me, e mi ordina:

“Ora muovi il culo.”

Con gli occhi fissi sulle sue spalle che abbandonano la mia stanza e la mandibola a penzoloni per il tiro mancino appena incassato, constato di essere affamata in tutti i modi possibili: il dubbio è se ho più fame di cornetto o di Alex.
Sto per abbandonarmi ad una fantasia perversa su Alex con addosso solamente un grembiule da cucina che mi prepara brioches alla marmellata e la cosa mi intriga in modo quasi grossolano; poi sento l’oggetto della mia fantasia urlare “Sbrigati, Scintilla!” e, ormai rotta la magia, finalmente mi decido a vestirmi.



Pitstop



Se il lettore è sopravvissuto fino a qui, la direzione invita a fare un giro del letto saltando su una gamba sola e provando a toccarsi la punta del naso con la lingua: se il lettore ne è capace, ora può bere un bicchiere d'acqua per riprendere la lettura. In caso contrario... può riprendere lo stesso: La direzione ha il cuore tenero.




“Trovo irritante che tu stia mangiando come un caimano e che le dimensioni del tuo sedere non ne risentano.”

Siamo seduti al tavolino di un bar a un paio di chilometri da casa nostra dove, di solito, vengo a bere il caffè con Leo e, mentre io mi sono fatta portare un canonico cornetto alla marmellata con cappuccino, Alex si è dato alla colazione internazionale: cioè, non proprio internazionale, più che altro cibo in quantità industriali. E con accoppiate che solo un americano può tollerare.
Oltre ad essersi scolato una spremuta d’arancia non appena ci siamo seduti, ha scelto di iniziare la sua giornata con un toast, un Kinder Bueno e un cornetto alla Nutella; il tutto accompagnato da un - a mio avviso imbevibile- caffè d’orzo.

Non che io abbia realmente qualcosa da discutere sulle sue scelte gastronomiche (anche se penso che, in qualità di cuoco, dovrebbe avere uno spiccato senso del gusto e, di fronte alle sue scelte, mi sento in diritto di metterlo in dubbio), ma mi chiedo dove spedisca tutti i grassi annessi alla Nutella e al Kinder Bueno.
Insomma, ogni volta che vedo la pubblicità che inneggia alla leggerezza di quello spuntino, mando a cagare i magrissimi attori che lo divorano come se fosse un pezzo di sedano: “a cuor leggero e a culo pesante” dovrebbe essere il vero slogan. È pubblicità ingannevole.

Mentono sapendo di mentire e lo fanno a spese della gola che, si sa, è prerogativa di chi l’adipe la combatte da una vita.

Invece il biondino seduto accanto a me sembra addentare quello snack a culo leggerissimo, la qual cosa, ovviamente, mi provoca un vago istinto omicida.

“Non mi risulta che il sedere sia propriamente un punto critico nei ragazzi.” bofonchia lui deglutendo un quadratino di Kinder e scrutandomi con aria boriosa.
È evidente che lui e il suo fisichetto asciutto e scolpito non sanno neppure cosa sia il calcolo delle calorie: legittimamente, quindi, per questo lo odio.
“Non lo è quando non ne hai uno...” borbotto sorseggiando un po’ di acqua naturale e evitando di guardarlo.

“Mi sembrava non avessi da ridire sul mio sedere ieri sera. Anzi.”
“Ero eccitata. Non sono attendibile quando sono eccitata.” è la mia risposta sostenuta che, come al solito, sembra essere motivo di ilarità per il ragazzo alla mia destra.

Ci hanno posizionati ad un tavolino quadrato in un angolo del bar, nonostante i tavoli fossero praticamente tutti i liberi ma la cosa, in realtà, mi fa sentire più tranquilla: l’angolo del muro mi garantisce un po’ di privacy e mi copre le spalle, evitandomi di prestare attenzione alla posizione in cui dovrei piazzare il cappotto per coprire i rotolini di ciccia che, inevitabilmente, si palesano ogni volta che mi metto seduta.

Le persone magre, infatti, non sanno che la scelta del posto a tavola per una persona in carne è quasi sempre in parte condizionata dalla prospettiva che gli altri commensali e gli altri clienti avranno di lei e delle sue rotondità: di solito io individuo il posto più “coperto” - se c’è un angolo sono praticamente a cavallo - e, una volta posizionato il cappotto (rigorosamente appeso allo schienale della sedia per coprire possibili pieghe o segni visibili in zona posteriore e/o sulla schiena da altezza elastico del reggiseno), studio la strategia più consona per mascherare la presenza del rotolino (o rotolone, nel mio caso) che prende vita sulla pancia e che, disgraziatamente, spesso è visibile anche da una prospettiva laterale.
Il fatto è quantomeno spiacevole, soprattutto perché non sempre hai a disposizione una sciarpa da posarti in grembo; poi c’è il problema che tenere la borsa sulle gambe è contro il bon ton ed è un’azione terribilmente sospetta.

Stamattina con Alex, nel nostro tavolino protetto, ho potuto impossessarmi del posto nell’angolo, fatto che mi rende molto più rilassata: lui si è piazzato alla mia destra e, da quando è arrivata la nostra ordinazione, continua a tirarmi gomitate accidentali ogni volta che muove una mano per afferrare qualcosa.

“Sei mancino, non si può mangiare seduti accanto a te.”
“Altro di cui lamentarti, Scintilla?” ridacchia lui per nulla offeso dalla mia accusa e facendo collidere volontariamente il suo gomito sinistro con il mio polso, azione che gli fa guadagnare un’occhiata rancorosa da parte mia.

“Sì, c’è una cosa che non ho mai tirato fuori ma che mi assilla dalla prima volta che ho ritirato la posta anche per te...”
“E tu sei riuscita a tenertela fino ad ora?”

Alex mi fissa con un’espressione ironica che sembra illuminargli i tratti: si diverte, il mio coinquilino. Gli piace tantissimo prendermi in giro: deve esserci qualcosa di sbagliato in me perché la cosa mi piace. Quando ride per ciò che faccio o dico ho vagamente l’impressione che rida con me e non di me: è molto diverso. Se avete mai provato un forte senso di mortificazione di fronte alle persone che, pur mascherandolo, ridevano di voi, potete capire la differenza.

Sapere che lo diverto a volte mi fa veramente girare le palle, non lo nego; posso anche mostrarmi offesa ma, onestamente, il suo divertimento non mi ferisce.
Non so se perché negli anni la mia corazza si sia indurita di fronte a certi sfottò o se perché, quando ride per me, lo fa sempre il modo onesto, senza rendere la cosa umiliante: gli piace che sia ridicola e inopportuna. Lui lo trova interessante, non pietoso: capisce quello che voglio dire e perché lo dico in un preciso modo. A volte mi rendo conto della comicità di certe mie uscite solo quando lui si mostra divertito: ed è allora che rido anche se sono irritata. Rido con lui che ride con me. E non fa male come ha fatto a volte in passato.

Fa bene.

“Sì, ho fatto appello alla mia discrezione perché pensavo potesse essere un tasto delicato.”
“Ah, quindi la nostra colazione sta diventando seria?”
“Tu ti chiami Alex Aleman.”

Dichiaro voltandomi verso di lui e additandolo: non che sia colpa sua, però è davvero un nome che non si può sentire.
“Quindi?” domanda fissandomi con aria confusa, assolutamente ignaro del perché io abbia appena annunciato il suo nome completo come se fosse quello di un serial killer ricercato. Devo anche spiegargli perché la cosa è discutibile?

“Ti chiami Alex Aleman.”
“So come mi chiamo...”
“Alex Aleman, cioè... Ale- Ale-... I tuoi non ti volevano?”

Il mio coinquilino continua ad avere un’aria interdetta e, per qualche strana ragione non sembra cogliere l’orrenda assonanza a cui faccio riferimento io: insomma, parliamoci chiaro, sembra che i suoi l’abbiano volutamente bollato con un nome che suona ridicolo. Se hai un cognome che inizia per Ale-, è davvero assurdo scegliere per la tua progenie un nome che richiama le stesse identiche lettere.

“È la seconda volta che sento questa domanda da quando ti ho incontrata. Comincio a pensare che sia così...”
“Senti, non è che io voglia... ecco... dai, ma con un cognome così non ti potevano chiamare Bill?”

Rispondo io cercando di rendergli noto dove sta l’evidente problema; lui inclina la testa di lato, senza smettere di fissarmi e, inarcando le sopracciglia con aria di sfida, domanda:

“Andresti a letto con uno che si chiama Bill?”
“Mi credi così orribile da farmi problemi per un nome?”
Non posso dirlo ad alta voce ma, voglio dire, sono andata con L che aveva tratti molto più imbarazzanti di un brutto nome: non sono così selettiva.

“Stiamo discutendo di come suona il mio nome accanto al mio cognome.”
“Beh, non prendertela ma sembra una presa per il culo.”
“Io mi chiamo Alexander Aleman... è più lungo. E poi ho un secondo nome in mezzo.”

