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Autore: Terre_del_Nord    01/02/2013    9 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is'
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That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Chains - IV.019 - L'Amore e la Morte

IV.019


Meissa Sherton

Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972

La bella mattinata passata con Sirius a lezione di Volo mi aveva distratto un po', ma ero ancora scossa per la rissa tra mio fratello e MacNair, nei sotterranei, per questo non riuscivo a concentrarmi sui libri. Mi chiedevo se quell'energumeno avrebbe finalmente smesso di darci il tormento: ero rimasta così scioccata vedendo Rigel a terra, incapace di difendersi, che, nonostante il disagio che provavo nei suoi confronti, ero riuscita a impormi con Lucius Malfoy, perché, come Prefetto, prendesse le parti di Rigel davanti a Slughorn. Non ero sicura di essere stata convincente, forse Lucius aveva altri motivi, più personali, per denunciare MacNair, ciò che contava per me, però, era che, invece di deridermi, nostro cugino mi avesse sostenuto e ora Walden fosse in guai seri.
Ormai era pomeriggio inoltrato e mi trovavo da un paio di ore in biblioteca, per una ricerca inconcludente sugli usi della Passiflora, nascosta, con Pauline McDougal e altre due ragazze Ravenclaw della Confraternita, in un angolino tranquillo, vicino alla finestra, lontana dalle ochette amiche della Dickens, impegnate a pavoneggiarsi davanti a William Emerson e altri ragazzi del Quidditch. Lily e Severus si erano sistemati al solito tavolo in fondo alla stanza: ormai lo chiamavo il “tavolo di Severus” perché, così in ombra e defilato, era rifuggito da tutti, a parte lui. Sirius e i suoi amici, invece, non si erano visti e la cosa non mi sorprendeva troppo: James Potter, a lezione, mi era sembrato parecchio su di giri, in faccia la solita aria da “combina guai” e, in effetti, a pranzo, Yaxley aveva sghignazzato con Severus, dicendo che erano stati beccati da Mastro Filch a fare “qualcosa” intorno agli armadietti. Sospirai, rassegnata: di sicuro avevano rimediato l'ennesima punizione e non avrei visto Sirius, se non a lezione, per giorni e giorni.
Fissai lo sguardo oltre i vetri, le montagne ingrigivano velocemente, si stava facendo buio, i pochi studenti che si erano attardati nel parco a giocare con la neve stavano rientrando attraverso i cortili, infreddoliti: i miei occhi, però, ora non si soffermavano più su nulla perché, finito quel lungo giorno, la mia mente scivolava di nuovo a Londra per fissarsi su Mirzam e sul processo.

    A quest'ora forse è già tutto finito e anche il destino di mio fratello è stato deciso...

Ero così presa dai miei pensieri che, all'inizio, quando Janine Emerson raggiunse il nostro tavolo, trafelata, per dirci che Rigel era scomparso nella Foresta Proibita, neanche compresi le sue parole; messo a fuoco, infine, il senso del discorso, mi resi conto di quanto fosse ormai buio e rimasi pietrificata dalla paura, convinta che non fosse un caso, che, qualsiasi cosa fosse successa, il responsabile, ancora una volta, fosse MacNair... e che perciò… fosse indirettamente colpa mia...
Lasciai libri e pergamene sul tavolo e seguii Janine fino in Sala Grande, via via con più difficoltà per il gran numero di studenti che stava accorrendo: quando arrivammo, Slughorn e la Sprout stavano organizzando i gruppi di ragazzi degli ultimi due anni per le ricerche nel parco, vidi uscire Lucius Malfoy e Amos Diggory, Caposcuola degli Hufflepuff, con le loro squadre; i Ravenclaw e i Gryffindors erano invece già fuori, bacchette alla mano, al seguito della McGonagall e di Flitwick.
Evan Rosier era in piedi, vicino a uno dei caminetti, silenzioso, il mantello ancora umido di neve addosso, il volto arrossato dal freddo: Rigel era uscito con lui e con Lestrange, quel pomeriggio, doveva essere stato lui, perciò, a dare l'allarme, probabilmente era l'unico a sapere come stessero le cose. Volevo parlargli ma c'era molta confusione, quando raggiunsi il caminetto, se ne stava andando, a capo di un gruppo di studenti del sesto anno, per controllare una porzione di foresta nei pressi della capanna del Guardiacaccia. Provai a raggiungerlo ma fui rallentata da un gruppo di Hufflepuff, finché Narcissa Black mi afferrò la mano, mi aiutò a uscire dalla mischia e tentò di rassicurarmi, ripetendomi di stare tranquilla, che l'avrebbero ritrovato presto e che, non potendo fare nulla, era meglio che aspettassi con le altre in Sala Comune. Non ebbi il tempo di replicare, mi sospinse verso i sotterranei; invano tentai di divincolarmi, dicevo che volevo andare fuori, con gli altri, a cercare mio fratello o raggiungere la Guferia per avvertire i miei genitori e chiedere il loro aiuto, ma Narcissa e le sue amiche cercavano “di farmi ragionare”, con i loro discorsi inutili.

    «Basta! Lasciami! Lasciatemi andare! Tutte! Lo so che è “buio” e “freddo”, che potrei “farmi male”... ma non resterò qui, a poltrire con voi, nei sotterranei! C'è mio fratello, là fuori!»

Eravamo davanti all'ingresso dei dormitori quando urlai loro contro: Narcissa, lo sguardo indecifrabile, mi lasciò la mano all'istante ed io, per un momento, sotto quell'aria angelica, ebbi l'impressione di scorgere la stessa espressione minacciosa e inesorabile di sua zia, Walburga Black. Ebbi paura, di lei, della sua reazione, di averla offesa e di essere, per questo, punita, dopo alcuni attimi di esitazione, però, capii che non avrebbe fatto ricorso alla sua carica di Prefetto per farmi passare dei guai. Si limitò a fissarmi, severa. Non dovevo reagire così, lo sapevo, mia madre ripeteva sempre che, anche nei momenti più difficili, non si deve mai perdere il controllo, per questo chiesi subito scusa, a tutte loro. Eppure non mi sentivo mortificata come le altre volte.
Reagire era stato maleducato e ingiusto, Narcissa e le altre non mi avevano fatto nulla di male, eppure… eppure non mi sentivo in colpa e non mi vergognavo, anzi… sembrava che lasciar esplodere la mia rabbia contro qualcuno mi avesse alleggerito il cuore per alcuni istanti. Non capivo che cosa mi stesse succedendo. Da settimane, dal matrimonio di Mirzam, a parte i momenti sereni passati con Myrddin e con Sirius, ogni nuova giornata sembrava riservarmi solo brutte sorprese ed io mi chiedevo quando sarebbe finita. Non sopportavo più di essere bersagliata da quelli che vivevo come continui soprusi e ingiustizie e, ancora di più, ne avevo abbastanza di non riuscire mai a difendermi, impormi, ribellarmi. Ero stanca. Stanca di subire. Stanca di non riuscire a opporre resistenza. Era cambiato qualcosa in me la sera in cui Rabastan mi aveva spaventato a morte: non avevo detto a nessuno quello che era successo, non solo perché mi vergognavo troppo, ma perché… denunciarlo e vederlo punito da un professore non mi sembrava sufficiente. Volevo vendicarmi. Volevo essere io a fargli qualcosa di brutto. E non mi riferivo certo agli scherzi con cui da sempre rispondevo alle sciocche angherie di Rigel. Non mi ero mai sentita così… cattiva… volevo che Rabastan stesse male, che avesse paura come ne avevo avuta io, e volevo che sapesse che ero io la causa della sua sofferenza… e che per questo mi temesse, stesse lontano da me. Era un pensiero orribile e a volte mi sentivo male quando ci pensavo, eppure… mi dispiaceva molto di più rendermi conto che, probabilmente, non sarei mai stata in grado di togliermi quella “soddisfazione”.
Narcissa stava per dirmi qualcosa, quando si diffuse, rapida come un'onda di piena, la notizia che il Guardiacaccia aveva ritrovato Rigel, vicino al Lago Oscuro: scattai via da loro, raggiunsi le scale, diretta in Sala Grande, muovendomi con sempre maggiore difficoltà, ovunque c'erano tante persone, tutti volevano sapere, vedere. Quando nell'atrio principale apparve, monumentale, la figura del Mezzogigante che reggeva tra le braccia una specie di fagotto, da cui uscivano, scompigliati e fradici di neve, i capelli corvini di mio fratello, la ressa mi schiacciò contro la parete, immobilizzandomi e lasciandomi indietro. Non sapevo se scoppiare a piangere, spaventata dalla vista di mio fratello in quelle condizioni, o urlare dall'esasperazione e dalla rabbia, contro quella massa d’idioti che m’impediva di passare, atteggiamenti poco consoni a una Slytherin, ancor meno a una Sherton, certo, ma ero ormai allo stremo, non ce la facevo più.

    Non da sola. Non così.

    «Seguimi, Sherton!»

Una mano uscì dalla mischia, prese la mia, mi tirò via dalla calca e, a suon di spintoni, si aprì un varco lungo le scale e per i corridoi; poco per volta, il mondo attorno a me smise di essere fatto di figure sfuocate, viste attraverso la cortina di lacrime, guardai la mano, il braccio cui era attaccata, i capelli biondi che arrivavano appena a coprire il colletto e il blu e il bronzo della cravatta Ravenclaw. William Emerson, travolgendo persino energumeni grossi il doppio di lui e beccandosi strattoni e minacce, giunse infine davanti all'infermeria, bussò e quando la voce di Madame Pomfrey ci urlò di andarcene, non si lasciò intimidire, spalancò la porta, senza più nulla della sua abituale cortesia, e mi spinse dentro, restando sull'uscio, con sguardo fermo, carico di sfida.

    «Io no... ma lei “deve” entrare...»

Ero spaventata e a disagio, per aver attirato su di me, in quel modo, tutta quell'attenzione, ma William aveva ragione, dovevo entrare; gli sorrisi e lui mi appoggiò la mano sulla spalla per farmi coraggio: per la prima volta, da quando avevo a che fare con lui, non mi dispiacque averlo vicino.

    «Vai! Ti aspetto qui fuori... voglio sapere tutto, dopo...»

Annuii e lo salutai, avanzai nella stanza, lentamente, col cuore in gola: Hagrid era ai piedi del letto, quello in fondo alla camerata, il più vicino all'ufficio della Guaritrice; Slughorn era a sinistra, seduto accanto a mio fratello, una fila di boccette dal vetro scuro disposte sul mobiletto al suo fianco; la Pomfrey incombeva su Rigel dalla parte opposta, impegnata a fasciargli le mani, mentre il Preside gli sentiva la fronte, forse per valutare la febbre. Mi colpì trovarlo lì, non pensavo fosse già tornato a scuola, Dumbledore era membro del Wizengamot, avevo sentito mio padre inveire in molte occasioni contro di lui, per sentenze contro amici della Confraternita o altri nostri conoscenti; e, quel giorno, il supremo tribunale si era riunito per dibattere, tra le altre, la sorte di mio fratello...

    Se il Preside è già tornato, allora il processo a Mirzam deve essere finito... Salazar...

    «Entri signorina Sherton, entri pure...»

Il Preside, con un’agilità insolita per un uomo tanto anziano, lasciò mio fratello alle cure della Pomfrey e mi raggiunse, sorridente, si fermò a pochi passi da me, a metà della fila dei letti, impedendomi di avanzare ancora, sbirciai oltre le sue spalle, la Guaritrice levò la bacchetta, le bende si arrotolarono veloci attorno alle mani di Rigel; Hagrid si avvicinò, il suo faccione peloso, di solito aperto in un sorriso cordiale, sembrava oscurato dalla preoccupazione. Con angoscia, mi accorsi che aveva tracce di sangue sul pastrano. Sbiancai.

    «Salazar...  che cosa... è successo a mio fratello? Perché Hagrid ha addosso quel sangue?»

Con un'occhiataccia, Dumbledore fece allontanare il Mezzogigante, che si ritrasse, muto e avvilito, mentre la paura s’impadroniva di me; rapido, il Preside mi offrì una sedia e mi si sedette di fronte, estrasse un sacchettino dalla sua toga e mi offrì una Cioccorana. Io rifiutai, sempre più agitata.

    «Non tema, signorina Sherton, suo fratello si è solo ferito alle mani, cadendo... non è grave.»
    «Caduto... Dove? Perché?»
    «Perché suo fratello è stato così incosciente da uscire appena mangiato, con questo freddo, benché glielo avessi sconsigliato! Aveva già la febbre, stamani! Ma è testardo, come suo padre! Stavolta però sarò chiara con i genitori, il ragazzo non può agire sempre come un irresponsabile!»

    Bene, ci mancava solo questa... stavolta papà lo concerà per le feste!

Il Preside annuì alla Pomfrey, serio, poi, però tornò a guardare me e mi sorrise, benevolo.

    «Rigel deve aver avuto un capogiro, a causa del freddo e della febbre; cadendo deve essere finito tra i rovi e si è ferito alle mani... Sono tagli poco profondi, ma ha bisogno di cure. Il signor Rosier ha avvisato il nostro Rubeus prima di salire al castello, nonostante il solerte allarme, però, suo fratello non è stato ritrovato subito, per questo ora è in ipotermia... Lo stiamo tenendo al caldo e abbiamo usato un po’ di Pozione Rimpolpasangue. Non deve preoccuparsi, signorina Sherton... suo fratello tra poco si sveglierà e lei potrà parlargli... Più tardi, avviseremo anche i vostri genitori...»

Affondai le unghie nella carne, mentre annuivo: era la seconda volta, solo quel giorno, che mi trovavo in infermeria per mio fratello, e nonostante le rassicurazioni del Preside, ero a dir poco sconvolta, soprattutto perché lo sentivo lamentarsi e fare dei versi strani; Hagrid disse che per tutto il percorso Rigel aveva bofonchiato di aquile e lupi, suscitando l’interesse del Preside, ma era certo che fosse il delirio della febbre, perché non aveva visto tracce di animali. Non capivo cosa gli stesse accadendo, desideravo avere la mamma al mio fianco, sentirle dire che non dovevo avere paura, che Rigel non stava davvero male, che non aveva nulla di strano, che le Rune sbiadite non c'entravano nulla con la sua debolezza. Che tutto ciò che mi spaventava sarebbe finito presto... E per sempre.
Prima di rivedere la mamma, però, sarebbero passati mesi. Mesi durante i quali, qualsiasi cosa fosse successa, Rigel ed io avremmo dovuto cavarcela da soli: per un attimo, vergognandomene subito dopo, mi augurai che il Preside insistesse sulla necessità che i miei venissero a scuola, solo per affondare nell'abbraccio caldo e sicuro di mia madre. Respirai a fondo, provai a convincermi che quel periodo maledetto sarebbe finito, che Rigel ed io saremmo presto tornati quelli di sempre, i fratelli che si detestavano, si sbeffeggiavano, si vendicavano l'uno dell'altro, terribili e implacabili.