Ribatte lui difensivo e, potrei giurare, pure con una punta di orgoglio, come se fosse possibile rendere meno brutta l’accoppiata dei due nominativi.
Resto a fissarlo per qualche secondo con lo sguardo imperturbabile, aspettando che finisca di cercare di convincermi che, in qualche modo, io mi sbagli.
Ma la sua arringa finale è decisamente debole ed io non posso non farglielo notare dicendo:

“Fa schifo lo stesso.”
“Sì, è vero, è orrendo...”

Ammicco vittoriosa alla sua ammissione e provo ad indagare oltre chiedendo quale sia il suo secondo nome ma Alex opta per fare il misterioso, rispondendomi con aria sostenuta:

“Non te lo dico... Il mio secondo nome te lo devi guadagnare...”

Ride insieme a me e addenta un pezzo di cornetto alla Nutella, incurante delle calorie che si celano dietro ad un solo morso. Non che io ci badi molto, ma la Nutella è Il Peccato per eccellenza.

“Buona?” chiedo spostando lo sguardo sulla bustina di zucchero di fronte a me e giocandoci col cucchiaino.
“Molto. Vuoi assaggiare?”
“Mi piacerebbe ma, sfortunatamente, non riesco a levarmi dalla testa il fatto che tu hai ripetutamente apostrofato il mio culo come grosso. Da allora vivo male il rapporto col cioccolato.”
“Questa è una cazzata, tu di cioccolata ne mangi un sacco.” ridacchia lui, lanciandomi un tovagliolino che io schivo - fingendomi offesa - per poi mettermi a sorseggiare il mio cappuccino ancora intatto.

Alex non smette di ridere neanche quando appoggio la tazza e mi volto verso di lui per lanciargli uno sguardo fulminante ma, al contrario, appena il mio viso trova il suo, lui allunga una mano, afferra una delle gambe della mia sedia e con un gesto deciso mi tira a sè: in una frazione di secondo mi ritrovo con un ginocchio tra le sue gambe e la sua mano sulla coscia.

Dio. Mio.

“So io come fartela assaggiare a calorie zero...” sussurra chinandosi verso di me e sfiorandomi l’angolo della bocca col pollice. Io deglutisco a forza e cerco di mantenere una parvenza di controllo mentre lui toglie un po’ di schiuma di cappuccino dalle mie labbra.

Siamo in un luogo pubblico, non posso abbandonarmi ai miei istinti!

Ma lui non sembra preoccuparsi dell’audience perché libera un sospiro vibrato, appoggia piano la mano sul mio collo e, senza tanti fronzoli, trascina il mio viso contro il suo: intrappola il mio labbro superiore tra le sue labbra e succhia lievemente, facendomi dubitare di avere la capacità di mantenermi stabile sulla sedia, mentre le sue dita scivolano sulla mia spalla e mi guidano un po’ più vicino a lui.
Sorridendo solleva anche l’altra mano e la porta sulla mia nuca, premendo la bocca sulla mia e lasciando scivolare la lingua tra le mie labbra in un gesto lentissimo, rilassato, calmo.

Il tutto senza mai chiudere gli occhi o spostare lo sguardo dai miei.

Quando il suo pollice tocca nuovamente il mio collo e la sua lingua sfiora la mia, però, perdo ogni battaglia e lascio cadere le palpebre, cercando di capire il perché di questo bacio, qui, ora e così.
Poi le sue labbra si muovono contro le mie rendendo il bacio più profondo, e allora lo sento: cioccolato.
Sa di cioccolato.
Un bacio al cioccolato non l’avevo mai avuto prima. E a calorie zero.

Sento debolmente il gusto della Nutella e le mie papille gustative fanno scintille: quel flebile sapore di nocciola fuso con la cioccolata è qualcosa di così fottutamente buono che, alla realizzazione che è accoppiato con un bacio “strappa mutande”, penso di aver raggiunto l’apoteosi del piacere.
O, quantomeno, quella per una cicciona con gli ormoni attivi.
Poi, veloce come è iniziata, la gustosa tortura finisce. Lui fa schioccare un ultimo bacio sulla mia bocca e, sorridendo, sussurra:

“Buono anche il tuo cappuccino, però.”

Resto un pelo stordita dalle sue azioni, fissando quel suo faccino furbo con un’espressione attonita mentre lui ammicca e muove a intervalli regolari il pollice sulla mia guancia: è estremamente soddisfatto di sè, è evidente. Io cerco di trattenere ancora per qualche istante il gusto di Alex alla nutella, muovendo impercettibilmente la lingua e facendola passare tra le labbra in un gesto che sembra colpire il mio coinquilino perché, subito dopo, lo vedo tornare alla carica.
Ben decisa a non concedergli il controllo della situazione - e della mia indisciplinata libido - fermo il suo viso, appoggiando una mano sulla sua bocca e inarcando le sopracciglia con aria minacciosa.

E l’idiota ride. Ma perché ride sempre?!

“Regola n° 1: io odio le manifestazioni d’affetto in pubblico. Mi imbarazzano e le trovo irrispettose nei confronti dei poveracci che vi assistono.”

Alex si scosta dalla mia presa, dopo aver dato un bacio al palmo della mia mano - cosa che trovo carina in modo disgustoso e che allo stesso tempo fa scoppiettare le mie ovaie - ricomincia a bere il suo orrendo caffè d’orzo e risponde:
“Scintilla, attualmente noi due ci siamo baciati praticamente solo in pubblico.”
“Esattamente!” ribatto io con vocina acuta e additandolo “e guarda che risultati!”
“Che vuoi dire?”

“Che non portiamo mai a termine quello che cominciamo. Tu ti metti a fare il provocatore in pubblico e, alla fine, io vado sempre in bianco...” è palpabile il rammarico che cola dalla mia voce quando rispondo, scegliendo di tracannare il mio cappuccino come se fosse uno shottino di vodka per rendere la mia risposta più drammatica.
“Ti sei sporcata di nuovo...” sussurra lui avvicinandosi, causando un brividino nei pressi del mio ombelico. “... e non sei solo tu quella che finisce in bianco.”

E mi bacia piano. Ancora.

“Non lo trovi frustrante?” mormoro contro le sue labbra mentre mi concedo di godermi per un attimo la sensazione della sua bocca sulla mia.

“Da morire...” ribatte accarezzandomi le spalle, prima di scendere sulle braccia e di premere un po’ più forte il suo viso sul mio. 

Alex ha qualcosa nel modo di muoversi quando ti bacia che sa di ludico, di divertente anche quando non dovrebbe esserci nulla da ridere; lo fa con curiosità e con cura. Non ti bacia solo con le labbra; lo fa con tutto il corpo. Ogni parte di lui si muove al ritmo giusto, come se ci fosse un accordo preciso tra tutti i suoi muscoli: ogni respiro è in sintonia con ogni singolo fremito e l’unica cosa che tu puoi fare è lasciare che lui finisca la sua “opera”.

Quando la sua bocca si allontana dalla mia non riesco a trattenere un lamento che sale dal fondo della gola e che prende la sembianze di un nodo quando lo sento mormorare:

“Perché cazzo ti ho portata fuori?”

Non posso evitare la risatina che libero perché, in una forma altrettanto volgare, mi stavo chiedendo la stessa identica cosa.
Gli do una piccola spinta e il sorriso abbozzato che mi regala lo fa sembrare molto più giovane e, malgrado il vago senso di decenza che scalpita in me, mi sento ancora più accaldata di pochi secondi fa.

Ma mi ha sempre fatto tutto ‘sto sangue il mio coinquilino? Perché io non ero neppure consapevole di essere allupabile fino a questo punto.

Alex torna a concentrarsi sulla sua colazione senza smettere di ridacchiare quando io mi lascio sfuggire un commento che sembra inorgoglirlo ancora di più.
“Tu e la tua lingua di velluto dovete imparare un po’ di disciplina...”
“Di velluto, eh?” sghignazza lui inarcando le sopracciglia e sentirglielo ripetere ad alta voce mi fa sentire vagamente imbecille.
Vorrei mascherare l’imbarazzo ma la sua espressione compiaciuta e il suo viso divertito mi urtano e mi fanno ridere allo stesso tempo: Alex certe volte è così trasparente e spontaneo che non capisco come la stessa persona possa essere tanto riservata e silente su molte altre cose.

“Finiscila di pompare il tuo ego, pallone gonfiato.” borbotto ridendo mentre lui gongola e si leva la felpa.

Perché diavolo si spoglia, ora?!

“Parliamo più tardi del mio ego e di cose che si gonfiano” mormora malizioso, avvicinandosi al mio viso.
“Porco!” rispondo sorridendo, appoggiandogli un palmo sulla bocca per fermarlo “No! Niente effusioni in pubblico.”
Sento il sorriso prendere nuovamente forma sulle sue labbra premute contro la mia mano, poi mi afferra il polso e lo sposta.