    … Rivoglio indietro i miei fratelli, entrambi! Tremo per Mirzam, perché nessuno lo crede innocente, ma ancora di più ho paura per te, testone antipatico: sei detestabile, lo sai, ma ora accetterei anche il peggiore dei tuoi scherzi più crudeli pur di non vederti soffrire, su questo letto!

Cercai di controllare i miei tremiti, chinai la testa, per nascondere gli occhi gonfi di lacrime, sospirai; recuperai un po' di contegno solo quando sentii la mano sicura del Preside afferrare la mia.

    «Sentirsi afflitti quando a soffrire sono le persone che amiamo è umano e non ha nulla d’indecoroso, signorina Sherton... ma non deve temere, non è successo nulla di grave... Suo fratello sarà presto in piena forma... Inoltre... oggi... non è il giorno delle lacrime... Oggi ha di che gioire...»

Lo guardai interdetta, il vecchio Preside mi sorrideva sornione, non capivo cosa ci fosse da gioire.

    «Gioia? Io... io non capisco che cosa... Professore... io...»
    «Sono rientrato da Londra nella tarda mattinata, signorina Sherton, perché la seduta del Wizengamot è stata... molto breve... stavo per convocare lei e suo fratello per informarvi, quando...»

Sentii i peli della schiena rizzarsi, appena lo sentii pronunciare la parola Wizengamot, eppure, allo stesso tempo, si fece largo in me la speranza, perché se il Preside mi diceva di gioire, allora forse...

    «… La notizia sarà riportata sulle pagine dei giornali domani, ma posso anticiparle fin da adesso che suo fratello Mirzam è stato riconosciuto innocente e prosciolto da ogni accusa...»
    «Che cosa? Salazar… ho sempre avuto ragione io... allora… adesso mio fratello può...»
    «Conoscendolo, non ne ho mai dubitato… ora, finalmente, ci sono le prove... Signorina Sherton, sì: se a tenerlo lontano dagli affetti più cari era solo il timore di un'ingiusta condanna...»
    «… ora Mirzam può finalmente tornare a casa...»

Dumbledore, sornione, annuì e subito senti il peso di quei giorni oscuri sollevarsi e svanire, sul mio volto lacrime e riso si fusero, senza ritegno; appena recuperai un po' di calma, cercai di far ordine nei miei pensieri, avevo tante domande, ma anche quelle svanirono perché, all'improvviso, i lamenti sommessi di Rigel si trasformarono in una voce stentata che emergeva dalle coperte, alle mie spalle.

    «No... kreee... i lupi... no... no... i... no... kre... lupi...»

Il Preside lasciò la mia mano e si avvicinò a mio fratello, si chinò su di lui, poggiò l'orecchio sulla sua bocca per sentire poi, con una strana espressione in volto, disse due parole a Madame Pomfrey e si congedò, invitandomi a sedermi vicino a Rigel e a tenergli la mano: lo vidi svanire nello studio della Guaritrice, avvicinarsi a un quadro e parlargli. Mio fratello, intanto, si agitava ma non dava cenni di riprendere del tutto conoscenza, gli scansai i capelli umidi di sudore dagli occhi, mi sentii stringere il cuore, guardando la Runa sbiadita sul suo collo. Madame Pomfrey gli passò una pezzuola umida sulla fronte, ricontrollò il polso, gli somministrò un'altra dose di Rimpolpasangue.
Quando sentimmo bussare alla porta, con insistenza, mi asciugai la faccia, veloce, e mi voltai: Rabastan Lestrange irruppe in infermeria, gli altri ragazzi della squadra di Quidditch al suo seguito, in faccia quel ghigno sadico che conoscevo fin troppo bene e la ferma volontà di non uscire da lì, finché non avesse saputo, rimarcata dall'imperiosità della sua voce beffarda.

    «Scusate l'irruzione, Madame, ma ora noi vogliamo notizie del nostro compagno...»

Dietro di lui, a spingersi, c'era mezza Casa Slytherin: Kendra Campbell scivolò davanti a tutti da sotto le braccia di Rabastan, s’infilò tra i letti e provò a tuffarsi su mio fratello, quasi mi travolse nel patetico tentativo di abbracciarlo. Madame Pomfrey, innervosita, prese l'”indemoniata” per la collottola e l'allontanò, poi, bacchetta in pugno, mentre Slughorn si rammaricava con i ragazzi per il loro comportamento irriguardoso, ristabilì l'ordine e impose a tutti di calmarsi o di uscire.

    «No... no...»

Mi voltai verso Rigel, la sua voce ora era più chiara, sebbene sempre molto flebile; gli altri promisero di non dare noia, per restargli vicino. Slughorn gli strinse la mano e lo esortò, affettuoso.

    «Rigel… svegliati… ragazzo mio, mi senti? Rigel… ecco… così, sì… svegliati! Svegliati...»

Hagrid, fino a quel momento immobile in fondo al letto, si avvicinò e, incombendo come un orso bruno su Rigel, prese un piede di mio fratello, attraverso la coperta, e lo mosse piano.

    «Forza Rigghe… dai! Svegliati… te l’ho detto, Poppy… è razza forte questa…»
    «Sì, ma togliti da lì, Rubeus… o lo soffocherai!»

La Pomfrey gli diede uno schiaffetto sulla faccia poi, appena vide gli occhi di mio fratello accennare ad aprirsi, gli infilò in gola un altro cucchiaio di Pozione Rimpolpasangue, Rigel si guardò intorno senza vederci, tossì, si ritrasse spaventato da qualcosa, iniziò di nuovo ad agitarsi.

    «Come ti senti, Rigel?»
    «Stia buono, signor Lestrange, il signor Sherton è ancora troppo debole per rispondere!»

Rigel parve reagire alla voce di Rabastan e, poco per volta, ritornò tra noi: dalla vivacità del suo sguardo, vidi che aveva riconosciuto la Guaritrice e, subito dopo, Slughorn; ogni volta che guardava verso Hagrid, al contrario, era terrorizzato, sembrava volesse scalciarlo via con i piedi; si calmò quando la Pomfrey gli prese una mano e gli accarezzò la fronte. Non capivo: della vita nelle Terre del Nord a Rigel non piaceva nulla, ma subiva il fascino delle creature dei boschi di Herrengton, e per questo, al contrario dei suoi compagni che insultavano il Guardiacaccia chiamandolo “sporco ibrido”, spesso chiedeva a Hagrid di portarlo con sé, nella foresta, per curare i piccoli di Ippogrifo.

    «Sì, signor Sherton… sì… è stato Rubeus Hagrid a portarla in salvo… ma avrà tutto il tempo, in seguito, per ringraziarlo… ora si riposi…»

Hagrid si avvicinò di nuovo, stavolta Rigel lo guardò bene, riuscì a riconoscerlo e, finalmente, gli abbozzò un sorriso: da quel momento, parve calmarsi, non più vittima di quello strano terrore.

    «Allora…gra… grazie… Ha…grid…»
    «Come vedete, il signor Sherton si sta riprendendo… ora per favore, andate fuori tutti, lasciatelo riposare… può restare solo la signorina Sherton… fuori, via!»

Kendra recuperò l'iniziativa e saltò fuori dal gruppo, decisa a sbaciucchiare Rigel, con sommo orrore di mio fratello. Evan la prese per le spalle e la condusse fuori, senza cerimonie. Alla fine, rimanemmo in pochi, presi la mano di mio fratello, commossa e incapace di trattenere le lacrime, ma Rigel sembrava avere occhi solo per qualcuno in fondo al suo letto: Rabastan Lestrange chiese di restare, prese una sedia e si sedette accanto a me, sentii la sua mano artigliarmi la spalla, ed io tremai dal disgusto. Rigel lo guardò, fissò la sua mano sulla mia spalla: aveva un'espressione strana da quando quella sera, in cortile... era come se sapesse, anche se non avevo avuto il coraggio di confidarmi nemmeno con lui, convinta che avrebbe creduto alla versione del suo amico e non a me.

    «Vai in camera tua, Meissa, scrivi a mamma e papà… vorrei che venissero subito da noi!»

Annuii e uscii, sollevata all’idea di allontanarmi da quell’essere immondo, sentendo però gli occhi di Lestrange sempre, ironicamente, fissi sulla mia schiena, finché la porta non si chiuse dietro di me e William Emerson mi raggiunse, ansioso, per farmi le sue domande.
   
***

Orion Black
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972

Non potevo crederci. Era vero. Era vivo. Era di fronte a me... Anche i bambini erano di fronte a me.
Sentii l'emozione prendere il sopravvento, vedendo la gioia di Deidra nel riabbracciare suo marito; per pudore, verso di loro e verso me stesso, chinai lo sguardo, fissai per un tempo indefinito le mie unghie, concentrando sul mignolo sinistro tutta l'attenzione della terra. Avevo mille domande da fare, volevo mandare al diavolo la compostezza e urlare fino a perdere il fiato, per scaricare tutta l'adrenalina che mi si era concentrata dentro, abbracciare il mio amico, l'unico amico vero che avessi, festeggiare con lui, esorcizzare il terrore che avevo provato. Non era però il momento di abbassare la guardia, non sapevo come fossero andate le cose, quale vantaggio avesse sugli uomini di Milord, l'unica certezza era che adesso, per tutti loro, Herrengton fosse il solo rifugio sicuro.

    «Avremo tempo per sentirti raccontare come tu ci sia riuscito, ma ora non potete restare qui un secondo di più… Doimòs, io non ho l’autorità di impartirti ordini, ma devi portare i tuoi padroni a Herrengton al più presto e fare in modo che un Medimago di fiducia si occupi di tutti loro… io andrò subito a Hogwarts… ho fatto bene ad aspettare, prima di parlare con i ragazzi, era questa la notizia che volevo dare loro…»
    «No, Orion… no…»
    «Come no? Alshain, c’è il rischio che arrivino notizie preoccupanti e inesatte ai ragazzi…»
    «Ho detto no, Orion… non ancora… non stasera… fidatevi di me… per favore…»

Non ero sicuro di aver compreso bene, ma quando Deidra ed io ci fissammo e vidi il suo sguardo, smarrito almeno quanto il mio, non ebbi più dubbi. Mi morsi la lingua per non replicare all'istante, agitato: stavamo parlando dei suoi ragazzi, certo, ed io non ero la persona più indicata a dare consigli, soprattutto quando si trattava di figli, ma viste le sue condizioni e il trauma che aveva vissuto, era evidente che fosse troppo confuso e sconvolto per prendere decisioni razionali ed io non potevo guardarlo fare una cavolata del genere senza intervenire. Non se ero davvero suo amico.

    «Certo che mi fido di te, Alshain... ma domani potrebbe essere… tardi... i giornali...»
    «Immagino cosa stai pensando... Orion... e non sono così... confuso... da non capire che... per i ragazzi sarà... un trauma... Ora, però... per loro... questo... è il minore dei mali...»
    «Minore dei mali? Che cosa significa? Minore rispetto a quale altro male? Alshain...»
    «Andrò io, Orion... appena potrò... Il loro bene... in questo momento... è un altro...»

Basito, i peli ritti sulla schiena, per la prima volta, da quando l'avevo trovato accasciato contro il muro, sotto la neve, con Adhara in braccio, fuori dal capanno da caccia, il sollievo andò a farsi benedire, sostituito da una sensazione di pericolo indefinibile che mi s’insinuò sottopelle. Alshain prese la mano di Deidra e lei si chinò ad ascoltare ciò che le disse all'orecchio, annuì e ordinò all'Elfo di portargli dell'acqua. Preda dell'ansia, mi muovevo nella stanza come una tigre in gabbia, cercando di scacciare la paura e i dubbi che si facevano largo in me per quella storia e pensando ai mille modi in cui la notizia della strage a casa Sherton potesse essere già giunta a Hogwarts. Erano passate poche ore da quando avevo lasciato Essex Street e avevo raggiunto il Wiltshire, Moody mi aveva assicurato che, prima di portare notizie preoccupanti a scuola, i Ministeriali avrebbero vagliato la veridicità delle informazioni in loro possesso: non l'avrei mai detto, all'inizio di quella giornata da dimenticare, ma, nonostante tutte le riserve che continuavo ad avere su di lui e su tutti i dannati Filobabbani del Ministero come lui, pensavo di potermi fidare di quell'uomo irritante. Quanto a Crouch, le sue ambizioni politiche gli avrebbero fatto ponderare con attenzione le proprie mosse e, prima di irrompere nella scuola e terrorizzare i ragazzi, contavo che si sarebbe consultato con Dumbledore, lasciando a lui il compito di informarli. Il problema vero era un altro, più imprevedibile e insidioso: se per quel giorno fosse stata in programma una visita al villaggio di Hogsmeade, alcuni studenti di Hogwarts avrebbero potuto parlare con qualche avventore e venire a sapere del Marchio Nero apparso su Londra... inoltre qualcuno poteva essere abbonato al Daily Prophet, quindi nella scuola poteva già circolare l'edizione serale di quel giornale.

    «Alshain... ti ci vorranno giorni per rimetterti e nel frattempo la notizia arriverà a Hogwarts, se non ci è già arrivata... I tuoi figli si faranno domande e non potrà esserci silenzio da parte mia, perché sono il loro padrino, sei tu che mi hai dato questo compito. Perché aspettare, allora? Non vuoi che dica loro tutta la verità, d'accordo, non lo farò... non lo capisco, ma prometto che non lo farò... Però “devo” andare, non “posso” sparire, non “voglio” lasciarli soli davanti a tutto questo!»

Alshain non disse nulla, si limitò solo a negare, inesorabile, con il capo. Ero sconcertato dal suo comportamento, dalle sue esitazioni, non sapevo se essere più esasperato o spaventato: ormai mi sembrava chiaro, per farlo comportare in quel modo assurdo, Milord doveva averlo minacciato e torturato ben oltre il pestaggio di cui il mio amico portava, evidenti, i segni sul corpo. Poteva averlo posto addirittura sotto Imperius o, peggio ancora...

    No, non devo pensarci, non adesso... ora devo convincerlo e poi andare subito dai ragazzi; in seguito, cercherò di capire che cosa gli è veramente successo e mi consiglierò con l'unico Mago che possa dirmi cosa fare. E che gli dei abbiano pietà di me... quando gli sarò di fronte...

    «Alshain, non possiamo pensare solo a noi stessi! Orion ha ragione, deve andare: tutti sanno che è il tuo migliore amico e il padrino dei nostri figli, è naturale aspettarsi che, in questo momento, sia lui a prendere in mano la situazione. Quando gli abbiamo chiesto di ricoprire questo ruolo, non gli abbiamo solo accordato un “onore”, simbolo della nostra stima e amicizia, l'abbiamo anche caricato di un “onere” gravoso, a dimostrazione della fiducia reciproca che lega le nostre famiglie. Se ora sparisse o anche solo esitasse più del necessario, chi ci ha aggredito potrebbe sospettare che sappia più di quanto deve, che stia attuando un piano concordato con te, e questo metterebbe anche la sua famiglia in pericolo... Orion andrà, Alshain... mi spiace contraddirti, ma non faremo correre rischi anche a quei ragazzini, neanche se in ballo ci fosse la vita di tutti noi!»
    «Deidra... ma… non è per questo che mi sto offrendo...»
    «Lo so, Orion, lo so... Ascolta: molti ti hanno visto a Essex Street, basterà fingere che tu non sia mai stato qui, che non ci abbia visto, dovrai dire solo quanto hai appreso dagli Aurors...»    
    «Era questo che intendevo fare, prima che Alshain comparisse: mi presenterò a Dumbledore, dirò ai ragazzi del Marchio, e che vi ho cercato senza trovarvi, che ho recuperato l'anello…»
    «No... assolutamente no… Questo non è... possibile…»
    «Alshain...»

Deidra, confusa, lo guardò supplice, tormentandosi le mani, ma lui continuò a negare, implacabile. Cercai di aiutarla, modificando, un poco, la mia idea, sperando di aver intuito l'obiezione di Alshain.

    «Forse è meglio che all'inizio io parli di un “incidente”: dopo quanto le è successo, Meissa si spaventerebbe troppo; quanto a Rigel, è abbastanza maturo da capire che la mia “menzogna” serve solo a proteggere sua sorella. Di voi dirò che al momento non si sa nulla, che vi stanno cercando... mostrerò il tuo anello e spiegherò il potere dei diamanti: capiranno che sei viva.»
    «Rigel obietterà… che un semplice anello… non dimostra niente, che la madre… può essere viva ma prigioniera… conosco mio figlio… sa essere addirittura… più ostinato… di me…»
    «Quello che conta, Alshain, è prendere tempo, dare loro una speranza e non lasciare che affrontino tutto questo da soli! Tornerò da loro con notizie verificate appena ne avrò: voglio rassicurarli e prendere il tempo che ti serve a rimetterti e andare a parlare con loro, di persona...»
    «Sì, Orion... fai questo, ti prego... e per favore, quando parlerai con Rigel, tienigli una mano sulla spalla e guardalo negli occhi... e tieni tra le tue le mani di Meissa, rassicurala quando si metterà a piangere, perché… è cresciuta, in apparenza, ma... resta solo una bambina... Salazar...»

Deidra affondò il viso tra le mani, il corpo scosso dai singhiozzi, sentii il sangue salirmi alla faccia, guardai Alshain, sempre più pallido: non c'era nulla peggiore di tutto questo, per lui, non osavo immaginare quale orribile minaccia lo spingesse a infliggere un tale dolore alla donna che amava.

    «E sia… ma solo per… evitare che anche i tuoi figli corrano… inutili rischi… Giura che non dirai… nulla più… di quanto deciso, Orion… Né a loro… né ai tuoi familiari... a nessuno!»
 
Annuii, s’iniziava a ragionare, finalmente smettevamo di perdere tempo con inutili contrattazioni. Alshain mi fissò, con l’espressione che aveva sempre quando doveva confidarmi qualcosa di molto importante, si voltò verso Deidra, le parlò all'orecchio e lei, ancora sconvolta, ci lasciò soli. Mi sedetti di fronte a lui, gli presi l'avambraccio, per incitarlo, ma sembrava di nuovo perso in un mondo tutto suo. Infine, lentamente, dopo essermi avvicinato ancora di più col capo, iniziò a raccontarmi la sua verità, la voce rotta dal dolore e dall’emozione... A mano a mano che il filo degli orrori si dispiegava, un brivido gelido mi percorreva la schiena, come se davanti a me non ci fosse un uomo ma il suo fantasma; ascoltai tutto, ogni singola, sofferta, parola, in silenzio, prima incredulo, poi dolente, infine inorridito. Arrivato alla conclusione, tutti i miei timori avevano preso corpo, uno dopo l'altro, implacabili. Compresi che la situazione era peggiore di quanto avessi immaginato.

    «Terrai per te questo segreto, Orion? Farai ciò che ti chiesi, anni fa? Qualsiasi cosa accada?»

Incapace di parlare, lo guardai, fissai quegli occhi d'acciaio e, tremando, annuii: non c'era altra scelta. Mi alzai, per chiamare Deidra, poi ci ripensai, c'era ancora una cosa che forse non sapeva.

    «In questa giornata d'inferno, Alshain, c'è stata almeno una cosa buona: Moody ha scagionato tuo figlio. Venivo a dirti questo, con Warrington, quando il Marchio è apparso in cielo.»

Alshain chiuse gli occhi, rovesciò il capo all’indietro, sulla testiera del divano, immaginai stesse ringraziando gli dei per quel flebile motivo di speranza, quando tornò a fissarmi, perciò, il suo sguardo e le sue parole mi sconvolsero.

    «Sulla nostra amicizia, Orion, giura che non parlerai più di quel traditore in mia presenza...»

***

Meissa Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972

Emerson mi aveva fatto il terzo grado, su come stesse Rigel, su cosa avesse detto, sulle impressioni di Preside, Guaritrice, Slughorn e di ogni altro adulto presente. Il tutto mentre “fingeva” di accompagnarmi nei sotterranei. Ed era chiaro che “fingesse”, perché non avevo idea di dove fossimo finiti, dopo l'ennesima, inutile, controproducente scorciatoia suggerita dal “damerino”.

    «Non hai “ancora” imparato a sfruttare “nemmeno” questo ritratto? Ma dai! Di questo passo tra sei anni non ne conoscerai neanche la metà! Male, molto male, “signorina Sherton”! Ahahah…»

Sbuffai, stanca delle sue prese in giro, anche perché, al contrario di quanto promesso, avevamo allungato, e di molto, la strada, ed io invece avevo fretta di tornare in camera, per scrivere ai miei.

    «Non potevamo “semplicemente” prendere le scale, Emerson? Saremmo arrivati da tempo!»
    «Se preferisci subire i “cambi” della scala e le fans in agguato di tuo fratello, accomodati!»

Scoppiò a ridere ed io sbuffai ancora di più, esasperata: grazie al mio racconto, si era tranquillizzato ma, per mia sfortuna, al timore erano seguite prima una normale allegria poi quella “spiritosaggine idiota”, che manifestava sempre quando era in compagnia di quell’altro cretino di mio fratello!

    Basta! Pietà! Perché non si rende conto che io “non sono” mio fratello?

Merlino sapeva se avevo cercato di essere indulgente con lui, perché era normale essere “euforici” - lo ero anch’io, dopo un simile spavento, anche se avevo una capacità di autocontrollo superiore alla sua – e perché, in fondo - molto in fondo, sotto la profonda irritazione che provavo in quel momento -, ero persino felice che qualcuno si fosse preoccupato per Rigel, almeno quanto me.

    Si è preoccupato a tal punto, Meissa, che, pur di avere notizie, ti ha aiutato, benché l'ultima volta che avete parlato da soli, al matrimonio di Mirzam, tu ti sia comportata malissimo con lui.

Naturalmente, alla voce saggia della mamma, nella mia testa, replicava una vocina acida e piccata, secondo la quale Emerson non mi aveva aiutato, mi aveva solo “usato” per avere informazioni, e per questo avrei dovuto avercela con lui, come ce l'avevo sempre con Rigel, in frangenti simili.

    Non devi badare ai suoi motivi, Meissa, devi solo essere contenta e grata al fato che, in un momento simile, attorno a tuo fratello e quindi vicino a te, ci sia un ragazzo per bene, sebbene un po’ strano, come William Emerson, e non solo pazzi maniaci criminali come Rabastan Lestrange! Perciò sforzati di essere educata e gentile con lui, come tuo padre ed io ti abbiamo insegnato!
    Certo, mamma, ma se costui si comporta da idiota, come faccio io a comportarmi bene?

    «Siamo quasi arrivati, Sherton... ma accetta un consiglio: non scrivere la lettera...»
    «Come scusa? E cosa spedirei dalla Guferia, secondo te, se non scrivessi una lettera?»
    «Il punto è proprio questo… Non dovresti andare in Guferia...»
    «Tu sei pazzo! Certo che ci andrò! Devo, anzi, voglio scrivere ai miei! Li voglio qui! Ora!»
 
M’impuntai, le mani sui fianchi, un cipiglio non molto diverso, nonostante tutte le migliori intenzioni, da quello che avevo assunto a Herrengton, quando quell’inutile damerino biondo aveva preteso di starmi appiccicato, mentre io volevo solo sfuggirgli e correre dal mio Sirius. Con una punta di amarezza, mi resi conto che, quella sera, considerato tutto quello che ci era accaduto dopo, William Emerson aveva ragione a voler essere iperprotettivo e che ero io in torto, considerandomi al sicuro, solo perché ci trovavamo a casa mia. La consapevolezza che condividevamo lo stesso pensiero, resa palese dal suo ghigno in apparenza canzonatorio, mi punse l'anima come un aspide.

    «È giusto che tu li voglia qui, non sto dicendo questo, ma è tardi per andare alla Guferia.»
    «Senza un gufo, che guarda caso sta solo in Guferia, come potrei comunicare con i miei? Salazar! E i Ravenclaw sarebbero, tra tutti, quelli più intelligenti? Bah...»
    «Mmmm… I più intelligenti… in assoluto… probabilmente no… ma di sicuro lo siamo più di “certi” Slytherin che si professano tanto furbi! Ahahahaha…»
           
Emerson ridacchiò ed io diventai porpora: i suoi discorsi contorti mi confondevano sempre, bastava ricordare come mi avesse irretito per bene in treno, ed io ero certa che mi avesse appena insultato...
           
    «...d'altra parte, sei piccola, quindi occorre essere indulgenti con te, potresti non sapere...»

    Se non è un'offesa questa! Ha una sorella, sa che “piccola” è un insulto come “stupida”!

Lo fissai con odio, pronta a sibilargli contro, ma ottenni solo un'altra occhiata divertita.

    «D'accordo, basta stupidaggini, ti spiego: forse a Herrengton usate solo i Gufi e gli Anelli, ma mio padre, per esempio, manda i messaggi fuori Confraternita con il Patronus o con il Camino... visto che ancora non sono in grado di produrre un Patronus utilizzabile, potremmo chiedere a un mio amico del settimo anno di aiutarci, oppure, se non ti fidi, potremmo andare da Flitwick, in aula Incantesimi, e chiedergli di farci usare il suo Camino: già stravede per me e, viste le circostanze, non ti dirà certo di no! Se poi non vuoi proprio avere a che fare con “stupidi Ravenclaw”, chiedilo a Slughorn, è sempre felice di scambiare favori... o al Preside, ma è un po'...»
    «Ne hai una per tutti, come le vecchie comari, vero Emerson?»
    «Di soluzioni? Naturalmente!»

Sbuffai. Non avevo ascoltato una parola, non avevo registrato nemmeno che stava tentando di produrre un Patronus, pensavo solo a quanto fosse “odioso”, “verboso”, “petulante”, “pettegolo”…

    … addirittura più di quelle lingue biforcute che, nella Sala Comune degli Slytherin, stazionano giorni interi davanti al caminetto, solo per sparlare dell'intero Mondo Magico.
    Invece ha ragione, Meissa! Svegliati! Perché, invece di farti distrarre dall’antipatia che nutri per William, non ti sei ricordata che la zia ed io ci scambiamo messaggi via Camino?

Esasperata dalla sua aura di perfezione e innervosita da quel mio nuovo, stupido errore, sospirai: non lo sopportavo, non potevo farci nulla, era più forte di me, e dire che ci avevo anche provato…

    Come possono tutti gli altri, adulti compresi, essere così ciechi da non vedere che razza di borioso, insopportabile, molesto, pallone gonfiato sia questo individuo?

    «… un'altra soluzione sarebbe rivolgersi al tuo padrino: è Orion Black, giusto? Uno degli antichi presidi, il cui ritratto è esposto nell'ufficio di Dumbledore, era un Black, lo sapevi?»
    «Phineas.Nigellus.Black: lo so, Emerson, lo so, non sei l'unico detentore della conoscenza!»
    «E sai anche che il suo “adorabile” bisbisbis nipote Gryffindor lo descrive sempre come “il peggior Preside che Hogwarts abbia mai avuto”? Ahahahah…»
    «Tu che ne... No! Basta! Mi stai solo facendo perdere tempo con le tue sciocchezze!»
    «Non stai perdendo tempo, e non sono sciocchezze, anzi…Se i presupposti sono veri, l'idea è valida: se esiste il doppio ritratto, come dicono, puoi parlare col tuo padrino e quindi ai tuoi!»
           
    Certo... solo che, al posto di Orion, mi ritroverei davanti quella megera di sua moglie!

    «Ehi, che cos'è quella faccia, Sherton? Hai già problemi con i futuri suoceri? Ahahah...»

Diventai rosso peperone, stavo per rispondergli a tono, ma eravamo infine arrivati nei sotterranei.

    «Salazar, ti ringrazio, finalmente in salvo! Volevo comportarmi bene con te, Emerson, lo giuro, mi hai aiutato, e ti ringrazio, ma sei così... snervante che... vai, gli estranei qui non entrano...»
    «Lo so... Gli Slytherins aprono solo ai Gryffindors sbronzi, degni compari di rissa! Ahahah»
           
Rise ancora, ma stavolta mi parve di cogliere una nota piccata nella sua voce, io gli diedi le spalle, sperando che se ne andasse prima che qualcuno ci vedesse insieme; naturalmente, proprio in quel momento, fummo superati da due ragazzi del settimo anno, che quasi andarono a sbattere sul muro, impegnati com'erano a fissarci e a sghignazzare.