“Tu hai troppe regole.” ma, questa volta sembra optare per la disciplina; torna ad allontanarsi e, in un gesto vendicativo, prende il sacro cornino della mia brioches, lo stacca e se lo mangia.

“Oppure sei completamente priva di autocontrollo e non mi puoi più resistere?”
“Tu ti sopravvaluti, Alex.”
“Davvero?”

No, non è vero. Non si sopravvaluta affatto: me lo farei qui e ora senza neppure sentirmi in colpa, lo ammetto. Solo che non voglio che lui lo sappia. Lui ride e io rafforzo la mia posizione - fintissima - di donna con autocontrollo.

“Io sono una donna e le donne sanno resistere ai loro beceri istinti, ricordatelo.”
“E io invece non ne sarei capace?”

È arrogante al punto giusto, con quell’insopportabile viso sempre arricciato in un sorriso a metà strada tra il divertimento e la provocazione: più lo guardo e più comincio a pensare che avesse ragione Jules e che la mia attrazione per Alex abbia radici meno recenti di quello che vorrei far credere a me stessa.
Ma io resto una persona con un carattere orribile e, se c’è una cosa che non posso sopportare, è l’idea di perdere qualunque tipo di battaglia: non lascerò certo che il mio coinquilino si convinca di essere quello con il potere.

Mi guardo attorno e non posso fare a meno di notare che al tavolo accanto al nostro sono sedute quattro ragazze - piuttosto fighe, aggiungerei - e che una di queste guarda ripetutamente nella nostra direzione cercando di non farsi notare: per un istante mi sento a disagio nel mio corpo.
L’insicurezza vibra lievemente nel fondo del mio stomaco e non riesco a non chiedermi se stia guardando me o Alex: sta contemplando le dimensioni del mio corpo e mi compatisce perché lei è filiforme e io rotolo? Sta sbavando dietro ad Alex? O, peggio ancora, si starà chiedendo perché il biondino carino è a colazione con la Palla?

“Scintilla?”

Basta la sua voce per scuotermi dal momento balenottera insicura e, tornando a guardarlo, penso che sarò anche sexy come un imbuto ma, per qualche strana ragione, a lui la mia sensualità da cono di plastica sembra intrigare.
Le signorine con l’aria da vagina placcata d’oro possono anche scrutarmi: però, per una volta, lo faranno mentre il ragazzo carino si concentra sulla sottoscritta e non su di loro.

Spinta da un moto di sicurezza che non mi appartiene, mi volto completamente verso Alex: accavallo una gamba con la sua e, ignorando il suo sguardo sorpreso, stringo nel pugno il collo della sua maglia e lo guido verso di me. Non sono propriamente esperta nell’arte della provocazione ma lui sembra trovare tutte queste moine piuttosto allettanti perché, quando le mie labbra si appoggiano sul suo collo, smette di respirare e piega leggermente la testa di lato per incoraggiarmi a proseguire.

Lascio qualche bacio sulla sua pelle, accarezzandogli i capelli e succhiando pianissimo mentre lui libera un sospiro e sussurra:
“Che stai facendo?”
“Marco il territorio...” dichiaro sfiorandogli la vita e senza staccare la bocca da lui.
“Ok.”

Non so di preciso per quanto tempo mi dedico allo sbaciucchiamento del collo di Alex e non posso negare di sentirmi in imbarazzo per aver scelto di essere così plateale in un luogo pubblico, ma l’orgoglio ha avuto la meglio e non riesco a trattenermi.
Alex respira in modo affaticato, stringendomi la vita ogni volta che con la lingua passo accanto all’incavo del suo collo e, stranamente, le sue reazioni sembrano far passare in secondo piano tutti i motivi per cui dovrei smetterla.

Poi, però, lui se ne esce con un “Med, you are killing me...”, che è interpretabile come “Mi stai torturando piacevolmente”, e tanto basta per farmi recuperare lucidità e decenza.
Scosto le labbra dal suo collo, incontrando i suoi occhi contrariati, per concedere un bacio a stampo alla sua bocca prima di accarezzargli una guancia e dichiarare:

“Credo sia il caso che tu te ne vada...”
“Perché?”
“Perché se continuiamo così degeneriamo, non credi Mr. Io-mi-so-controllare-e-tu-no?”

Alex si lascia sfuggire un debolissimo broncio prima che lo sguardo gli cada sul display del telefono e, recuperando la giacca, si alzi in piedi dicendo:

“Devo andare al lavoro, ma se non fosse stato per questo non te la saresti cavata.”
“Che peccato. Vedi perché non dobbiamo fare certe cose in pubblico? Ennesima occasione sprecata.” brontolo accettando la sua mano e lasciando che mi aiuti ad alzarmi in piedi.
Mi infilo il cappotto anche se credo che la mia temperatura corporea abbia superato il punto di ebollizione dell’acqua; lui mi porge la borsa prima di avviarsi verso la cassa, borbottando:

“Ha iniziato lei a farmi succhiotti e ora è colpa mia”

Io lo seguo sorridendo e penso che, se tenessi un diario, oggi potrei davvero andare a casa e scriverci sopra qualcosa tipo:

Caro Diario,
oggi ho pomiciato con Alex seduta al tavolino di un bar...

Sarei curiosa di voltarmi a guardare nella direzione del tavolo Patatine Dorate ma, una volta arrivata alla cassa e recuperato il portafogli, Alex appoggia una mano sul mio braccio e con la fronte aggrottata mi domanda:

“Cosa fai?”
“Pago...”

Mi sembrava abbastanza evidente che non puntavo a ferire il barista con il mio portafogli di Furla rosa elettrico (chiaramente un regalo di Jules): il suo volto però sembra assumere un’aria offesa e sospetto che si stia facendo sopraffare da qualche orgoglio maschile o roba del genere.

“Sono io che ti ho portato fuori a colazione.”
“E io sono quella che ha introdotto consciamente il cibo nel mio corpo.”
“Ma... pago io.”

Credo che il mio volto completamente indifferente rifletta il mio disaccordo con la sua ultima affermazione perché, per un secondo, sembra intimorito.
“Alex, sono una persona indipendente. Cioè, sono indipendente con i soldi dei miei genitori, ma sono comunque una ragazza che paga per sè.”

Io sono una persona pratica e, soprattutto, detesto certe formalità: non penso che il ragazzo debba pagare ogni cosa e non credo che dividere il conto declassi il tempo passato insieme o sminuisca il valore del gesto di essere invitata fuori a mangiare qualcosa.
“Ma non si fa così!”

Ora Alex sembra un bambino confuso e la cosa mi fa sorridere perché l’immagine si scontra fortemente con l’idea generale che ho del mio coinquilino.
Gli batto due volte la mano sulla spalla e, sorridendo, lo rassicuro:
“Con me si fa così. Tranquillo, dividere il conto non sminuisce la tua virilità o il tuo ruolo di maschio alfa.”

Recupero una banconota da 5 euro e la deposito sul bancone del bar per poi voltarmi verso Alex, sorridendo:
“Paga la tua parte, maschio alfa.”

Lui ride della mia testardaggine, si china e mi bacia con forza sulle labbra, rispondendo:
“Dio, quanto sei strana!”

Lo sono veramente perché le sue parole alle mie orecchie suonano come un complimento: lui paga il resto del conto e, aggrappandosi alla mia borsa, mi guida fuori dal bar.
“Forza che sono in ritardo.”
“Vai, io torno a piedi.” rispondo respirando a pieni polmoni l’aria fresca.

Il ragazzo di fronte a me scuote la testa per farmi sapere che non condivide la mia idea ma, per una volta, la prospettiva di passeggiare non mi sembra così orribile e, in fin dei conti, temo che se mi facessi accompagnare a casa, lo trascinerei nel mio letto, portandolo a licenziamento sicuro.

“No, davvero. Ho voglia di fare due passi e, dopo le tue performance, ho proprio bisogno di un po’ di aria fredda.”

Non è convinto di quello che dico, glielo leggo in faccia, ma dopo qualche istante di titubanza, sembra decidersi; fa un passo verso di me e, cingendomi la vita, mi bacia di nuovo.
Piano, solo una bacio leggero; labbra contro labbra. Delicatamente e per pochi attimi.
Poi libera la mia bocca e, con un sorriso, mi dice:

“Grazie per l’inusuale e inopportuna colazione.”
“Grazie a te per aver fatto esplodere le mie ovaie.”

Continua a sghignazzare di me mentre si allontana e si congeda con un: “A stasera, Scintilla.”

Resto a guardarlo salire in macchina per poi avviare il motore e sento una strana sensazione ribollirmi dentro: queste ore insieme sono state confortevoli e spontanee. Non ero a disagio e non ero perennemente sull’attenti con Alex e la cosa, per la durata di un respiro, mi terrorizza.
Io sono completamente inesperta in fatto di relazioni e sono una persona strana, soprattutto in questo momento della mia vita: ripensando alla semplicità con cui i momenti trascorrono quando sono con Alex, un po’ mi intimorisco.