    «Certi soggetti dovrebbero prendersela solo con se stessi se hanno perso in modo così IDIOTA la Coppa, quest'anno... se proprio ci tieni, Meissa, scrivi la lettera, dai, ti aspetto qui: visto che non sono riuscito a convincerti a trovare un mezzo più sicuro, ti accompagnerò in Guferia!»
    «Oh no! NO! Non ho bisogno di uno chaperon, Emerson! E se anche l'avessi, non lo chiederei a te! Senza offesa, ma... io vorrei arrivare alla Guferia, ma prima che sia di nuovo Natale! E... come dire... mi è sembrato che tu ti sia perso almeno tre volte con le tue stupide scorciatoie! »

Mentre i due energumeni ridevano sguaiatamente, lo vidi tacere, finalmente, la faccia che cambiava rapidamente di colore, un paio di volte tentò di aprire bocca ma ogni volta ci ripensò, evidentemente non aveva di che replicare. O forse non voleva dare altre soddisfazioni a quei due che si attardavano sull'ingresso per godersi il nostro bisticcio. Per la prima volta mi passò per l'anticamera del cervello che forse – solo forse, Meissa? - esprimendomi in quel modo, in pubblico, l'avessi offeso più di quanto fosse mia intenzione, ne ebbi conferma quando gli apparve lo stesso broncio assunto a Herrengton, prima di iniziare a insultarmi e mandarmi al diavolo.

    Salazar, ma io non volevo assolutamente questo!

    «Salazar, no… no… davvero… scusami... ho parlato senza riflettere e invece di una battuta cretina, è uscito qualcosa che suona come un'offesa! Per favore, William, scusami… non volevo offenderti... anzi... sei stato molto gentile a riaccompagnarmi e... a preoccuparti per me... e per Rigel... e… scusami… è proprio a Herrengton... tu volevi aiutarmi… i fatti hanno dimostrato che avevi ragione tu...  ed io invece ti ho dato dell'arrogante e pressante, senza riflettere... e adesso, di nuovo, mi sono comportata come una stupida, insopportabile, viziata...

Mi bloccai, mordendomi la lingua, incredula di averlo detto davvero ad alta voce. William aveva un’espressione altrettanto sorpresa, era confuso, ma anche guardingo, come se non si fidasse e si aspettasse da un momento all’altro che lo sbeffeggiassi perché mi aveva creduto.

    «Parlo seriamente, William… ti ringrazio… per avermi aiutato… e…»
    «Rigel è mio amico, non mi devi ringraziare… Volevo sapere di tuo fratello, tu me l'hai detto e... io ho pensato di ricambiare il favore, suggerendoti altre soluzioni… non mi pareva il caso che completassi questa giornata pesante in infermeria con una gamba rotta… voglio dire… le scale della Guferia sono ricoperte di ghiaccio, a quest’ora... ho sbagliato il modo, forse… non volevo darti della stupida, o della bambina… non lo sei… scusami se sono stato irritante… volevo farti distrarre un po', dicendo qualche sciocchezza e non mi sono reso conto che stavo esagerando…»

Mi morsi la lingua, ero rosso fuoco, non avevo capito che aveva cercato di fare l’idiota solo per farmi ridere... Avevo fatto di nuovo una figura orribile. Doveva essere successo quello che capitava quando scherzavo con i miei fratelli: Mirzam capiva gli scherzi, Rigel invece si offendeva, perché non eravamo abituati a stare insieme... E William non era abituato ad avere a che fare con me, né io con lui, per questo non c’eravamo capiti... o almeno… speravo non fosse un’altra presa in giro…

    «Mettiamoci una pietra sopra, d’accordo? Immagino che tu preferisca farti accompagnare in Guferia da Malfoy o da uno dei suoi amici, perciò ti saluto… per me non è un problema...»

Lo fissai a occhi spalancati, William scoppiò a ridere, annuendo, Rigel doveva avergli detto che tra le poche cose che ci univano c’era l’antipatia assoluta per nostro cugino. Mi porse la mano, non con l’affettata e irritante galanteria delle altre volte, ma come si fa tra amici, tra pari. La presi subito, anche se ero ancora confusa; mi sorrise, io, ancora a disagio, sorrisi a mia volta.
           
    «Sì, d’accordo... aspettami qui, mentre scrivo la lettera... però... non farti vedere... non tutti amano... e... comunque, fattelo dire... Hai un'idea un po'... strana del ricambiare i favori, William...»
    «Liam, ok? Non è male essere strani e originali, Meissa... e un po' strana lo sei anche tu: non capita tutti i giorni di ricevere le scuse di uno Slytherin, lo sai?»
    «Già… immagino di no… a volte penso che il Cappello abbia proprio sbagliato, con me…»
    «Non credo… ma è chiaro che hai ereditato molto anche dal ramo Ravenclaw della tua famiglia, almeno stando ai racconti di Rigel su “quella secchiona di mia sorella!”… ti saresti trovata bene su in Torre, Mei… E credo ti saresti anche divertita di più... per esempio…è proprio vero, la Divinazione riesce incredibilmente bene con le uova... Ahahah...»

Tutti ridevano, sempre, di quella stranezza chiamata “Ovomanzia” di cui sembrava che i Ravenclaw andassero pazzi. E risi anch’io, con Liam. Era stata la prima risata di cuore, dopo lo spavento di quel pomeriggio. Lo salutai, un po' più rilassata, promettendo di fare in fretta, entrai in Sala Comune, rossa in faccia per le occhiate interrogative delle ragazze del terzo anno, forse sapevano già che ero rimasta a lungo, fuori, a chiacchierare e a bisticciare con Emerson.

    «Tutto bene, Sherton? Come sta tuo fratello?»
    «Bene... cioè... per quanto possa star bene un idiota che sviene al freddo e al gelo!»

Qualcuno rise, altri fecero domande, io sospirai: maltrattarlo e lamentarmi di lui, come se si fosse già ripreso, sembrava esorcizzare più in fretta l'angoscia che mi era venuta per tutta quella storia.
Entrai in camera mia, rovistai tra le mie cose, scrissi la lettera, la lessi un paio di volte, correggendo e riscrivendo: ero stata molto sintetica, avevo cercato di essere più obiettiva possibile, perché quella era già stata una giornata pesante per la mamma, a causa del processo, al tempo stesso, però, non riuscii a celare che avrei voluto che fossero lì, quanto prima. Alla fine, in calce, aggiunsi una riga con la notizia che mi aveva dato il Preside, perché forse loro non sapevano ancora di Mirzam…

    «Armiamoci di guanti e sciarpa, affrontiamo il freddo della Guferia, con quel… bamboccio di un Ravenclaw... Sì, Myrddin, che Liam non s’illuda, l'avrà fatto per me, ma resta un bamboccio! E ora spediamo la lettera! Tu no, tu resta al calduccio nel baldacchino, e tienimi caldo il posto!»

Nonostante tutto, mentre parlavo al mio gatto, la bocca continuava ad atteggiarsi a un sorrisetto e, cosa che non mi succedeva ormai da tempo, avevo un motivetto che riemergeva dalla mia mente e che tentavo di canticchiare. Quando mi ricordai di averlo sentito al matrimonio di Mirzam, mentre ballavo con William, diventai rossa come un pomodoro, felice di essere sola nella stanza. Mi chinai sul gatto, gli stampai un bacio sulla fronte e lui si allungò tendendo verso l'alto le zampine, mostrandomi la pancia così che gli facessi i grattini lungo tutto il corpo, lieve, dal collo, fino a far vibrare l'aria della stanza col suo ritmico ronfare. Quando uscii, stava ancora col pancino all'aria tra le coperte e, potevo scommetterci, l'avrei ritrovato in quella posizione al mio ritorno.
Quando riemersi in Sala Comune, il vocio che avevo sentito dal piano di sotto, nei corridoi del dormitorio femminile, si placò di colpo: al contrario di pochi minuti prima, quando era pressoché deserta, sembrava che tutti gli Slytherins si fossero materializzati in Sala Comune. Forse avevano saputo che ero tornata nei sotterranei e mi preparai a essere bersagliata da mille domande su mio fratello, sperando che poi non si finisse col parlare anche di Emerson che, se mi stava aspettando, era stato visto da tutti davanti alla porta. Nessuno dei presenti, invece, mi rivolse la parola.
C'era un'aria tesa, carica, tutti concentravano gli occhi su di me, ma restavano tutti zitti, iniziai a provare la paura irrazionale che Rigel si fosse aggravato, dopo aver lasciato l'infermeria: avevo, d’improvviso, un terrore tale che non trovai il coraggio di chiedere che cosa stesse succedendo. Sul divano, davanti al tavolinetto vicino al camino, vidi Lucius e diversi ragazzi della sua cricca che confabulavano e, tra loro, Narcissa Black che stava leggendo attentamente un giornale. Mi calmai all’istante, tutto ora aveva un senso, doveva essere uscita un’edizione serale del Daily Prophet con la notizia del proscioglimento di Mirzam, anche se non mi pareva fosse una cosa così rilevante, per l’intero Mondo Magico, da giustificare addirittura un’edizione speciale.

    Se è così, perché hanno tutti quel muso lungo? E perché nessuno di loro mi parla?

Arrivai con lo sguardo fino in fondo alla stanza, Rabastan ed Evan si erano raccolti lì, insieme ai loro amici, davanti a un’altra copia dello stesso giornale: dunque era proprio lì, tra le notizie del giorno, che si celava il mistero. L'evento del giorno, a meno che gli Aurors non avessero finalmente catturato il Signore Oscuro o un altro nome importante tra i suoi scagnozzi, doveva essere l'assoluzione di mio fratello, eppure nessuno dei miei compagni di casa era felice per me, nessuno di loro si congratulava con me, anzi pareva che mi avessero isolato volontariamente.

    Come fanno, tutti loro a tenermi, volontariamente, all'oscuro di una notizia simile? No, Mei, no... o il giornale non c’entra nulla con Mirzam, o sanno che Dumbledore te l'ha già detto… Allora perché non stanno festeggiando?

Con la mia lettera stretta in mano, nella tasca della mantellina, mi avviai verso la porta, amareggiata: non ero amica di nessuno di loro, vero, eppure mi aspettavo che, se non altro per gentilezza e educazione, se non altro in quanto sorella di Rigel, beneamino di quasi tutti loro...

    «Penso che dovremmo dirglielo, Lucius...»

Sentii la voce di Narcissa, si spezzò subito nel silenzio generale, nessuno replicò, c'era solo l'aria che si faceva sempre più spessa, più pesante, come il disprezzo che provavo per ognuno di loro.

    Perché non mi parlano?

Volevo voltarmi e gridare che tanto lo sapevo, ma non volevo dar loro la soddisfazione di sapere quanto mi avessero ferito. Misi la mano sulla maniglia, mi umettai le labbra, mi voltai, avevano tutti, ancora, sempre, gli occhi puntati su di me.
Non riuscii a dire neanche una parola, benché li volessi insultare: la porta si aprì di colpo, forse con un calcio, tanto il colpo fu violento. Inciampai e caddi a terra. Mi scansai subito, in tempo per non farmi calpestare dalla furia che entrava, sbraitando e ridendo; appena un po' indolenzita, tentai di rialzarmi, riconobbi subito la voce di MacNair che irrompeva insultandoci tutti; a sua volta lui riconobbe me, a terra, ai suoi piedi: mi fissò con occhi da pazzo, cercò di tirarmi su per un braccio, io riuscii a divincolarmi, allora mi sputò addosso, rabbioso, parole senza senso.

    «Allora esiste una giustizia a questo mondo! La polvere è il tuo posto, troietta...»

Lucius corse verso di me, insieme a Rabastan ed Evan Rosier, pensai che l'avrebbero picchiato, invece stavano solo cercando di mettermi in salvo. Purtroppo non mi raggiunsero in tempo.
Prima di essere tirata via da loro, Walden sollevò la mano, che fino a quel momento aveva tenuto nascosta dietro la schiena, vidi che teneva anche lui una copia del giornale, pensai che volesse picchiarmi in testa con quello, perciò abbassai il capo per evitare un colpo che non arrivò.

    «È finita, siete finiti, tutti finiti... e spero che tu sia la prossima a marcire sottoterra, insieme a tutti quegli altri!»

Il giornale mi arrivò tra la faccia e il petto, aperto, perché vedessi bene i titoli della prima pagina. All'inizio non capii, vidi solo una foto, un'immagine mostruosa, un teschio in movimento che si librava nell'aria, verde e minaccioso in un cielo carico di neve. Non riconobbi nient'altro.

Poi vidi il nostro nome...
Il nome di mio padre...
Il nome di mio fratello...
Infine non vidi più nulla, non sentii più nulla.

La carta del giornale, tirato addosso, non mi fece alcun male. Furono le parole a uccidermi.

MORTE E DISTRUZIONE NELLA LONDRA BABBANA.

STERMINATA L’INTERA FAMIGLIA SHERTON.

RICERCATO PER OMICIDIO E STRAGE
MIRZAM SHERTON, CERCATORE DEL PUDDLEMERE UNITED.

***

Mirzam Sherton
Vysoké Tatry, Cecoslovacchia - sab. 15 gennaio 1972

    «Bryndzové halušky e slivovitz per due e... una stanza per la notte...»

L'oste mi fissò, scrutò a lungo i miei tratti, si soffermò sui miei occhi, di sicuro avevo sbagliato la cadenza di qualche parola, svelando in modo inequivocabile che non ero il viandante “magiaro” che fingevo di essere. In quelle terre gelide e desolate, soprattutto di quei tempi, uno straniero era guardato con sospetto, anche in luoghi malfamati come quello... se poi lo straniero fingeva anche di essere ciò che non era… Non abbassai lo sguardo, però, anzi, lo fissai a mia volta, spavaldo, la mascella forte, contratta, sotto il naso aquilino e la folta barba brizzolata. Il cipiglio enigmatico dell'uomo non si aprì, né mi diede una risposta chiara, allora misi mano alla tasca e tirai fuori il sacchetto delle monete: se temeva di non essere pagato, quel gesto l'avrebbe rassicurato; ma se, avido, avesse pensato di derubarmi, beh... con un lieve movimento lasciai scoperto, per pochi istanti, il fianco destro, dove luccicava il metallo del mio pugnale ricurvo. L'uomo non si lasciò impressionare, né dalla promessa del guadagno né dalla minaccia di morte, ma cambiò atteggiamento, spostando lo sguardo da me alla figura smunta che si manteneva nella penombra, alle mie spalle. La indicò con un gesto del mento e iniziò a parlare, o meglio grugnire: con quella faccia pelosa e quei modi selvatici, non vedevo differenza tra quell'uomo e gli orsi della foresta.

    «Ho una stanza, magiaro, ma un solo letto... a uno dei due toccherà la terra o la stalla...»
    «Il moccioso si arrangerà... il cibo e l'acquavite, però, li voglio per due... abbondanti...»

Feci saltare sul tavolo alcune monete, l'uomo mi fissò con il ghigno soddisfatto di chi pensa “ti darò tutto ciò che vuoi, se mi paghi”, poi, prima di prepararmi i boccali, chiamò una delle sue ragazze vistose, impegnate a servire vecchi sbronzi e sbavanti, che allungavano le mani su di loro: Fear aveva sentito dire che era “quella” l'attività che attirava il “nostro uomo” in quella sordida topaia, e ne stavo avendo una rivoltante dimostrazione. Bionda e formosa, avvicinandosi mi guardò e il suo sguardo truce si aprì in un sorriso falso: benché la Polisucco mi desse l'aspetto di un uomo almeno dieci anni più vecchio di mio padre, dovevo essere il “cliente” più giovane e meno repellente che quella sera dovesse soddisfare. Il disgusto e il disagio che avevo provato quando Fear mi aveva spiegato la situazione, si riaccesero ancora più violenti quando notai che Lenka, in particolare, non era ancora neanche una donna, ma una bambina poco più grande di mia sorella. Strinsi le mani a pugno e mi morsi la lingua, quando un'idea balzana, una delle mie, mi passò per la testa: se avessi finto di “comprarla”, l'avrei sottratta a quelle bestie, almeno per una notte. E se l'avessi portata via con noi, l'indomani, avrei salvato almeno lei da quella vita di orrore e miseria...

    Certo, come se di casini non ne avessi già fatti a sufficienza... pensa alla missione, Mirzam... pensa a tua moglie, pensa a riportarla a casa... soprattutto ora che aspetta tuo figlio...

Sentii torcersi le viscere e la bile salirmi in gola, presi il sacchetto delle monete e, rassegnato, lo rimisi in tasca, spinsi “mio figlio” verso il bancone perché si occupasse degli ordini e mi allontanai.

    «Mi basta quello che ho ordinato, oste. Occupati dei boccali, Jànos, ti aspetto al tavolo!»

Raggiunsi un posto vuoto, in posizione defilata, da dove fosse facile controllare l'andirivieni dei clienti. Sentivo gli occhi ostili della ragazzina fissi sulla schiena, non mi fidavo di nessuno di loro, perciò mi misi seduto con la faccia rivolta verso il resto della stanza fumosa, il pugnale pronto sul tavolo per ogni evenienza; “mio figlio”, rapido, prese le due acquaviti dal bancone e mi seguì, poi ritornò indietro a prendere i due piatti in cui degli gnocchi ammuffiti galleggiavano nel grasso: osservai il moccioso muoversi senza indugi tra i pochi avventori della locanda, ancora quasi vuota, finché finalmente si sedette, di fronte a me, dando le spalle a tutti gli altri. Mi ero opposto dall'inizio all'idea di portarlo con me, non era il posto più adatto ma Jànos aveva accettato, come sempre, non replicava e non si opponeva mai a Fear, e anche adesso che eravamo immersi in quello schifo, non batteva ciglio, si era già sistemato di fronte a me e, nella penombra, non visto, aveva subito trasformato gli alcolici in innocuo tè trasparente. Come se niente fosse: quella sua capacità di estraniarsi, quella specie d’indifferenza a tutto e tutti m’inquietava e, al tempo stesso, mi attraeva.

    «Qualunque cosa accada, non aspetteremo l'alba per partire... questo non è posto per te...»
    «Non è posto neanche per “quelli come te”, “padre”. Non è un luogo sicuro, ma in attesa del nostro uomo, là fuori moriremmo assiderati, inoltre... credo che stasera sia un bene trovarci qui...»

Jànos fece un paio di cenni col capo e indicò due figuri che erano appena entrati, uomini alti e robusti, stretti in mantelli bordati di pelliccia, i colbacchi calati fin quasi sugli occhi. Non compresi: all'inizio pensai fossero solo due militari, da quando avevamo raggiunto Balaton di filosovietici ne avevamo già incontrati fin troppi e quei due avevano proprio la classica arroganza da padreterni vista in quei dannati Babbani... osservandoli meglio, però... Di colpo, il cuore mi saltò in gola quando percepii distintamente la potenza della Magia Oscura che riverberava dai loro medaglioni...

    «Hai ragione... forse l'uomo di Durmstrang approfitta di questa topaia non solo per soddisfare i suoi vizi, ma anche per incontrarsi con tipi simili... o forse sono qui per altri affari... ma vale la pena indagare... con discrezione... quei medaglioni per me non promettono nulla di buono...»
    «Mi stai dicendo che non l'hai riconosciuto? Quello alto e smilzo, intendo... non l'hai...»
    «Non mi pare... Dovrei?»
    «È il tizio del mercato delle spezie... lo chiamavano Igor, ricordi? E se fossero qui per...»

Jànos, per la prima volta, mi parve turbato, io tornai a fissare l'uomo, con cautela, sentii i battiti del cuore accelerare ancora, come quelli di una bestia braccata. Con un brivido, ricordai il sesto giorno... uno dei primi villaggi visitati sulla via dell'est, dopo essere emersi dal lago Balaton... Sile “per fortuna” si era sentita male, quel giorno... il giorno che avevo capito... capito che aspettava mio figlio. Mia moglie si era fermata nella locanda, con Fear, ed io, dopo aver litigato furiosamente con il vecchio, ero uscito a perlustrare i dintorni cercando di procurarmi cibo ed erbe; era passato da parecchio mezzogiorno, il mercato, all'approssimarsi del buio, stava ormai chiudendo, tra le poche bancarelle rimaste erano apparsi all'improvviso degli uomini incappucciati. All'inizio credetti fossero anche loro un gruppo di viandanti, presto, però, con orrore, mi resi conto che erano una “squadraccia” impegnata in una battuta di caccia al Babbano. Si era scatenato il caos in pochissimi minuti, la gente fuggiva terrorizzata dal mercato e cercava rifugio nelle case, la merce saltava via dai banchi, stretti tra le fiamme, i tendaggi infuocati si libravano nell'aria pregna di fumo e avviluppavano donne e bambini, ovunque erano solo urla, oscurità squarciata dalle fatture, lamenti, risate sinistre, passi di pesanti stivali sulla terra ghiacciata. Ero riuscito a fuggire, correndo come un disperato e nascondendomi, sfruttando tutto quello che conoscevo dagli anni passati a Herrengton, consapevole di non poter usare la Magia, per non tradirmi. Non sapevo chi fossero quei pazzi ma, anche se Milord non era l'unico Mago che faceva proseliti e che odiava i Babbani, temevo fossero affiliati al Signore Oscuro ed io non potevo rischiare di svelare la nostra presenza in quei luoghi. Alla fine, due di loro mi presero in trappola, seguendomi e spingendomi in un vicolo senza uscita, avevo visto una porta e avevo pensato di raggiungerla, ma l'avevo trovata sprangata; avevo cercato di difendermi con quello che avevo, un bastone e la forza dei miei pugni... il mio avversario, che il compare chiamava Igor, mi aveva fissato ridendo, poi mi aveva lanciato addosso una specie di frusta di fuoco. Se ero ancora vivo, lo dovevo alla prontezza di Jànos, che era riuscito, proprio all'ultimo, a sbloccare la porta dalla parte opposta: l'incantesimo del Mago mi aveva colpito di striscio, provocandomi bruciature dolorose su tutto il fianco, che ora per fortuna stavano guarendo.

    «Se fossero qui per uno dei loro “divertimenti”, Jànos, scapperemo tra gli alberi senza guardarci indietro. E, al diavolo la missione, useremo anche la Magia per fuggire, se necessario...»
    «Non pensi che debba esserci dell'altro, in questa storia? Ci sono troppe coincidenze...»
    «Ce lo siamo chiesti dall'inizio: perché il nostro uomo dovrebbe arrivare fin qui, solo per soddisfare un esecrabile vizio? Capisco la prudenza, ma siamo molto, troppo lontani da Durmstrang, ancora... Un luogo così fuori mano, dimenticato dagli dei... senza nient'altro che questa dannata bettola... non può nascondere solo una fissazione per le Babbane... ed ecco che, proprio stasera, quando il “maestro” dovrebbe concedersi una notte di lussuria, compaiono questi due...»
    «Due di cui ora abbiamo fondati sospetti siano dei Mangiamorte... da quanto ho letto, la frusta di fuoco usata al mercato assomiglia a ciò che hanno usato a Herrengton contro gli Aurors...»
    «Non ne abbiamo la certezza, però... »
    «Per me è sufficiente per sospettare che il Signore Oscuro stia facendo proseliti tra i Maghi dell'est e che i contatti siano serrati... forse vuole l'aiuto del nostro uomo per inserirsi nella scuola di Durmstrang e allestire un esercito oscuro... ha già tentato di prendere Hogwarts... o sbaglio?»

Annuii sospirando e abbassai gli occhi sul piatto, ricordando momenti del mio passato di cui mi vergognavo come un ladro; l'idea che, con le mie stronzate, avessi favorito l'arruolamento di tanti idioti, esaltati come me... la consapevolezza di essere indiretto responsabile delle loro azioni. Bevvi in un solo sorso il mio tè, pulendomi poi la bocca con la manica della casacca: se i ragionamenti di Jànos erano giusti, la missione stava per complicarsi ulteriormente, perché qualcun altro, qualcuno di molto pericoloso, era sulle tracce del “nostro uomo” e di ciò che stavamo cercando.

    «Stai perdendo tutti i tuoi affascinanti modi da aristocratico, milord. Te ne rendi conto?»

Jànos sghignazzò, per rompere la tensione e dissimulare l'importanza del nostro chiacchiericcio che pareva aver incuriosito un altro avventore, io non lo guardai, ma riflettei tra me, triste; avevo perso me stesso, vero, ma prima, molto prima, quando avevo fatto tutta quella caterva di cazzate... Ora, invece, per la prima volta da anni, accanto a Sile, nonostante quella vita raminga, mi sentivo me stesso. Quando il moccioso allungò la mano per prendere la mia, forse per incoraggiarmi, restai sorpreso e la sottrassi subito, sperai fosse un atto fortuito, dovuto alla scarsa superficie su cui stavamo cenando; lo guardai, anche se la Polisucco alterava i suoi tratti, dandogli l'aspetto di un giovane di circa quattordici anni, i suoi occhi restavano quelli luminosi e taglienti che stavo imparando a conoscere. E la sua voce... s'incupiva in quella di un ragazzino, ma era riconoscibile, l'unica voce amica che sentivo da giorni. E che spesso non potevo fare a meno di detestare.

    «Fai più attenzione, maledizione! E basta con queste stronzate!»

Mi alzai, andai fino al bancone, avendo cura di controllare se i due presunti Mangiamorte reagissero ai miei movimenti, ma parevano impegnati a parlare degli affari propri, chiesi all'oste di servirmi della birra e dell'altra acquavite: l'uomo, che aveva messo il muso quando avevo rifiutato il “servizio completo”, tornò a guardarmi meno minaccioso e fece cenno a un'altra ragazzina di tenersi pronta. Tornai al mio posto, nervoso e disgustato, stava passando il tempo e l'insegnante che pedinavamo da giorni non si faceva vivo: se Fear aveva sbagliato, stavolta con me aveva chiuso.

    «Finisci la tua cena e vai in camera... la serata è inconcludente e qui sei solo d'intralcio...»
    «Come? Adesso? Il nostro uomo non è ancora arrivato, potrebbe farlo da un momento all'altro! E se fosse necessario pedinare sia lui, sia gli altri? Ti servo, la guardia si fa meglio in due!»
    «Se avrò bisogno di te, lo saprai. Finisci di mangiare, vai in camera e chiuditi a chiave... e sii prudente: hai visto che gente c'è, porci che vanno a bambini... hai un pugnale: se necessario, usalo!»
    «Non avrai intenzione di fare qualche cazzata? Ti ho visto, cambi colore quando le guardi!»
    «Le mie intenzioni sono solo affari miei, Jànos... tu vai in camera e restaci!»