Espormi ultimamente è una cosa troppa pericolosa per me e farlo con lui sembra una cosa tanto strana quanto inevitabile: non so se sia perché sto imparando a conoscerlo o perché lui sembra impassibile di fronte alla mia acidità, ma con Alex non mi preoccupo di risultare troppo stronza o troppo irritabile. Sarà perché mi ha incontrata al peggio di me? O perché siamo partiti con i battibecchi sin dal primo giorno e, ormai, si è abituato ai miei atteggiamenti poco femminili?

Non lo so, so solo che quando stavo con L sentivo sempre l’angoscia di dire o fare la cosa sbagliata: ogni mia azione era potenzialmente disastrosa e ogniparola era perennemente sottoposta a giudizi; con Alex è esattamente l’opposto.

Mentre passeggio con passo pigro verso casa e, come al solito, analizzo ogni cosa in modo eccessivo, il mio cellulare comincia a squillare insistentemente: estraendolo dalla tasca leggo sul display il nome di Jack accompagnato dalla sua foto in cui si atteggia a modello della Calvin Klein.

“Buongiorno, uomo più bello del mondo!” lo saluto, lasciando che un sorriso di faccia strada sulle mie labbra.
“Buongiorno un cazzo..." arriva la risposta dura e inaspettata. “... ma ti ringrazio per aver ammesso che sono una creatura di incomparabile bellezza.”

“Perché non è un buongiorno?”
Jack ha la capacità di far apparire aberranti anche le cose più semplici e, in genere, per lui anche l’aver finito il dentifricio può assumere sembianze apocalittiche, ragion per cui quando si mostra di cattivo umore, optiamo tutti per partire dal presupposto che sarà una stupidaggine.
Quindi, non mi allarmo più di tanto al tono isterico con cui mi parla e, al contrario, attendo che parta con uno dei suoi monologhi incomprensibili

Stranamente però la voce del mio amico non lascia trapelare isteria: sembra solo molto preoccupato.
“Med, è un’emergenza. Ho un servizio di catering nel pomeriggio e mi manca una cameriera...”
Il fatto che lasci la frase sospesa a metà mi inquieta ancora di più: conosco Jack a sufficienza da poter pensare che, qualunque cosa abbia in mente di dirmi, non mi piacerà affatto.
Lascia sempre le frasi a metà quando sa che non sarò entusiasta di qualcosa.

“E...?”

Pochi secondi di silenzio seguono la mia domanda, preziosi attimi che mi permettono di intuire dove sta andando a parare Jack e che mi portano a pensare una sola cosa: oddio.
“Devi venire tu. Ho bisogno di te.”

Come volevasi dimostrare: oddio.

Completamente presa dal panico e innervosita dalle - almeno dieci - ragioni per cui io non voglio essere coinvolta in questa cosa, esclamo in preda all’ansia:
“ No, Jack, non esiste. Scordatelo!”
“Sono nella merda fino al collo. Ho bisogno di te.”
“Jack, io sono la donna più maldestra sulla faccia della terra. Non posso fare la cameriera. Sappiamo entrambi che sarebbe un disastro.”

Ora, onestamente, quale essere pensante considererebbe mai l’idea di chiedere a una come me di maneggiare oggetti delicati (suppongo, tra l’altro, che la cosa dovrebbe essere fatta con una certa grazia), quando l’unico momento della mia esistenza in cui sono riuscita ad avere il controllo sul mio baricentro o sugli spostamenti d’aria causati dal mio culo è stato nei miei primi sei mesi di vita e solo perché non avevo sufficienti abilità motorie?

“Avanti, ti assicuro che anche una scimmia potrebbe fare quel lavoro.” tenta di convincermi lui con voce suadente, incurante del fatto che io persevero nell’emettere mugolii di dissenso.
“Le scimmie camminano appoggiandosi anche sui pugni, io non so fare neppure quello. La scimmia è più qualificata di me. Non puoi chiederlo a lei?”
Sono arrivata praticamente sotto casa e il portone del mio palazzo mi trasmette improvvisamente un fittizio senso di benessere: se riesco ad entrare nel mio condominio sarò al riparo da Jack e dalle sue richieste irragionevoli?

Ovviamente la risposta è no .

“Non te lo chiederei se non fossi davvero nei guai. Ti imploro, dammi una mano!” supplica lui con voce disperata, e il mio senso di colpa inizia a farsi avanti.
Resto in silenzio per un po’, cercando di decidermi, e lui attende trepidante una risposta.

“Che cosa mi devo mettere?” domando alla fine, cedendo alla sua supplica.
“Grazie Med, grazie, grazie, grazie!” esclama lui euforico.
Io sospiro e aggiungo:
“Aspetta a ringraziarmi. Dimmi che devo indossare per rendermi ridicola davanti a tutti.”

“Camicia bianca e pantaloni neri. Ti passiamo a prendere tra un’ora.” risponde, e percepisco il sorriso stampato sul viso nella sua voce prima che mi saluti, chiudendo la comunicazione.

Io osservo il telefono per dieci secondi, cercando di capire per quale assurda motivazione ho accettato. Poi ripenso alle sue parole: camicia bianca.

Io non ho una camicia bianca! Io non ho proprio camicie. Ho le tette troppo grosse per riuscire a comprimerle in una camicia.
Entro di corsa in casa e, levandomi il cappotto, corro in camera iniziando a frugare nell’armadio alla ricerca di un indumento che so gia non troverò.
Quando tutti i miei vestiti sono sparsi per la stanza rinuncio, rassegnandomi all’idea di non poter trovare una camicia bianca.
Infilato uno dei mille pantaloni neri che possiedo, cammino come una cretina per casa con addosso solo quelli e un reggiseno tristissimo, attendendo un’illuminazione su come risolvere il problema.

Poi mi blocco davanti alla porta di Alex e la osservo. Tutti i maschi hanno una camicia bianca, giusto?

Sulle mie labbra si forma un malefico sorriso. Apro furtivamente la stanza, stile Lupin III, come se non fossi oggettivamente in casa da sola e stessi compiendo chissà quale crimine e inizio a frugare tra gli abiti del mio coinquilino: nel momento in cui le mie dita trovano quello che cerco, lancio un urletto euforico in segno di vittoria.
Osservo la camicia per un attimo: sembra piuttosto bella. L’occhio mi cade sull’etichetta e realizzo che lo è perchè deve essere costata una fortuna, vista la marca stampata sul colletto.

Beh, poco male, non si accorgerà nemmeno che l’ho presa in prestito.
Scrollo le spalle e infilo entrambe le braccia nelle maniche, abbottonandomi l’indumento per poi specchiarmi.
È piuttosto evidente che non è una camicetta femminile e è innegabile che mi stia da cani. Mi fa ancora più cicciotta e, nonostante le spalle larghe di Alex, ha ancora il coraggio di tirarmi un po’ sul seno, ma non ho grandi alternative.
Quando il citofono suona, afferro le chiavi di casa e il cappotto e mi precipito giù per le scale, raggiungendo i miei amici che mi aspettano fuori dal portone.

Non appena Jack mi intravede esclama indignato:

“Ti prego, dimmi che è uno scherzo!”
“Che c’è?”
“Che cosa ti messa addosso? Cosa dovrebbe essere quella specie di sacco bianco che avvolge la parte superiore del tuo corpo?” afferma lui, scrutandomi disgustato.
Io abbasso il viso, lasciando che i miei occhi si posino sull’indumento e ribatto:
“È quello che mi hai detto di mettermi.”

“No, io ti ho detto di metterti una camicia bianca, non... di avvolgerti le tette nella Sacra Sindone. Che diavolo dovrebbe essere quella cosa? Med, cazzo, è una delle dieci cose più orrende che ti abbia mai visto indossare. E ti assicuro che tu ti vesti da schifo.” sentenzia senza spostare lo sguardo dalla camicia di Alex.

“D’accordo, non è mia. Io non ho una camicia bianca, ok?” spiego lasciando cadere le spalle.
“E di chi è?” chiede Jules alle spalle di Jack, sporgendosi dal finestrino e sorridendomi con un’espressione eccitata sul viso.
“Di Alex...”
“Ohhhhhh, di Alex!”  canticchia la mia amica riccia muovendo le sopracciglia su e giù prima di aggiungere estasiata “Io vi shippo un sacco.”

“Sì, questo l’avevo capito.” borbotto avvicinandomi alla macchina e spingendo la testa di Jules nell’abitacolo; nel frattempo lei ride e mi domanda:
“Te lo sei fatto?”
“No, non ancora.” annuncio aprendo lo sportello e la mia amica mi blocca con un piede, scrutandomi severa.
“E cosa diavolo stai aspettando?!”

Quando mi accingo ad aggiornare Jules sugli sviluppi delle ultime ventiquattro ore, Jack spunta alle mie spalle e, spingendomi delicatamente in macchina, dichiara:
“Potete parlarne mentre andiamo? Siamo in ritardo.”
“Ma se siamo in anticipo di tre quarti d’ora!” si lamenta Jules facendomi spazio sul sedile posteriore e allungando le mani verso di me per sistemarmi la camicia.
“Lo scopo è infiltrare Med in zona cucina prima che qualcuno la scambi per un mendicante.” bofonchia avviando il motore e ingranando la marcia.