Jànos tacque, pensieroso, sapeva che le parole erano inutili con me, non mi sarei lasciato convincere, alla fine si ritirò, dopo aver spazzolato anche la mia porzione di Halušky: ero affamato, ma vedere quello scempio mi aveva chiuso lo stomaco. Mi ero alzato ed ero andato al banco, a bere la mia birra e partecipare ai discorsi alcolici degli altri, in realtà, aguzzando l'udito, intendevo spiare “Igor” e l'altro uomo... Il piano originale prevedeva di attaccare Dimitri Borislav, insegnante di Storia della Magia a Durmstrang, in quella topaia, affatturarlo e costringerlo a consegnarci qualcosa custodito nella sua scuola, indispensabile per la mia missione; non immaginavamo certo di incontrare presunti Mangiamorte. Ora, però, non potevo farmi sfuggire l'occasione di capire se quegli uomini fossero affiliati al Lord e, nel caso, che genere di mire avesse il Signore Oscuro su quelle terre e quella scuola. Soprattutto dovevo scoprire se fosse impegnato nella mia stessa ricerca.
Rimasi fino a tarda sera, fingendomi sbronzo come tutti gli altri, in realtà non persi di vista un solo istante il viavai frenetico intorno al corridoio che portava alle camere, per assicurarmi che nessuno andasse a infastidire Jànos, ripetendo a me stesso che non avevo timore per lui, ma solo che ci derubassero. Per dare credibilità alla mia recita, cantai, offrii da bere, persi denaro ai dadi, illusi l'oste di essere finalmente interessato alle sue bionde, permettendo a Lenka di sedersi a strusciarsi sulle mie ginocchia. Cercai di nascondere imbarazzo e collera quando quella ragazzina prima mise la mano sotto la mia camicia, poi scese a frugarmi dentro le braghe: non sapendo come uscirne, scoppiai a ridere, borbottai frasi sconce, mi costrinsi persino a darle un bacio sulla guancia, deriso dai presenti, convinti che ormai fossi troppo ubriaco per riuscire a “essere uomo”. La commedia del magiaro sbronzo che si faceva spennare come un pollo dovette risultare abbastanza convincente, perché molti sghignazzarono quando fu chiaro che Lenka stava cercando non di sedurmi ma di trovare tra i vestiti denaro da rubare. La lasciai fare, sperando che quel denaro facile la salvasse, almeno per una notte, dal dover procurare in altro modo soldi al suo padrone, anzi, invece di reagire, mi misi a declamare stronzate sui suoi occhi simili a stelle, e l'intera bettola scoppiò in fragorose risate. Nonostante fosse riuscita a sfilarmi il sacchettino, l'unica a non ridere, naturalmente, fu lei. I due Maghi Oscuri, da parte loro, non sembrarono mai interessati a quello che stava accadendo nel locale: non parlarono molto, non riuscii a cogliere dettagli utili che spiegassero la loro presenza in quel posto dimenticato da dio, compresi però che il cognome di Igor era Karkaroff e che l'altro si chiamava Goran Ivanovic.
Era ormai quasi mezzanotte quando il maestro Dimitri Borislav entrò nel locale: dopo aver chiesto al bancone un doppio giro di acquavite, andò a sedersi con noncuranza, per mancanza di posti nella bettola ormai piena, proprio vicino ai due Maghi, dopo poche innocenti chiacchiere, li vidi scambiarsi con fare circospetto qualcosa sotto il tavolo, sembravano delle pergamene. Fui colto subito dall'agitazione: era necessario recuperare ciò che Borislav aveva dato agli altri due, e che Ivanovic aveva rapidamente messo sotto il mantello, altrettanto importante era vedere il contenuto della pergamena che aveva ricevuto Dimitri; inoltre dovevo portare a buon fine il piano originario, non sapevo quando si sarebbe ripresentata l'occasione di affatturare il maestro e piegarlo alla mia volontà. D'altra parte, una volta usciti da lì, non sarebbe stato facile rintracciare Karkaroff e il suo socio e soprattutto recuperare la loro pergamena, una pergamena che forse conteneva proprio le indicazioni che mi servivano, perciò decisi di dare la precedenza ai due presunti Mangiamorte. Io ero solo e loro erano due, ma potevo contare sull'effetto sorpresa, non credevo si aspettassero di trovare un altro Mago in quella topaia; o, almeno, io speravo che non avessero percepito la mia Magia. Circa mezzora più tardi, durante la quale i tre si diedero ad abbondanti libagioni, il maestro si alzò incerto sulle gambe, andò al bancone, estrasse un sacchetto pieno di monete e, dopo un rapido sguardo nella sala, riconobbe Lenka e la indicò tremante, al cenno d'assenso dell'oste, la bambina si allontanò da me e, mesta, si avvicinò all'uomo di Durmstrang, per condurlo verso le camere; contemporaneamente Karkaroff e Ivanovic, ormai sbronzi, saldarono il conto e uscirono barcollanti dalla porta posta sul retro.
Fui tentato di cambiare di nuovo i miei piani e intervenire, ma sapevo cosa ci fosse in gioco, non lo potevo fare, perciò m'imposi di non pensare a Lenka e agire: barcollante, mi avvicinai all'oste dicendomi offeso e reclamando la “mia bambina”, poi, facendo sempre finta di incespicare, gli chiesi della latrina e uscii dallo stesso squallido corridoio in cui avevo visto sparire i due Maghi. Appena raggiunsi la porta, il freddo gelido della notte mi colpì allo stomaco e alla testa, ma dopo la vertigine iniziale, fu una liberazione, perché lontano dagli odori molesti e dal fumo, la mente tornò improvvisamente lucida. In silenzio, senza muovermi, studiai la situazione: Ivanovic non c'era, probabilmente si stava servendo del bagno, Karkaroff lo stava attendendo addossato alla parete della bettola, poco lontano dalla porta da cui eravamo usciti, illuminato appena dal riverbero delle rade fiaccole che segnavano il sentiero. Aveva estratto la bacchetta e sembrava tutto impegnato a reggersi in piedi, oltre a bruciare ciuffi d'erba a terra, pensoso, troppo pensoso: ogni tanto sghignazzava da solo... non c'era bisogno di molta immaginazione per capire cosa stesse per fare.
Estrassi la bacchetta dagli stivali, poi, consapevole che usare la Magia avrebbe avuto lo stesso effetto di mettersi a urlare, “Sono Mirzam Sherton, sono qui, venite a prendermi”, desistetti. Scivolai leggero, muovendomi nel buio, fino a trovarmi dietro l'uomo, non ebbi difficoltà, dopo i tanti giorni passati a caccia con mio padre, sapevo come avanzare senza fare rumore anche senza servirmi della Magia, Karkaroff si voltò all'ultimo, forse fu solo un caso, forse, in un momento di lucidità, aveva percepito la mia presenza, ma era troppo tardi, io non attesi un solo secondo, gli sferrai un pugno violento alla tempia e una ginocchiata al basso ventre, poi mentre si piegava in due dal dolore, lo colpii altre due volte, due pugni assestati dal basso contro il mento. L'uomo crollò svenuto davanti a me, dritto tra le mie braccia. Ghignai, al pensiero di avergli restituito almeno in parte il dolore che ancora provavo al fianco. Lo appoggiai contro la parete, così, se qualcuno l'avesse visto, avrebbe pensato che fosse rovinato a terra per la sbornia. Sentii dei rumori d'acqua provenire dalla latrina, compresi che non avevo molto tempo. Con le mani doloranti e quasi inutilizzabili, mi avvicinai di corsa e arrivai sull'uomo proprio mentre stava uscendo dal cubicolo: sferrai un calcio contro il legno con tutta la forza della rincorsa, la porta gli colpì violenta la faccia, stordendolo, entrai e riuscii a agguantare Ivanovic per il bavero senza problemi, benché fosse molto più alto e robusto di me, lo scaraventai di schiena contro la parete, una, due, tre volte, gli piazzai un paio di pugni alle costole senza troppa forza, per il dolore che provavo alle nocche, ma parvero sufficienti a spezzargli il respiro. Infine, già piegato in due, gli rifilai la ginocchiata del k.o., atterrandolo definitivamente: un paio di scontri violenti avuti con Rodolphus, da ragazzo, aveva prodotto un'esperienza utile, non solo il dolore atroce e l'umiliazione profonda di allora. Ivanovic sembrava svenuto, mi piegai su di lui, gli sollevai la manica fino a scoprire l'orrido Marchio nero che gli deturpava l'avambraccio, sconvolto dalla scoperta, rimisi il tessuto a posto e frugai tra le vesti per prendere la pergamena, l'arrotolai e la nascosi sotto il mio mantello. Volevo che l'aggressione sembrasse un furto, perciò presi anche il denaro, il medaglione e qualsiasi altra cosa sembrasse avere un qualche valore economico. Conoscendo il Signore Oscuro, avrebbe dato a quei due una pesante lezione per essersi fatti gabbare da uno stupido ladro babbano, e questo solo per aver ceduto ai propri vizi. Mi sembrava una punizione sufficiente. Stavo per allontanarmi e fare lo stesso su Karkaroff per poi rientrare e occuparmi di Borislav, quando mi accorsi che Ivanovic aveva gli occhi aperti e, cosciente, mi stava fissando. Non aveva voce, ma le sue labbra spezzate biascicavano il mio nome, il mio vero nome, andai con la mano sulla mia faccia, con orrore mi resi conto che l'effetto della Polisucco era finito ed ero stato riconosciuto; mentre la destra gli scivolava verso l'avambraccio sinistro, non pensai un solo istante cosa fosse giusto e cosa sbagliato, vidi solo il Signore Oscuro che piombava sulla mia Sile e le strappava nostro figlio dal ventre. Terrorizzato e dolorante, disperato, estrassi il pugnale e glielo infilzai nel costato, più volte, sentii il suo respiro diventare un rantolo e il calore del suo sangue bagnarmi le mani... Nonostante fosse sicuramente morto, la paura che, solo ferito, andasse a raccontare tutto a Milord, mi faceva temere che i colpi non fossero stati sufficienti, così affondai ancora, un'ultima volta, proprio sotto il cuore. E stavolta spinsi in profondità, in obliquo, verso l'alto, ruotai il polso e con una forza che non credevo di avere, la forza della disperazione, estrassi la lama velocemente, inzuppandomi mani, viso e vesti del suo sangue. L'odore e la vista dello scempio mi provocarono un attacco di nausea, vomitai il poco che avevo ingerito. Con le mani lorde di sangue, corsi via, mi buttai a terra, mi rotolai nella neve e ci immersi le dita, le strofinai, me la passai sulla faccia: la neve si colorava di rosa, diventava rosso vivo, e le mie mani, ai miei occhi, continuavano a essere sporche. Le mie gambe cedettero, avevo commesso il mio primo vero omicidio.

    Legittima difesa, hai ucciso per legittima difesa... Non cedere... non ora... fallo per lei...

Dovevo tornare indietro, bere la Polisucco, ripulirmi il più rapidamente possibile, presto anche Karkaroff si sarebbe ripreso ed io ora avevo un motivo in più per allontanarmi. Respirai a fondo, cercando di ritrovare lucidità, corsi accanto al Mangiamorte, frugai tra le sue vesti, rubai tutto quello che mi pareva avesse un minimo di valore, a partire dal medaglione. Battendo i denti per il freddo, rientrai nel corridoio, mi puntai addosso la bacchetta, per togliermi ogni traccia di sangue e neve dai vestiti e dalle scarpe, trasfigurai gli oggetti sottratti ai Mangiamorte e li nascosi negli stivali, poi bevvi un sorso di Polisucco, avendo cura di prenderne da una seconda boccetta, una diversa da quella usata in precedenza, così da assumere un aspetto nuovo e confondere Karkaroff, se mi avesse avvicinato. Appena pochi istanti dopo, mentre ancora il mio corpo si contorceva negli spasimi della trasformazione, sentii la voce concitata del Mago balbettare sconnesso, quindi urlare il nome del compare, sentii i suoi passi pesanti sulla neve, diretto verso il corridoio in cui mi trovavo. Stava seguendo le tracce di sangue lasciate dai miei piedi, ebbi solo il tempo di asciugarmi e gettarmi a terra, uno dei tanti avventori svenuti per la sbronza. Karkaroff superò ad ampie falcate lo spazio esiguo del corridoio, quando mi raggiunse, si chinò, lo sentii voltarmi la faccia, tremante, percepii la luminosità tipica di un Lumos puntato contro gli occhi, grugnii di fastidio e biascicai parole incoerenti, strizzando gli occhi, il Mago non mi riconobbe, mi odorò e sentì la puzza di alcool, io finsi proprio allora un attacco di vomito. Karkaroff mi maledì, schifato, mi diede un pugno sulla faccia ora glabra e mi ributtò a terra, poi mi assestò un calcio alle costole, facendomi gemere di dolore. Si allontanò, incerto sulle gambe, rientrò nella sala, seguendo il sangue sul pavimento: avevo avuto l'accortezza di imprimere le mie orme ben oltre il punto in cui mi ero lasciato cadere, se non l'avessi fatto, ne ero certo, a quel punto mi avrebbe già ammazzato.
La voce dell'oste e quelle del Mago si levarono alte e rabbiose, si affrontarono, cercando di dominare l'una sull'altra, poi improvviso un lampo verde illuminò la stanza e riverberò fino a metà corridoio. Calò il silenzio. La mattanza era iniziata. La luce verde risplendette rapida ancora e ancora, mentre la gente urlava. Dopo un lampo intenso, color amaranto, un boato squassò l'aria, tutto attorno a me parve tremare, le urla si alzarono ancora più violente e disperate, insieme al pianto. Dovevo muovermi: sempre fingendomi instabile sulle gambe, mi risollevai, raggiunsi la sala, tutto era avvolto nel fumo e nella polvere, vidi tavoli incendiati, corpi martoriati a terra, morti, gente ferita che si contorceva, altra che correva, una parete e il soffitto della bettola erano crollati.

    Salazar... non ci pensare, non è colpa tua... lo stava già progettando... l'hai visto là fuori...

Percorsi il corridoio che conduceva alle camere, Karkaroff era già lì, vidi molti, mezzi nudi, fuggire via da lui, terrorizzati, diretti verso l'ingresso principale, nel buio e nel freddo della notte: nella corsa, quasi mi travolsero. Vidi molti di loro cadere sotto gli incantesimi del Mago, colpiti alle spalle, l'uomo era pochi passi davanti a me, colpiva sempre più spesso, come impazzito, ubriaco di sangue, alternava gli Avada agli Schiantesimi, senza una logica apparente: apriva una porta dopo l'altra, accecato dall'odio, alla ricerca di tracce del possibile assassino. Dovetti nascondermi più volte, radente al muro, dietro gente ferita o morta, rallentando così il mio inseguimento. Aveva ragione Jànos, lo capii solo in quel momento: mentre io mi occupavo di Karkaroff e Ivanovic, lui doveva fermare l'uomo di Durmstrang... a quest'ora potevamo già essere lontani da lì; invece, adesso, c'era il rischio che Karkaroff trovasse Borislav e l'uccidesse, oppure, peggio, che capisse che non era stato un semplice furto e chiedesse rinforzi. Ero diviso, una parte di me pensava che dovessi trovare Jànos e scappare, l'altra che dovessi, anche, eliminare quel terribile nemico. Rapido, tenendomi nella penombra, con Karkaroff a pochi passi da me, cercai di raggiungere la stanza che avevo affittato, dovevo svegliare Jànos e farlo fuggire nel bosco, prima che fosse coinvolto, Avevo recuperato la pergamena, forse era la stessa che volevamo che Borislav consegnasse a noi... forse sarebbe bastato a capire quali fossero le intenzioni del Lord. Forse potevamo andarcene senza troppi rimpianti lontano da lì, non era necessario correre altri rischi. Quando raggiunsi la camera, però, era già stata aperta: il terrore mi corse lungo la schiena, entrai, nel letto devastato dalle fiamme, non c'era nessuno, tutto era ridotto a un'infernale confusione, Karkaroff doveva aver appellato la pergamena senza trovarla e, furioso, aveva distrutto tutto, poi era uscito. Tremante, spaventato all'idea di cosa avrei potuto vedere tra quelle macerie, controllai tutta la stanza senza trovare nulla, prima di riprendere l'inseguimento: non c'erano tracce di sangue, certo, ma questo non significava che Jànos... Uscii nel corridoio, c'era ancora una sola porta da aprire, in fondo a quel budello stretto e buio, Karkaroff era proprio davanti a me, pronto a entrare. Pregavo che Jànos non fosse tra quanti avevano già perso la vita, mio padre e Fear non me l'avrebbero mai perdonato. Io stesso non me lo sarei mai perdonato; pregavo che fosse tra quelli che avevo visto fuggire nel bosco, e soprattutto che non fosse stato tanto stupido da rifugiarsi proprio dietro quell'ultima porta. Conoscendolo, però... Decisi di giocarmi il tutto per tutto: estrassi la bacchetta e corsi silenzioso alle spalle di Karkaroff, ma ancora una volta non feci in tempo, lui era già entrato. Sentii delle urla agghiaccianti, vidi il buio solcato dalla luce spettrale degli Schiantesimi, corsi fino alla porta, cercai di sporgermi, guardare dentro, riuscii a evitare per un soffio un paio di fatture, ma la terza mi prese a un braccio di striscio, facendomi sanguinare. C'era uno scontro in atto, tra Karkaroff e, immaginavo, Borislav, ma non riuscivo a vedere nulla, perché qualcuno aveva gettato un incantesimo di oscurità, più potente del Nox. Lanciai uno Stupeficium non verbale appena l'oscurità si diradò un poco, permettendomi di riconoscere la sagoma dell'uomo col colbacco che ostruiva la porta. Karkaroff, impegnato a ribattere a ciò che aveva di fronte, non riuscì a difendersi da me che ero alle sue spalle, crollò in avanti, la potenza del mio incantesimo lo mandò quasi a colpire la parete di fronte. Il suo avversario, a sua volta, aveva lanciato un incantesimo contro di lui prima che cadesse, così ebbi solo un istante per abbassarmi ed evitare di essere centrato in pieno.