Tre ore più tardi sono in preda a una crisi di nervi e molto vicina all’accoltellare Jack che, nelle ultime ore non ha fatto altro che lamentarsi delle mie limitate capacità di equilibrio, senza mancare di rimarcare in continuazione che con la camicia di Alex addosso sembro un baco da seta, ma meno pregiato.

“Baco di poliestere, hai rotto più bicchieri tu in qualche ora che l’intera squadra nel giro di un anno...”

Ora gli spacco il malleolo a colpi di porcellana, lo giuro!

Il mio amico sembra esasperato dalla mia scarsa performance ma, in tutta onestà, non capisco proprio per quale motivo: io l’avevo avvisato che sarebbe stata una strage.
Sbuffando, lancio un canovaccio sul bancone d’acciaio dell’enorme cucina in cui ci troviamo, circondati da non so quanti altri camerieri e, con voce irritata domando:

“Jack, ma cosa cazzo vuoi da me?! Io ti avevo detto che non ero la persona adatta... Fatico a tenere in mano una sigaretta, come pensavi me la sarei cavata con flûte e piatti giganti?”
“Meglio di così di sicuro...” mugugna lui facendo un rapido conto dei miei disastri e constatando in seguito:
“Med, con tutta la roba che hai rotto praticamente non riesco manco a pagarti.”
“Me ne farò una ragione, basta che mi lasci andare a casa.”

Sono ore che marcio dentro e fuori da questa cucina, portando piatti enormi a tavolate di commensali dall’aria ingessata e che sono tanto sciocchi da pagare per mangiare porzioni per puffi: é una festa per il lancio di un prodotto lettone dal nome impronunciabile, dalla funzione incomprensibile nonostante la presentazione, che ha come caratteristico colore l’ocra e che se ne vanta pure.

Siamo seri: che attrattiva può mai avere un oggetto che punta sul colore ocra per avere successo? L’ocra a me ha sempre fatto pensare ai problemi intestinali, come i cachi. Non so perché. So però che non pagherei mai per un utensile che mi ricorda qualcosa legato al colon e penso che questi signori siano dei pazzi per aver accettato di assistere al lancio di un prodotto color pupù di neonato.

Non capisco come Jack possa tollerare di lavorare per un servizio di catering: le persone che stiamo servendo sono orribilmente rumorose e trovano deliziose le tartar formato mini pony che i cuochi gli propinano. Già questo dovrebbe essere sufficienti a farglieli trovarli insopportabili: come si fa a complimentarsi con uno chef che ti propina cibo non cotto grande come un bottone, coperto di rucola - unico ingrediente che riempie davvero il piatto - e se la tira pure per l’idea raffinata? Anche il mio macellaio ha della bellissima carne cruda, ma non me la fa pagare come un Cartier!

E poi questi commensali sono delle lumache: io sono qui che sudo come un porcellino d’India per distribuire pietanze - per così dire - ad ogni angolo della sala e loro hanno l’aria di pasteggiare come se fossero al matrimonio di William e Kate.

L’ultimo piatto che ho dovuto portare era immacolato: al centro una sola, microscopica capasanta e la signora a cui ho servito la portata l’ha studiata, annusata e contemplata per una cosa come tre minuti. Suvvia, mangiatelo quel minuscolo mollusco e facciamola finita, no?
Questo lavoro richiede una tolleranza verso l’essere umano che io non posseggo e una coordinazione che non conquisterò mai.

Mentre cerco una via di fuga da questa situazione umiliante, Jules compare alla mia destra, posando una pila di piatti fondi e complimentandosi con se stessa per la sua forza:

“Sono un portento in questo lavoro. Jack, credo mi dovresti dare una gratifica.”
“Jules, è già tanto se non uso i tuoi soldi per pagare i danni causati da Med... mi hai detto tu di chiamarla.”
La mia amica riccia ridacchia e mi accarezza la testa quando vede l’espressione mortificata che dipinge il mio viso e, voltandosi verso Jack, suggerisce:

“Scusa, ma perché non la metti a lavare i piatti se nel servizio è così negata?”
“Declassata a lavapiatti: è imbarazzante...” bisbiglio coprendomi il viso con le mani, ma sentendomi sollevata quando Jack conviene con Jules e mi guida di fronte ad un lavandino pieno di stoviglie.
“Credi di essere in grado di fare almeno questo?” chiede lui scrutandomi con un sorrisetto di sfida che vola dritto contro il mio orgoglio.

“Ti faccio vedere io, spocchioso despota!” gorgoglio rimboccandomi le mani della camicia e mandando a quel paese la mia migliore amica che, in tutto questo, scatta foto di me tutta sudata e trafelata: se le posta su Facebook potrei perdere quel poco di dignità sociale che mi è rimasta.

Inutile dire che oggi non me ne viene bene una: appena apro l’acqua del rubinetto, il getto rimbalza su un piatto sporco di una strana salsina che inizia a zampillare impietosamente sulla camicia di Alex e io mi lascio sfuggire un’imprecazione, guadagnandomi l’ennesimo rimprovero da parte di Jack e ispirando Jules a passare dalle fotografie alla registrazione video per documentare la mia incapacità cosmica.
Poi, quando penso che peggio di così non possa andare, tocco il fondo: tutta concentrata sul mio dovere, raccolgo un coltello grosso come un machete e inizio a strofinarci sopra la spugnetta intrisa di detersivo; l’unico problema è che, mentre sfogo la mia frustrazione sull’utensile, me lo faccio scivolare tra le dita e, senza rendermene conto, faccio scorrere una parte della lama al centro della mia mano.

E vedo i sorci verdi.

“Porca puttana!” mi ritrovo ad esclamare con la mia solita grazia, portandomi la mano alle labbra nel tentativo di succhiare il taglio e attirando l’attenzione di Jack che, in pochi passi, è accanto a me.

“Oddio, Med, ti fa male?” domanda allarmato, prendendomi per un polso e avvolgendomi la mano in un canovaccio.
“No, non molto... è un taglietto.” rispondo seguendo con lo sguardo i suoi movimenti e sentendo Jules entrare dalla cucina.
La mia amica si avvicina preoccupata per capire cosa sia successo e, di fronte alle mie rassicurazioni, sembra tranquillizzarsi per poi chiedere:

“Ma come hai fatto?”
“Boh, non lo so di preciso...”
“Sicura che non fa male?”
“No, pizzica solo un po’...”

Nel frattempo Jack continua a trafficare con il mio taglio, lanciandomi occhiatine incerte prima di dichiarare che in quelle condizioni non gli servo a nulla e proponendomi di andare a casa. Inutile dire che io colgo la palla al balzo e, annodandomi lo straccio attorno alla mano, fuggo a gambe levate non appena ne ho l’occasione.





ricarica batterie




Con un calcolo matematico abbiamo stimato che, a questo punto, è scientificamente certo che le vostre batterie saranno esaurite: la direzione suggerisce quindi di farsi un pisolino e, come sempre, di sfruttare questo momento relax per fare pipì e procacciarvi del cibo.




Diverse ore più tardi me ne sto accoccolata sul divano e, afferrando il mio PC poggiato sul tavolino di fronte a me, me lo appoggio sulle ginocchia e apro il mio “documento dei pensieri”.

Faccio partire The blowers daughter” di Damien Rice, e la faccio andare a ripetizione, mentre le mie dita iniziano a battere sulla tastiera del mio portatile. Che cosa stia scrivendo non lo so. So solo che lascio, come faccio sempre, che le mie dita diano voce ai pensieri che non so esprimere a parole.

Sono talmente immersa nel mio delizioso stato di autocommiserazione che non mi accorgo nemmeno della porta di casa che si apre, o dei passi che si avvicinano alle mie spalle, fino a che non sento una voce dire:

Talking about depression!

Le mie mani si bloccano sulla tastiera e mi volto velocemente incontrando il sorriso ironico di Alex.

“Ehi, non sono depressa.... solo.... mi sto concedendo un momento di...” cerco di giustificarmi, pensando alla parola giusta e balbettando come una cretina.
“... depressione?” ripete lui divertito, chinandosi verso di me e spostando gli occhi sul mio PC, azione che mi allarma all’istante, ergo abbasso velocemente lo schermo e, voltandomi, incrocio i suoi occhi.

“Che scrivi?”
“Niente di sensato.” borbotto per liquidare la domanda il più velocemente possibile e lui, benché mostri uno sguardo dubbioso, sembra decidere di lasciar cadere la cosa - per ora - poi si mette a sedere all’altro capo del divano e chiede:
“Allora, a cosa dobbiamo il piacere della tortura musicale?”