    «Salazar... sei tu... per fortuna... Temevo che l'altro Mago ti avesse Schiantato o... peggio...»
    «Cosa... diavolo... ci fai... qui? Ti avevo detto di aspettarmi nella nostra stanza! E guardati!»

Esaurito l'effetto della Polisucco, davanti a me non c'era più il giovanissimo Jànos, ma Margareth McKinnon, la figlia di Orion, la ragazza che aveva deciso di seguirci e aiutarci. E, da degna discepola di Fear, di perseguitarmi e tormentarmi, naturalmente. Continuò a puntare la sua bacchetta contro il Mago privo di sensi ai miei piedi, mentre gli si avvicinava, si chinò su di lui e con sguardo assente, mi chiese se lo volessi vivo o morto. Non sapevo che cosa risponderle, lei insofferente, scelse per me e l’Obliviò. La fissai alcuni istanti, turbato: ancora una volta, senza che avessimo mai perso molto tempo a parlarci, in quei giorni, aveva capito quello che mi passava per la testa. Andai a sedermi sul letto, controllandomi la ferita e cercando di riprendere fiato, poi però, tornai a guardarla, perché iniziavo a rendermi conto che c'era qualcosa di strano in lei: i capelli di Margareth di solito erano corti e corvini, ora erano lunghi e biondi... inoltre, al posto della casacca da cacciatore, aveva una tunichetta che le dava l'aspetto di un pulcino bagnato, molto simile a...

    «Salazar! Che roba è? Perché sei vestita così? Sembri... Non...»
    «Respira, Sherton! Non volevo tenderti un agguato e provare a sedurti quando fossi tornato in camera, se è questo che temi. se non altro per Sile e per i soldi che tuo padre ha sprecato per te...»
    «Al diavolo, McKinnon... se t’illudi che io sprecherei mai i miei pensieri su una come te...»
    «“Una come te” significa che se non avessi un quarto di sangue babbano, invece...»
    «... Sangue babbano, sangue Grifondoro, e soprattutto dannato sangue Black!»
    «Credevo che Sherton e Black fossero amici, anzi... che tu avessi proprio un debole per...»

La fissai con odio e distolsi subito lo sguardo, meritava una lezione, era chiaro, ma non ora...

    «Io sono amico solo di chi non mi rompe continuamente i cog...»
    «Che modi... l'ho detto... questa vita ti sta privando di tutto il tuo fascino aristocratico...»
    «Sarà colpa della convivenza con personaggi molesti e sgraditi...»
    «Posso sempre mollarti qui, se preferisci... hai appena dimostrato quanto sapresti cavartela da solo, no? Dopo il tempo che ci abbiamo messo a trovarlo, stavi per farti scappare Borislav...»
    «Io? E tu cosa avresti fatto di meglio? Non mi pare di vedere Borislav qui dentro!»
    «Il fatto che tu non lo veda, milord, non significa che non ci sia, ma solo che il “grande principe del nord, sua grazia fanfaronia”, non ha spirito di osservazione... fallo dai! Cosa aspetti?»

Mi fissò addosso i suoi intensi occhi grigi, ironica, mentre le avevo puntato contro la bacchetta, esasperato. La misi giù: nonostante la trovassi insopportabile, avevo un debito di riconoscenza verso di lei e non dovevo dimenticare di chi fosse figlia, dovevo portare rispetto al mio padrino e sopportare. Mi guardai intorno, interdetto, quella era la stanza di Borislav, tornai a fissarla, mi guardava ghignando e intanto si stava puntando la bacchetta addosso per finire di recuperare le proprie sembianze. All'improvviso compresi che cos'era successo: Margareth non aveva trovato rifugio lì, messa in fuga da Karkaroff... lei era lì da prima che iniziasse tutto: aveva finto di ubbidirmi, ma non era andata a dormire, si era nascosta nell'ultima stanza libera, quella riservata dall'oste a Borislav e lì aveva atteso l'arrivo del Mago di Durmstrang per coglierlo di sorpresa e affatturarlo. Quando aveva visto Lenka entrare con lui, aveva trasfigurato i propri capelli e i propri vestiti così da assomigliarle: in questo modo aveva ingannato anche Karkaroff, quando era entrato.

    «Ce l'hai fatta ad arrivarci, finalmente...»

Con indosso la casacca e i pantaloni adatti alla vita nei boschi, si chinò sul letto, estrasse qualcosa da sotto il cuscino e mi si avvicinò, tendendo la mano; quando l'aprì, davanti a me, vidi tra le sue dita la seconda pergamena e una biglia, minuscole. Puntò la bacchetta e pronunciò un Engorgio, gli oggetti s’ingrandirono fino alle dimensioni originali. Presi la pergamena, l'arrotolai e la misi sotto i vestiti, senza leggerla, quello che mi attraeva era la biglia, trasformata in una sfera piena d'acqua in cui nuotava un pesce rosso, con il pizzetto di Borislav sulla barba e un orecchio umano in testa.

    «Non è perfetto, lo so, non è da molto che Fear mi sta insegnando questi incantesimi...»
    «Salazar... che cosa diavolo hai fatto? La Trasfigurazione umana è illegale e... pericolosa!»
    «Illegale? Pericolosa? Avevi bisogno del mio aiuto ed io te l'ho dato, cosa diavolo vuoi ancora? Non mi umilierò a chiederti scusa per non aver rispettato i precetti dei tuoi sacri insegnanti di Hogwarts! O le sacre regole del Ministero? E non credere di essere solo tu un vero mago!
    «Non ho mai detto una cosa del genere, non ho mai...»
    «È ciò che pensi... ed io ne ho abbastanza di te! E ora basta, andiamocene di qui prima che arrivi qualcuno, o che a questo idiota passi la sbornia...»
    «Mi dispiace... ti ringrazio dell'aiuto e... sbagli se pensi... ehi, dove vai? Aspettami... Margareth... che ne è della ragazzina che era con Borislav? Non le hanno fatto del male, spero...»
    «Non hanno torto un capello alla Babbana... Sherton... cuori di burro e lacrima facile!»

La fissai e sentii di nuovo accendersi la mia faccia d’ira e disprezzo.

    «Come cazzo ti permetti?»
    «Andiamo... potrai fare l'offeso tutto il tempo che vuoi... una volta al sicuro!»

Mi cedette il passo, io le diedi le spalle, offeso e ammutolito. Non la sopportavo, tra lei e Fear quei giorni erano stati una condanna continua, eppure... Eppure la guardavo e non potevo fare a meno di essere confuso e ammirato: non tanto per la trasfigurazione, benché non avessi mai visto nemmeno mio padre eseguirla, ma per il sangue freddo che Margareth aveva dimostrato, e per il suo mettersi in gioco, in fondo, in una missione che, con la sua vita, non c'entrava nulla. Mi doleva ammetterlo e non glielo avrei mai confidato, certo, ma... nonostante gli istinti omicidi e la voglia di prenderla a randellate che mi suscitava venti volte al giorno, lei iniziava a piacermi, così coraggiosa e tosta. Ed io ero felice che al mio fianco, e soprattutto accanto a Sile, ci fosse una persona simile.

*

Odiavo la notte, il silenzio, il restare solo con i miei pensieri: nonostante la stanchezza, non c'era pericolo che mi addormentassi, perché al termine di quelle lunghe giornate, in cui la necessità di sopravvivere e difendere ciò che avevo di più caro mi tirava fuori forze e risorse che mai avrei creduto di possedere, i soliti sensi di colpa tornavano e m’impedivano di prendere sonno. Non riuscivo a fare a meno di pensare all'uomo che avevo ucciso e a tutta la gente ammazzata da Karkaroff... certo, eliminare un Mangiamorte doveva essere motivo di sollievo, non di turbamento, e le persone morte nella bettola, per il male che facevano a quelle ragazzine, meritavano una punizione. E, Karkaroff avrebbe ucciso quei babbani, anche se io non l'avessi preso a pugni... Era così, lo sapevo, ma non riuscivo a chiudere gli occhi senza rivedere le mie mani bagnate di sangue.
Stringendomi addosso il mantello, ravvivai il fuoco, anche se non spettava a me montare la guardia: avevamo raggiunto gli altri in piena notte, Margareth aveva sostituito il vecchio al posto di guardia vicino alla tenda più grande, dove Fear si era messo subito al lavoro sulla pergamena sottratta ai Mangiamorte e sulle cose rubate a Barislav. Il maestro e la ragazzina erano con lui, svenuti, in pratica nostri prigionieri: l'idea era quella di Obliviare il maestro, cambiare i suoi ricordi e lasciarlo libero, non prima, però, di averlo posto sotto Imperius, perché la pergamena, per quanto utile, non sembrava essere ciò che stavamo cercando. Quanto a Lenka... Fear voleva Obliviarla e lasciarla andare, ma Margareth l'aveva convinto a fare qualcosa di più, trovarle un posto sicuro, lontano, un'alternativa alla vita disgraziata che aveva condotto finora. Mi aveva fissato mentre lo diceva ed io ero rimasto senza parole, mi turbava che avesse capito i miei pensieri senza che io le avessi detto nulla del mio bizzarro progetto di salvare quella bambina. Fear, invece, mi aveva fatto capire in modo inequivocabile che mi considerava responsabile di quell'ennesima stronzata, fissandomi con un cipiglio carico di disapprovazione. Sospirai, non era importante, contava solo essere riusciti a portarla via, avere fatto la cosa giusta per qualcuno... senza voler niente in cambio.
Sile dormiva poco lontano da me, nella tenda più piccola, io restavo fuori, vicino al fuoco: sfinita com'era, non mi aveva sentito ritornare, ed io, pur volendola rivedere subito, dopo tre giorni passati lontano, non me l'ero sentita di svegliarla, sebbene sapessi che si sarebbe dispiaciuta, l'indomani.
Nei nostri pochi giorni felici da novelli sposi, Sile mi aveva fatto apprezzare la sua filosofia, secondo la quale il sonno era solo tempo rubato alla vita. Io ero sempre stato un po' pigro, ma al suo fianco, alla scoperta delle gioie dell'amore, avevo iniziato a pensarla come lei: ora però non era la sola voglia di intimità a farci considerare sprecato il tempo passato a dormire, ma la necessità di vivere insieme quei rari momenti di normalità e condivisione. Da quando eravamo partiti, c’eravamo visti pochissimo: ci muovevamo di continuo, di solito divisi, per poi ritrovarci in punti convenuti; i gruppi non erano mai gli stessi, per non essere riconoscibili, nel caso ci pedinassero: a volte Fear andava con Margareth e Sile, lasciando me da solo, altre volte ci dividevano in coppie; per lo più, Sile restava ferma in un luogo sicuro con Margareth, mentre Fear ed io affrontavamo ciascuno una missione diversa. Lei non restava mai da sola, ma non stava mai con me, a parte la notte, quando dormivamo insieme, al termine di missioni che potevano durare anche dei giorni. Era per questo che, quando finalmente ci ritrovavamo, consideravamo un sacrilegio sprecare tempo a dormire, tempo che passavamo a parlare, baciarci, ridere, o semplicemente guardarci: io sarei rimasto ore e giorni a guardarla, a stringerla tra le braccia e soprattutto baciarla. Era grazie all'idea dei piccoli, brevi momenti con lei che mi attendevano al ritorno, che riuscivo a sopportare l'orrore di tutto il resto. E per Sile era lo stesso.
Sospirai, mi voltai verso la tenda e immaginai mia moglie che dormiva abbracciata alle coperte, sognando la mia pelle, come io sognavo la sua. Avrei voluto raggiungerla, per amarla tutta la notte. Ma non eravamo più soli, adesso: lei aspettava un bambino, lei aspettava mio figlio... ed io non volevo che lei rinunciasse al giusto riposo per me. Quel pensiero, il pensiero del bambino, mi provocava idee contrastanti, a volte immaginavo di fuggire lontano, per tenerla al sicuro, avrei cercato di attrarre l'attenzione del Lord su di me, per distrarlo da lei e da mio figlio... altre volte, avrei voluto prenderla e scappare con lei nella notte, lontano da Fear e da tutto il resto, al diavolo la missione, Herrengton, Habarcat, Milord... andare lontano, tanto lontano, lei ed io, e nostro figlio, insieme, una vita nuova, solo noi.
Sospirai. Non era questo che avevo immaginato. Avevo paura, paura degli stress inauditi e inadatti alle sue condizioni che Sile doveva sopportare a causa mia, sapevo che meritava tutt'altro, una casa sicura, una vita tranquilla, giornate passate a pensare al colore della stanza del bambino, o a far compere con le amiche, notti fatte di tenerezze scambiate nel nostro letto. L'unica cosa che potevo fare per lei, invece, l'unico dono che potevo offrirle, era non disturbare il suo riposo, consapevole che anche così, sottraendomi, la facevo soffrire.
Accesi sul fuoco uno dei sigari che mio padre aveva infilato nella mia sacca da viaggio, uno dei piccoli piaceri che mi riportavano al passato, aspirai profondamente e ripensai a quei pochi giorni... pochissimi giorni in cui le nostre vite erano state stravolte. Era successo di tutto, ma avevo solo ricordi fugaci. L'unico ricordo che brillava nitido nella mia mente era la mattina in cui avevo scoperto che Sile era incinta... ricordavo come tremava, nella sua tunichetta leggera, quando era venuta a svegliarmi, i suoi occhi resi grandi dalla consapevolezza e dal timore misto a gioia, il suo viso rosso per l'emozione, felicità e paura, paura della mia reazione. A quelle parole, mi ero messo a piangere di felicità, in ginocchio ai suoi piedi, le avevo stretto le gambe tra le mie braccia e avevo iniziato a baciarle la pelle, finché lei aveva affondato le mani tra i miei capelli.