“È stata una giornata disastrosa, Alex!” grugnisco affondando un po’ di più nei cuscini del sofà e appoggiando le gambe sulle sue cosce.
“Non ti aspetterai che massaggi i tuoi piedi puzzolenti solo perché hai avuto una brutta giornata, vero?”
“Ma senti questo! I miei piedi non puzzano!”
“Oh, come siamo irritabili! Dai Scintilla, raccontami le tue tragedie greche!”

“No! Non ti racconto niente, sono già stata presa in giro a sufficienza per oggi.” mi lamento dandogli un piccolo calcio e mostrandomi terribilmente offesa: lui, per tutta risposta, ride del mio comportamento infantile e si avvicina un po’.
“Su avanti, non fare la musona. Che ti è successo?” chiede facendomi il solletico ed io cedo come una smidollata, confessando ogni mio disastro e pizzicando la sua guancia ogni volta che scoppia a ridere.

Poi lui abbassa gli occhi e nota lo straccio ancora avvolto attorno al mio taglio: prende il mio palmo tra le dita e lo solleva per osservarlo meglio.
“E così  ti sei pure ferita?” domanda sopprimendo una risata.
Io annuisco e ritraggo il braccio quando accidentalmente lui fa pressione al centro della mano: i suoi occhi osservano i miei lineamenti con fare curioso, animati sicuramente dal desiderio di capire se la ferita mi fa seriamente male o se sto drammatizzando tutto.

Alla fine è noto che io faccio scene per tutto, quindi immagino che il suo dubbio sia più che lecito: in realtà non sento quasi più nulla, ma il fatto stesso che lui si mostri tanto divertito dalla sfiga che mi ha perseguitato oggi, mi spinge a  comportarmi come se la mia mano fosse in cancrena. Insomma, alla fine la mia è una ferita di guerra, no?
Alex continua a sghignazzare silenziosamente mentre io sfodero il mio broncio infantile, nascondendo la mano dietro di me per allontanarla da lui.

“Se mi devi prendere per il culo anche tu, puoi andare in camera tua!”

Lui mi ignora e allunga un braccio nella mia direzione: una cosa importante da sapere su di me è che se faccio una cosa, la faccio bene. Diversamente, mi astengo. Almeno, va così quando non si tratta di cose a lungo termine: con quelle fallisco sempre su tutta la linea, essenzialmente perché sono troppo volubile e mi annoio alla rapidità del suono.
Quindi, in prossimità del contatto con lui, schizzo in piedi e lo fulmino con lo sguardo come farei se mi avesse appiccicato una gomma da masticare tra i capelli, ma neppure questo sembra sfiorarlo: al contrario si alza in piedi e si avvicina a me con aria minacciosa.

“Ho un’idea migliore. Perché non diamo una ripulita a quella mano? Credo ci voglia un po’ di disinfettante.”

Chiaramente, alla proposta io reagisco come la persona razionale e matura che sono: lancio un urletto di protesta, cercando di piazzare più spazio possibile tra me e lui e mi nascondo dietro uno degli sgabelli della cucina.
È il caso di dire che io sono una vera cagasotto e ho una soglia del dolore bassissima: in qualunque circostanza evito ogni possibile incontro con tutto ciò che potrebbe causarmi un fastidio fisico.

E questo include, ovviamente, il disinfettate.  Insomma, qualunque bambino che si rispetti da piccolo si è ritrovato seduto sul tavolo della nonna con il suo bel ginocchio sbucciato e la temibile bottiglietta di plastica trasparente che recava minacciosa la sua etichetta con scritto “Alcol”. Ecco, io quando mi faccio male non mi preoccupo tanto del danno in sè, ma più del bruciore che dovrei tollerare in seguito.

“No.” rispondo avvicinandomi il polso al petto, cocciuta.
“Perché no?”
“Perché brucia.”
“Prometto che sarò delicato.”

Provo a fuggire, aggirando il divano per nascondermi in camera e mettermi al riparo dei malefici piani di disinfezione di Alex ma, vuoi perché sono agile come un leone marino, vuoi perché lui ha le gambe più lunghe, non so come me lo ritrovo davanti, col suo sorriso spocchioso e un’espressione di rimprovero sul viso.

“Med, per cortesia, non fare la bambina. Mio nipote è più coraggioso di te.”
“Hai un nipote?”
“Ho un’intera famiglia. Shocking!”
“Fottiti!”
“Più tardi.” risponde ignorando le mie proteste e spingendomi verso la porta del bagno.

“Avresti dovuto dire che quello era compito mio...” mugolo opponendo resistenza e cercando in ogni modo di liberarmi delle sue mani che stringono le mie spalle mentre mi guida nella stanza dove, sono certa, mi infliggerà insostenibili pene.

Suppongo che, a questo punto, non abbia più molto senso lottare: io sono più grossa, ma lui è decisamente più veloce di me e qualunque mio tentativo di fuga si tradurrebbe in nulla di fatto, data la limitata lunghezza delle mie gambe.
Non per questo, però, devo necessariamente mostrarmi cooperativa e mansueta: quindi, sbuffando, lascio che mi spinga sopra il ripiano di marmo vicino al lavandino, sfoderando il broncio più pronunciato possibile. Gli occhi di Alex si posano su di me per un istante mentre traffica nell’armadietto dei medicinali, e ride scuotendo la testa divertito dal mio atteggiamento.

Poi mi afferra il polso con decisione e inizia a tamponare con del cotone imbevuto di disinfettante il taglio sulla mia mano. Io inspiro, contorcendo il viso in una smorfia di dolore e lui ricomincia a ridere.

“Smettila di fare le scenate. Non brucia davvero. Lo stai facendo apposta.” mormora, restando concentrato sulla mano.
“ Che ne sai? Sei il mio taglio? Senti quello che sento io?”

La mia voce è colma di rabbia ma in realtà ha ragione lui, è tutta finzione. Il disinfettante pizzica a malapena e la ferita è talmente superficiale che, osservandola da vicino, mi chiedo perché stiamo perdendo tempo a pulirla quando potremmo dedicarci ad attività più interessanti.

Lui non spreca nemmeno fiato per rispondermi; si limita a sciacquarmi il taglio e a ricoprirlo con un cerotto; il tutto mantenendo vivo il suo sorrisetto e facendo roteare gli occhi ogni volta che io sbuffo o emetto qualche suono infastidito.

“Ecco fatto, Miss Sofferenza. Tutto finito.”
“Non sei stato per niente delicato.”
“Ti ho fatto male?” chiede abbassando il volume della voce e chinandosi un po’ per incontrare i miei occhi che fissano il cerotto mentre mi massaggio il palmo in modo teatrale.
“No...”

Lui sorride di nuovo e si avvicina di più a me, ancora seduta sul ripiano di marmo, posizionandosi tra le mie ginocchia e premendo le dita sulla mia vita con delicatezza.

“Ciao.” sussurra quando finalmente riesce a trovare le mie orbite, accarezzandomi le labbra con le dita e sfregando piano per cancellare il broncio che si ostina a decorarle.

“Ciao...” mormoro in risposta, distogliendo lo sguardo e soffiando piano contro la sua pelle: improvvisamente comincio a sentire caldo, ma sono determinata a portare avanti la mia posizione di invalida ferita nell’orgoglio.
Ma la cosa si dimostra più complicata del previsto quando lui, fregandosene del mio atteggiamento scostante, avvicina le labbra alla mia tempia e mi fa notare:

“Non mi hai dato neanche un bacio.”
“Non te lo sei meritato. Hai riso di me tutto il tempo.”

Le sue labbra lasciano una scia di baci accarezzando ogni centimetro del mio collo, fino a scendermi sulla spalla e scaldarmi la pelle, rendendomi veramente difficile ogni genere di resistenza.

Ora, è vero che il mio scopo era quello di porre l’accento sul mio graffietto e di recitare un po’ la parte della vittima - principalmente per molestarlo un po’ - ma più la sua bocca si concentra sulla mia carne, più il mio corpo mi invia dei segnali completamente diversi da quelli del dolore.
Senza contare che il suo profumo si sta facendo sentire con prepotenza, cosa che mi rende difficile anche solo pensare, figuriamoci recitare la parte di quella stizzita.

“Però ho curato la tua mano.”
“Capirai che operazione complicata. Derek l’avrebbe fatto con molto più stile.”
Le sue dita volano sotto il mio mento e i suoi occhi tornano a incrociare i miei quando mi chiede:
“Chi cazzo è Derek?”

Se ne sta lì, di fronte a me, con lo sguardo confuso e le sopracciglia inarcate: in quel momento mi rendo conto che mi fa così sesso che, se esistesse un limite ormonale legale, io lo supererei ogni volta che entro in una stanza in cui c’è anche lui.
Non voglio dire che la cosa mi stupisca, ma mi fa dubitare di quanto, effettivamente, io conosca me stessa: c’è una netta differenza tra quello che provo in questo momento e quello che il mio corpo mi comunicava in presenza di L. Eppure fino a pochi giorni fa non ero completamente conscia delle reazioni fisiche che Alex mi causava: volevo solo prenderlo a calci.

Ora preferirei scalciargli i pantaloni di dosso.

Le sue dita stanno accarezzando con regolarità l’interno delle mie ginocchia, distraendomi da qualunque pensiero che non abbia a che fare con lui, ma in qualche modo riesco a concentrarmi a sufficienza da spiegargli:

“È il protagonista figo di Grey’s Anatomy...”

Ma non credo che la cosa lo interessi più di tanto: sospirando, infatti, appoggia le mani sulle mie cosce prima di chinarsi in avanti e avvicinare la bocca alla mia.
“Interessante. Ora possiamo liberarci di Derek e concentrarci sul mio bacio?”
“Non credo proprio.” rispondo senza la minima forza nella voce.
“Perché no?”

“Non me lo ricordo più...” bisbiglio quando sento una delle sue mani salire fino alla mia vita: è talmente vicino a me che il suo respiro non lascia spazio al mio e, più i suoi occhi scrutano nei miei, più i miei istinti scalpitano per avere la meglio.

E chi sono io per negargli la vittoria? Insomma, siamo animali istintivi, no? La storia della ratio è tutta una cazzata per farci sentire meritevoli dell’appellativo di “specie superiore”.
Ecco, a me degli appellativi pomposi in questo momento non potrebbe fregare di meno: io ora sono istinto e voglio esserlo con Alex.

“Allora non era importante.” mormora prima di sfiorare la sua bocca contro la mia.
Si ferma per scrutare il mio viso prima di liberare un sorriso enorme e intrappolare le mie labbra nelle sue.
“Sei così fastidioso...”
“Che ho fatto adesso?” domanda con poco interesse, portandosi la mia mano alla bocca e premendo le labbra contro l’interno del mio polso: io non ribatto, anche perché non ho una vera risposta da dargli, e mi godo quel pizzicorio alla base del collo che la sensazione della sua lingua sulla mia pelle ha scatenato.

Le parole smettono di essere rilevanti quando solleva il viso da me, fa cadere un bacio a stampo sulle mie labbra e, incrociando le braccia davanti a sè, si sfila velocemente la maglia.

Dio, sì!

Allungo istintivamente una mano verso il suo ventre (e tutti i muscoletti che mi osservano di rimando) e lui segue i miei movimenti senza dire nulla: poi le mie dita sfiorano la sua pelle, facendolo sospirare lievemente quando lascio che scorrano lungo la linea che dal suo ombelico va al bordo dei jeans.
Incaglio le dita nella fibbia della sua cintura, tirando con forza verso di me; lui non perde tempo e, incorniciandomi il viso tra le mani, fa scontrare le labbra con le mie.

È questione di pochi attimi prima che la sua bocca torni a muoversi in modo convulso: le sue dita cadono sulla zip della mia felpa e con un colpo secco la slacciano.
Ora, cerchiamo di capirci: io vengo da scadentissime esperienze intime con L il cui massimo di iniziativa era togliersi i calzini prima del rapporto e che credeva di essere una potenza anche solo se mi spingeva sul letto.

È inevitabile, dunque, che la concitazione e la frenesia con cui si muove Alex contro di me siano una specie di mondo nuovo a cui solo recentemente ho avuto accesso: ovviamente tutto questo si traduce in un livello di tempesta ormonale che io non avevo idea di raggiungere. Il che mi riempie di iniziativa e sembra annullare ogni genere di inibizione.

Faccio scivolare lentamente una mano dalla sua cintura sull’esterno dei suoi jeans, pensando a che genere di sporcacciona io sia: se mia madre mi vedesse ora le verrebbe un coccolone. Poi lui, al contatto con il mio tocco, libera un piccolo gemito e io mi convinco che pensare a mia madre ora potrebbe portare a esiti catastrofici.
Per un attimo rompo il bacio e Alex protesta rumorosamente, guardandomi torvo: ha le labbra arrossate, gli occhi lucidi e mentre respira in modo affannato le sue spalle si alzano e abbassano con ritmo irregolare.

Ha un’aria talmente appetitosa!

“Che succede?” mi domanda recuperando fiato mentre si china per baciarmi una clavicola lentamente, concentrandosi a lungo su ogni centimetro che incontra.

Io sto in silenzio, ma faccio sgusciare le braccia sotto le sue per abbracciarlo e ricambio il bacio, dedicando attenzione alla sua spalla sinistra; le sue mani si fanno strada sotto i lembi aperti della mia felpa e, mentre con una mi tira più vicino a sè, con l’altra mi slaccia il nodo dei pantaloni, ridendo del sussulto di stupore che l’azione provoca in me.

“Devo fermarmi, Scintilla?” chiede ironicamente e le sue labbra tornano a cercare le mie.
“Non ti azzardare!” ribatto io minacciosa, cercando di tirare in dentro la pancia ogni volta che la sua pelle tocca la mia.

L’insicurezza-rotondità si attenua però nell’istante in cui le sue dita scivolano sotto l’elastico della mia tuta.

Tell me what you want...

Eh.

Cosa voglio. Eh.

Non rispondo, ma cerco di fargli capire che non voglio certo andare a controllare la posta elettronica, ecco.

Trattenendo il respiro, affondo le unghie nella sua schiena e sento lo stomaco contorcersi nell’attimo in cui, ritrovata la mia bocca, la sua lingua scivola calma contro le mie labbra.
Sembrano ore interminabili gli istanti in cui le sue dita giocano con il bordo dei miei pantaloni mentre ricambio il suo bacio con forza e ne prendo il controllo, facendo scorrere la lingua contro la sua.
Quando spingo le unghie contro la sua pelle una seconda volta, Alex non trattiene un gemito profondo che si spegne nel nostro bacio ma, in cambio, lascia scendere la mano più in basso e, con un lieve movimento, la intrufola oltre i miei slip.

Mentirei se negassi che, nella mia testa, è partito un coro gospel che canta l’halleluya.

Non so quanto tempo passi dalla sua prima carezza al momento in cui smette di baciarmi e trova i miei occhi, ma sono quasi certa che quando le sue iridi incontrano le mie, il mio viso assuma una colorazione più rosea perché lui mi sorride e la sua mano inizia a muoversi sempre più lentamente.

O era prima che si muoveva lentamente e ora sta accelerando? Dio, non lo so davvero. Fatico a fare congetture quasi quanto a trattenere qualche parolaccia - assolutamente di gratifica per quello che sta facendo, intendiamoci!

Non è che io voglia fare paragoni ma, a fronte di quello che Alex sta facendo laggiù, sono più che certa di poter affermare che no, L non sapeva fare neppure quello; il pensiero un po’ mi rattrista. Non per L, ma per me e per tutto quello che mi sono persa fino ad ora.
Torno ad accarezzare la sua pelle, lasciando cadere baci sparsi sulle sue spalle e stringendo le dita attorno alle sue braccia ogni volta il suo tocco si fa più deciso: poi il caldo si fa più intenso, il mio respiro diventa così irregolare che credo di non riuscire a trovare abbastanza ossigeno e i muscoli mi sembrano indolenziti al punto che devo appoggiare la fronte contro la sua spalla.

Passeranno forse pochi secondi, o venti minuti, magari la sua mano è sgusciata nei miei pantaloni da due ore e io non lo so: la verità è che ho completamente perso la cognizione del tempo e, soprattutto, il controllo delle mie reazioni.

“Scintilla, sei con me?”
“Sono un tantino distratta al momento...” balbetto, provocando una leggera risata soffocata nella sua gola, ma fregandomene altamente: l’unica cosa a cui riesco a pensare è al caldo che ormai mi appanna la vista e al fatto che, benché io sia una persona poco rumorosa, sono sul punto di lasciarmi sfuggire qualche suono imbarazzante.

Le labbra di Alex, ancora arricciate in un sorriso, si posano sull’incavo del mio collo e succhiano piano allo stesso ritmo con cui le sue dita non smettono di sfiorarmi: poi sento un pizzicore divenire sempre più intenso appena sotto l’ombelico, trattengo il respiro e mordo con forza l’angolo della spalla di Alex. È una scarica elettrica quella che mi attraversa, che parte dallo stomaco e arriva dritta fino alle punte dei piedi e, per sette secondi, sono in Paradiso.

Espiro con una fatica incredibile alla fine di quei secondi e sento tutto il mio corpo: ogni singolo frammento è sensibile, prima teso, poi fiacco e rilassato.
La sua mano ora è ferma contro la mia pelle e l’unica cosa che si muove sono le sue labbra che sfiorano in continuazione il mio collo, mentre i miei denti allentano la presa sulla sua spalla.

Santo cielo!

Quando riesco a recuperare il controllo dei miei muscoli sollevo il viso e, trovati i suoi occhi compiaciuti, afferro la sua mano e la sposto dal suo nascondiglio nei miei pantaloni. Stringo i suoi capelli in un pugno e lo bacio con tutta la forza che ho, scendendo dal mobiletto e camminando all’indietro per guidarlo con me in salotto.