    «Ne sei felice anche tu, allora? Ne sei davvero felice, Mirzam?»
    «Felice e orgoglioso... come potrei non esserlo? Avremo un figlio, io e la donna che amo...»

In quella mattina brumosa, in quella locanda sperduta avevo capito quanto fosse ridicolo il mio progetto di vivere solo con lei per un po' prima di pensare ai figli: quando Sile me l'aveva detto, avevo sentito accendersi la luce in una parte di me che esisteva giàmsenza che io lo sapessi, avevo capito quanto desiderassi lei e i miei figli, i nostri figli, non era possibile scindere l'una dagli altri...
La paura era venuta fuori solo dopo: Fear, che già nutriva sospetti sullo stato di Sile, mi aveva fatto pesare la situazione come al solito, a modo suo, e tra noi le cose erano definitivamente andate a rotoli, perché quel dannato bastardo aveva osato prendersela anche con Sile, accusandola di scarsa serietà e di essere un'irresponsabile, come me. Avevo avuto una reazione violenta, l'avevo minacciato che, se avesse ancora mancato di rispetto a mia moglie, avremmo fatto armi e bagagli e ce ne saremmo andati, al diavolo la missione e la Confraternita. Era stata la prima e unica volta che avevo visto Fear tacere, anzi, da quel giorno, aveva smesso di darci il tormento e non aveva più fatto storie alla nostra pretesa di dormire insieme. Conoscendolo, dubitavo che comprendesse, piuttosto doveva essere offeso e il suo pensiero, ora, si era di certo fissato sulla missione e sulla sicurezza del bambino. Quella mattina, furioso, ero uscito... e la giornata era finita con l'attacco di Karkaroff: avevo passato solo pochi giorni di spensieratezza e speranza, poi, appena ero stato colpito, avevo capito che nulla sarebbe stato come l'avevo immaginato. Il destino mi stava dando la famiglia che avevo sempre sognato, ma io non potevo garantire loro la sicurezza che meritavano, la vita di pericolo e rinunce cui avevo costretto Sile, era ciò che attendeva anche mio figlio.
Osservando il cielo stellato che faceva capolino tra le cime degli alberi e il profilo della montagna, spensi il sigaro a terra. Alla luce del fuoco mi sollevai il maglione che avevo addosso e controllai le bruciature che avevo ancora al fianco. Stranamente, fortunatamente, la missione di quella notte era andata bene, né io né Margareth eravamo stati feriti, usando solo un poco di astuzia e sfruttando bene i tempi, eravamo riusciti a colpire e rendere inoffensivi tre avversari molto più forti e scaltri di noi, recuperare le pergamene, e mettere le mani su Borislav...

    «Perché non mi hai svegliato quando sei tornato?»

Mi voltai, Sile, con una coperta di lana ad avvolgerla tutta e la treccia allentata, si era affacciata dalla tenda e ora si avvicinava al fuoco, si sedette vicino a me, le sorrisi, mi prese le mani tra le sue, mi guardò intensamente, poi alzò il volto per farsi baciare, accarezzandomi la testa, io le stampai dei baci lievi sulle guance e sugli occhi, resi piccoli dal sonno.

    «Dovresti dormire, Sile... è notte fonda e hai bisogno di riposare...»
    «Non voglio... so che non sarai qui, quando si farà giorno... e mi manchi già... infinitamente...»
    «Non andrò da nessuna parte: abbiamo catturato Borislav e abbiamo preso delle pergamene... crollasse il mondo, ora voglio stare con te... almeno tre giorni... Se ci muoveremo, lo faremo insieme... Se resteremo, tu ed io arriveremo nel villaggio più vicino, ti comprerò un nastro per i capelli e passeremo la giornata insieme, a ridere e mangiare, mentre Fear lavorerà sulla pergamena e Margareth si occuperà del prigioniero... perciò ora riposa, io starò qui fuori, a pochi passi da te...»
    «È troppo anche un solo passo, Mirzam... sei stato via per giorni, ti voglio con me...»
    «Sile... non è così semplice...»

La fissai, lei guardò me, in attesa: avevo giurato a me stesso che non le avrei più taciuto nulla, ricordai momenti dolorosi in cui avevo fallito, in cui avevo quasi mandato a monte la mia vita per uno stupido segreto. Non l'avrei fatto più, non le avrei più nascosto pensieri, fragilità, dubbi...

    «Non so se mi vorrai ancora al tuo fianco, dopo, ma... non sarei onesto con te se non te lo dicessi... ed io ho giurato... Ho ucciso un uomo, stanotte, Sile: le mie mani sono sporche di sangue...»

Mi guardò, non riuscii a decifrare la sua espressione, pensai di aver appena fatto la mia ennesima cazzata, ma dentro di me ero convinto di essere nel giusto, quindi non abbassai lo sguardo.

    «Hai desiderato farlo, Mirzam? Sei soddisfatto di averlo ucciso? Ti ha fatto sentire potente? Avevi altra scelta, ma hai preferito infierire per il gusto di vedere la paura nei suoi occhi?»
    «No, non avevo altra scelta, no, ma, invece di scappare, ho piantato un pugnale nel suo petto...»
    «Che cosa sarebbe accaduto, Mirzam, se non l'avessi fatto? Vivere o morire, Mirzam... sapevi che prima o poi sarebbe accaduto... per difendere te stesso, me, nostro figlio... Tu non sei un assassino... Io non ti avrei mai sposato, non ti avrei mai amato, se tu lo fossi veramente...»

Mi baciò la mano e se la passò lentamente sulle labbra, mi si sedette in grembo, aprì la coperta per avvolgerci entrambi dentro, non aveva nient'altro addosso ed io la strinsi tra le mie braccia, baciandola con passione, perdendomi nel profumo del suo collo, stordito dal desiderio, ma anche dalla forza del suo perdono. Volevo stendermi con lei, stringerla forte, fondermi con lei, amarla. Era evidente quanto la desiderassi anch’io. Feci scorrere le mani sulla pelle vellutata della sua schiena, indugiando sulla spina dorsale e morsi, leggero, le sue labbra, per poi scivolare sul lobo del suo orecchio, strappandole un gorgoglio. Ero rapito, ipnotizzato dalle sensazioni e dalle ombre purpuree del falò. Quando sentii un rumore lieve nel buio oltre il fuoco, tornai immediatamente vigile, mi ricomposi e mi alzai, con Sile stretta al mio fianco e la bacchetta in pugno, ci avvicinammo alla tenda, sollevai il tessuto e la feci entrare, guardandomi indietro prima di entrare a mia volta, finché la tenda scivolò di nuovo giù, dietro di noi, difendendoci dal resto del mondo...
Fissai Sile, era fragile e infinitamente forte, bella ancor più di quanto fossi abituato a vederla, una bellezza fatta di amore pieno.
Mi avvicinai, mi chinai a baciarle il collo, mormorandole all'orecchio quanto l'amassi.
Spensi tutte le candele tranne un paio, le feci scivolare la coperta dalle spalle e le cinsi i fianchi, portandola a sedersi e a sdraiarsi sul letto, accanto a me. Con un colpo di bacchetta mi spogliai anch’io. Sile scivolò con lo sguardo sul mio corpo, vidi i suoi occhi soffermarsi sulle ferite al mio fianco, accucciata, sentii le sue dita accarezzarmi la pelle, mormorando parole che non compresi. Accarezzai il suo viso, così piccolo nelle mie mani grandi, poi immersi le dita tra i suoi capelli folti e neri, il mio sguardo nel suo. Si strinse a me, premendo il seno caldo sul mio petto, le mie labbra rapite dalla sua bocca; le sue mani si appoggiarono sulle mie spalle e premettero, sentii i suoi capelli solleticarmi la faccia, mugolai appena un po', poi ruotai per mettermi supino, come desiderava lei, così che il mio mondo fossero solo i suoi occhi meravigliosi, le sue lentiggini, il suo calore stretto sopra di me. All'improvviso la sentii attorno a me, lenta e delicata, un caldo, accogliente, nido di vita; mi strappò un gemito profondo. Scivolai con le dita a percorrerle tutta la schiena, mentre si muoveva. Sile era forte e fragile ed io tremavo esattamente come lei, preso dal desiderio e dal timore di spezzare qualcosa di tanto perfetto e fragile. Come se mi avesse letto nel pensiero, mi prese le mani, quelle mie mani che avevano tolto la vita, le baciò, se le portò al collo e le fece scivolare leggere lungo il suo corpo, fino a fermarle alla base delle costole. Sentii il suo respiro, immaginai la vita che stava crescendo là dentro, la vita che aveva creato con me. Insieme. Mi sollevai a baciarla, mordendo il suo collo delicato, le mani sulle sue gambe, sulle sue cosce, che sapevano essere deliziosamente morbide, sotto le dita, e incredibilmente forti intorno ai miei fianchi. La fissai, mentre la sorreggevo, persa nei sospiri che le strappavo, continuai a tempestarla di baci e umide carezze, lasciando che il nostro amore cancellasse tutto, l'orrore, la paura, la colpa, che tornasse tutto come quella magica notte di Maillag, in cui ci eravamo ritrovati, dopo infinite tempeste, finalmente uniti, finalmente sposati, diversi e al contempo noi stessi.
Innocenti e buoni.

*

    ... Tutti noi siamo fatti di luce e di oscurità, e dinanzi a noi si aprono continuamente sia la strada che porta alla virtù sia quella che conduce alla perdizione; non è prestabilito quale delle due percorreremo nella nostra vita, è una scelta esclusivamente nostra, da rinnovare ogni giorno. Crescendo, inoltre, scoprirai che queste strade non sono linee rette, ma percorsi tortuosi che spesso si sovrappongono, al punto che il male diventa, a volte, l'unica strada per far prevalere il bene...

Quando mi svegliai, poco prima dell'alba, mi attardai a ripensare alle parole di mio padre, gli occhi fissi sulla tenda che ci sovrastava. Sile ed io eravamo ancora avvinghiati, le gambe intrecciate, ci eravamo addormentati così, uno nelle braccia dell'altra. Spostai i capelli corvini dal suo viso, ammirai la linea delle sue labbra, arrossate dai miei baci; con un ghignetto divertito, scansai un poco le lenzuola e ammirai lo stesso rossore stampato sul suo collo e sul suo seno, ancora traumatizzati dalla mia bocca.
Guardai le mie mani, con un brivido, ricordai la sera precedente, ma pensai anche a come, sul corpo niveo di Sile, avessi smesso di vederle sporche di sangue. Lei era la mia salvezza, le dovevo la mia vita, e giurai a me stesso che avrei fatto di tutto per rendere concreto l'amore che provavo per lei.
Avendo cura di non svegliarla, scivolai fuori dal nostro giaciglio e uscii dal retro della tenda, lasciai che il freddo del mattino mi baciasse la pelle nuda e sudata: mi sgranchii, osservando nella luce grigiastra le Rune sulla mia pelle, notai come, ultimamente, avessi perso un po' di tono e di peso. Pensai che anche Sile stesse mangiando in modo troppo frugale: nonostante quanto diceva Fear, dovevo passare un po' del tempo a mia disposizione andando a caccia... Sì, Sile e il bambino sentivano di sicuro, forte, il bisogno di cibo, di carne. Passai le dita sulla mia faccia, sentii di nuovo lunga la barba: non avevo avuto né la voglia né il tempo di radermi, ma ormai stavo assomigliando di nuovo all'uomo che era stato visto sul luogo dell'incidente a Podmore. Mi stropicciai i capelli... troppo lunghi...
All'improvviso, mentre prendevo la neve da avvolgere nelle bende di cotone per i rituali del mattino, ebbi la sensazione di non essere solo, mi guardai intorno, incerto, la luce non permetteva di capire forme e distanze, ma alla fine vidi Margareth che si stava muovendo in modo furtivo, diretta nella sua tenda. Non doveva importarmi, facendo quella vita raminga e promiscua era normale, ma solo il sospetto che mi avesse spiato, mi provocò imbarazzo e fastidio.
Stavo borbottando tra me, vergognandomi e arrabbiandomi all'idea che mi avesse spiato non solo in quell'occasione, quando vidi qualcosa di luminescente tra gli alberi della foresta: non era più buio, ma non era ancora giorno, all'inizio pensai fosse un particolare gioco di luce che annunciava l'alba, poi mi resi conto che la luce veniva da Ovest. E che la luce era argentea, non rosata. Mi fermai, le bende di cotone caddero nella neve, sentii un tuffo al cuore, quando vidi che si avvicinava di corsa e sembrava diretta proprio verso di noi, proprio verso la tenda. Sembrava una sfera d'argento, all'inizio, ma a mano a mano che si avvicinava assumeva una forma precisa, una forma che conoscevo.
Era un Patronus... Un Patronus che conoscevo. Un Patronus che conoscevo bene.
Si fece largo tra il fogliame, si palesò maestoso, dinanzi a me, ma non si fermò, mi superò e rapido s’infilò nella tenda più grande, dove Fear era ancora al lavoro; corsi dentro, con il cuore in gola, carico di domande, consapevole che, per essere lì, qualcosa di grave doveva essere appena accaduto a casa.


*continua*



NdA:
Ciao a tutti, comincio con il ringraziare quanti hanno letto, commentato e aggiunto alle varie liste.  - Questo capitolo è straordinariamente lungo perché è il risultato della fusione (2015) di due chap postati nel 2013 - . Riguardo la prima parte vorrei solo ricordare che Meissa non ha ancora 12 anni, immagino perciò che siano giustificabili le sue reazioni, un po' da bambina piagnucolosa, un po' da ragazzina che inizia a arrabbiarsi e ribellarsi,  come pure la volubilità delle impressioni sulle altre persone, tipo William Emerson. Meissa inizia a capire le differenze nei comportamenti degli altri, e a percepire che, pur criticabile per molti aspetti, William è onesto, e su di lui potrà sempre “contare”, al contrario di altri personaggi con cui ha interagito di recente
. Bon, ci leggiamo prossimamente, un bacio e a presto.
Valeria



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