Do ut des...” bisbiglio sulla sua bocca e lui protesta con un gemito di dissenso.
“Non il gioco. Dare per ricevere...” ridacchio maliziosa e i suoi occhi si illuminano con un guizzo di gioia.

Che ragazzino!

Raggiungiamo velocemente il divano e Alex lascia che mi ci sdrai sopra prima di raggiungermi ridacchiando piano, stendendosi sopra di me mentre riprendiamo a limonare come due formichieri senza spostare le mani l’una dal corpo dell’altro.
Completamente distratta dalla sua pelle contro la mia, quando sento la maledetta suoneria del mio cellulare rimbombare nelle pareti del salotto, mi trovo a pormi spontaneamente una domanda: che diavolo di problema ha il cosmo con me, Alex e il sesso?

Me lo chiedo perché comincio a pensare che mia nonna, dall'aldilà, mi stia inviando qualche strano segnale per farmi sapere che è meglio che l'Americano non tiri nella mia porta.

Nonna? Anche se non ne vale la pena, io sto ragazzo me lo devo fare: ormai è una questione di principio.

Mi fermo per un momento, le mie dita strette alle sue spalle e le sue, ora immobili, contro la mia pelle. Con un cenno del capo cerco di fargli capire che non mi importa dell'interruzione; pochi secondi dopo, le mie mani riprendono il loro delicato movimento e un sospiro sfugge esile alle sue labbra mentre respira contro la mia bocca:
“Non rispondere.”
“Non ho intenzione di farlo.”
E lui ride quando guido di nuovo il suo viso contro il mio e faccio scorrere le mani fino a trovare di nuovo la fibbia della sua cintura.

"Sappi che penso che tu stia sul cazzo a mia nonna, comunque..."
"Med... "
"Mmmmhh?"
"Shut the fuck up!"

"Certo che anche tu dici un sacco di parolacce." sul suo viso spunta un'espressione incerta che mi diverte inaspettatamente: potrei essere dispettosa e fargli credere che la mia sia una critica, ma poi i suoi occhi dubbiosi mi inteneriscono e non riesco a trattenermi: "Mi eccita. Continuiamo”

Mi chiedo se sia normale ridere così spesso durante il petting, visto che con L era già tanto se emettevo un suono, ma la cosa perde rilevanza quando mi decido a slacciargli la cintura e a sbottonare un paio di bottoni dei suoi jeans. Lui sospira molto lentamente e io rido.
“Femminuccia...” lo accuso baciando le sue labbra ormai gonfie e lui sghignazza fino a quando il telefono di casa comincia a squillare.

Stavolta è lui a bloccarsi su di me, ma io veloce bisbiglio:
“C’è la segreteria.”
Mi convinco di aver trovato la soluzione ad ogni nostro problema ma vengo subito smentita dalla voce singhizzante di Jules nella segreteria:

“Med, richiamami. Per favore.”

Al suono delle parole della mia migliore amica, Alex si ferma e allontana la sua bocca dalla mia: mi fissa per pochi, brevi istanti, poi mi bacia un’ultima volta e si solleva da me.
Afferrandomi per i polsi mi aiuta a mettermi in posizione seduta e all’improvviso mi sento un po' troppo esposta, seduta lì mezza svestita, ma poi lui mi sorride, sfiora il mio collo con le labbra, mentre allunga un braccio e afferra il cordless, porgendomelo.

“Richiamala...” mi ordina, spostandomi i capelli tutti arruffati dal viso. “... io preparo la cena”
“Mi dispiace.” sussurro.
“Credimi, dispiace più a me...” sghignazza baciandomi la spalla ancora nuda e poi aggiunge contro la mia pelle “... stavolta ti ho baciata in casa e quello che va in bianco sono di nuovo io.”

“La tua costanza verrà ripagata... Sempre se mia nonna smette di scatenarci contro le forze cosmiche e ci lascia battere chiodo.”
Sghignazzando si solleva dal divano e mi bacia un’ultima volta, chiedendo:
“Che vuoi mangiare?”

“Quello che vuoi. Sei tu il cuoco. Mostrami quello che sai fare.”
“Ok, farò del mio meglio.”

Alex si sistema la cintura semi aperta e, fischiettendo, si dirige verso la cucina; nel frattempo io compongo velocemente il numero di casa di Jules, guardandomi attorno alla ricerca di qualcosa con cui coprirmi. I miei occhi si posano per un attimo sulla schiena nuda del mio coinquilino che si muove tra i fornelli e rischio di affogare nella mia stessa bava proprio mentre Jules sussurra nella cornetta:

“Pronto?”
“Jules, che è successo?” chiedo individuando la felpa di Alex, stabilendo che è molto meglio che lui resti svestito e che l’indumento serve più a me e alle mie rotondità esposte: mentre mi vesto la mia amica tace e sento che sopprime dei silenziosi singhiozzi.

“Jules? Mi dici che succede?”
“Io...ero in ritardo.”
“Per cosa?” domando confusa.
Quel ritardo, Med. Il ciclo.” mormora lei con la voce rotta e la cosa mi manda dritta sull’orlo di un attacco di panico. Jules non piange: lei è una donna dalla lacrima difficile e sentirla così mi terrorizza.

“Ok, stiamo calme. In che senso eri?”
“Poi ho fatto il test.”
“Ok, e cosa dice il test, Jules?” e, alla mia domanda, lei comincia a piangere.
“E’ positivo, Med!”

Oh, merda.



AN: Buongiorno a tutti. Inutile dire che le mie scuse per questi mesi di assenza sono dovute e che mi dispiaccio moltissimo per aver lasciato tutti voi a bocca asciutta così a lungo.
Chi si è unito al gruppo di Facebook "Di TuttoTondo in TuttoTondo" sa che lo stop degli aggiornamenti è dipeso esclusivamente da alcuni problemi personali che hanno occupato il mio tempo e la mia testa per diverso tempo: questa storia è molto importante per me e non l'avrei abbandonata se non per ragioni estremamente valide.
Non era mia intenzione allontanarmi da EFP per così tanto tempo e non avevo in programma di smettere di scrive per tutti questi mesi, davvero. Mi scuso immensamente per chi è rimasto in attesa e mi ha lanciato qualche Macumba. Spero che potrete perdonarmi!
Innanzitutto mi devo scusare per la lunghezza del capitolo: mi rendo conto che sia pressoché infinito, ma vi assicuro che alcune scene sono già state posticipate al capitolo successivo e che più di così non ho potuto tagliuzzarlo.
Spero che almeno qualcuno sia sopravvissuto fino alla fine.

Secondo: sì, siete autorizzati a colpirmi con una mazza per l'ennesimo finale aperto... Tenendo conto, però, che questa volta non volevo lasciarvi in sospeso; l'operazione "dividiamo il capitolo in due perché è TROPPO lungo" è la responsabile di questo cliffhanger... Ho lottato contro di lei, ma ho perso.

Terzo: ci sono un gruppo di persone, note ai più come le "Tuttotondine", a cui va la mia più immensa gratitudine per la fiducia, il sostegno e l'entusiasmo che mi hanno dimostrato ogni giorno, anche durante la mia assenza. È un po' anche per loro che non ho abbandonato Med e che questa storia va avanti. Siete insostituibili!

All'interno di questo meraviglioso gruppo di donne, ci sono poi le "Ragazze del WannaMakeOut" a cui devo un bello shout out: mi hanno dato un sacco di forza con il loro affetto, e il loro regalo si è conquistato un posto speciale nella mia top ten del cuore. Siete tutte quante meravigliose e non so davvero come ringraziarvi per tutto l'amore che mostrate a me e a questa storia sgangherata.

E, in ultimo, una dedica: il capitolo è, chiaramente, in onore di ogni singola persona che non ha abbandonato questa storia, ma ci sono due persone a cui - per i temi trattati - sento di dover dedicare questo aggiornamento. Una è S.... perché se la storia va avanti è anche perché lei è certa che troverà un fidanzato solo quando io avrò finito Tuttotondo... e perché le avevo promesso un po' di baci.
L'altra è la rockstar del gruppo fb di Tuttotondo, la Beta migliore che io potessi trovare e, da qualche settimana mia musa: Letizia. I motivi per cui ti ringrazio te li ripeto ogni giorno in skype, ma un riconoscimento pubblico mi pareva il minimo. Sei la mia life coach, la persona che trova sempre il modo di tirarmi fuori dalla scene assurde che progetto e quella che mi ha spinto un po' oltre il mio limite. È un primo tentativo, probabilmente neanche troppo ben riuscito, ma tu sai quanto tabù fosse per me. Ergo, grazie di cuore. Per Tutto.

Un grazie ancora gigantesco a chi ha resistito fino qui e le mie più sincere scuse per l'attesa.
PS: mi scuso anche per tutte le recensioni che sono ancora senza risposta... La ragione per questo mio imperdonabile agire è la stessa dello stop degli aggiornamenti: attualmente sono in piena sessione d'esame ma cerco subito di recuperare! Abbiate pazienza, sono terribile, lo so.
   
 
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