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Autore: Violet_forevah    02/02/2013    2 recensioni
Gli occhi sono lo specchio dell'anima. Ogni sentimento, ogni emozione che proviamo si riflette nel nostro sguardo. Cosa si prova a poter sentire tutto quello che provano le persone intorno a te? Quale sentimento riflettono i tuoi occhi, in quel caso? Tutti o nessuno? Io, Sophie Richardson, ho la risposta a tutte queste domande.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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                                                                                                  1. An old new life.



Passai tutto il mese di agosto in casa. Furono le settimane più lunghe della mia vita, le più dolorose. In ogni oggetto e in ogni gesto che compievo rivedevo mio padre. Trascorrevo la maggior parte delle giornate a letto, ma quando mia madre tornava dal lavoro tentavo di comportarmi normalmente. Le preparavo la cena, la aiutavo in casa per non farla faticare troppo, mi sforzavo di parlare di cose frivole come prima, anche se ormai per me non contavano più nulla.  Ma il peggio veniva di notte: ero perseguitata dagli incubi. Più che altro erano immagini frammentate di mio padre, di quando ero piccola; ma spesso rivedevo gli ultimi secondi della sua vita, sentivo di nuovo le urla e mi svegliavo di soprassalto gridando. Il più inquietante era quello in cui mi trovavo in cima ad una gigantesca scala, piangevo e mi dimenavo, senza saperne il motivo. Poi nel sogno i miei occhi sbiancavano, esattamente come avevo visto nello specchio, o credevo di aver visto. In quei casi correvo nel letto di mia madre, la abbracciavo stretta fino a riaddormentarmi. 
 
Però c’erano dei momenti che spezzavano quella che mi sembrava un eterna lotta contro i miei pensieri: quando Amy e Luke, i miei migliori, e, a dire la verità, unici amici, mi venivano a trovare. Quando si presentavano alla mia porta, l’una bassina, magra, ma con una quantità infinita di capelli ricci color oro; e l’altro, alto almeno una spanna più di lei e con un sorrisino sarcastico stampato in faccia praticamente sempre… non potevo fare a meno di sorridere.  Insieme guardavamo film stupidi e serie TV di qualità mediocre, leggevamo giornalini di gossip, giocavamo ai videogiochi e mangiavamo schifezze. Erano gli unici che mi riuscivano a far divertire davvero in quel periodo.  
 
Il mio fidanzato, Ben, purtroppo, era al campeggio organizzato dalla nostra scuola e non poteva passarmi a trovare. In compenso mi tempestava di messaggi e chiamate per sapere come stavo e ebbi la sensazione che si sentisse in colpa per non potermi stare vicino.
Ben Kingsley era il ragazzo più buono che conoscessi; il classico ragazzo americano: biondo, alto, muscoloso e capitano della squadra di football della scuola. Quando cominciammo ad uscire insieme quasi non credevo che una persona come lui avesse notato una come me. Con lui ero più estroversa: lui rideva alle mie battute deprimenti e io non mancavo una sua partita per nulla al mondo.
 
Ma quando Amy e Luke tornavano alle loro vite e Ben staccava il cellulare per andare a dormire…allora la mia tortura ricominciava. Pochi giorni prima del ritorno a scuola mia madre mi accompagnò a Chicago a fare un po’ di shopping. Era una tradizione per noi. Passammo la giornata in centro, ma io ero svogliata e avevo la testa da tutt’altra parte. Quella sera tornammo a casa senza aver comprato nulla così, mia madre, durante la cena mi accennò: «Sophie, tesoro, io e lo sceriffo Kingsley stavamo pensando…ecco credevamo che ti potrebbe far bene andare da uno psicologo, per sfogarti un po’, visto che con me non ci riesci». - «CHE COSA?!?» lo dissi così forte da farla sobbalzare. «Io non ho bisogno di uno strizzacervelli, non sono pazza». In realtà ultimamente dubitavo della mia salute mentale anch’io, soprattutto dopo l’episodio dello specchio. Ma non dovevo essere curata, volevo solo essere capita. Cercai di calmarla: «Mamma, davvero non ne ho bisogno. Sono stata un po’ giù ultimamente ma…è perché mi manca papà. Sempre». Mi prese la mano delicatamente e mi baciò sulla fronte. «Manca anche a me, tesoro. Ma dobbiamo andare avanti, non più possiamo vivere così», mormorò.
Aveva ragione, lo sapevo. Il giorno prima dell’inizio del mio terzo anno di liceo decisi di lasciarmi tutto alle spalle: ogni incubo e ogni brutto pensiero. Avrei cancellato dalla mia testa la visione del mio riflesso dei miei occhi. Dal giorno dopo l’unica cosa che avrei mantenuto di quel mese sarebbe stato il ricordo di mio padre. Un ricordo bello, della mia infanzia, dei momenti passati insieme in famiglia… non quello dei suoi ultimi istanti di vita.
Sarei andata avanti perché, come aveva detto mia madre, era quello che dovevo fare. Ma dentro di me sapevo che non sarebbe stato così semplice.
 
Il primo settembre ricominciarono le lezioni. La Evanston High School era una normalissima scuola americana: l’edificio era grande e abbastanza banale, costruito con mattoni rosso scuro, insomma, una scuola come tante. Non ero assolutamente pronta per tornarci, ma sfoggiai il mio miglior sorriso finto e mi buttai a capofitto nella ripetitiva e monotona vita da liceale.
 
Amy e Luke mi vennero incontro agli armadietti. Abbracciai forte Amy, affondando il viso nei suoi capelli al profumo di fragola. Luke mi sorrise e disse, con il solito tono ironico: «Sei fresca con un fiore…. hai presente quelli che nascono nei cimiteri?» - «Grazie mille, è molto incoraggiante», risposi. «Gli amici servono a questo, no?». Mi prese sottobraccio e mi spinse in classe.
 
Per fortuna le prime tre ore furono leggere: inglese, francese e storia. Storia era la mia preferita, non tanto per gli argomenti, quanto per l’insegnante. La signorina Joyce era la persona più adorabile del mondo. Era gentile con tutti, conosceva il nome e la data di nascita di tutti i suoi alunni, partecipava a tutte le feste di paese e cucinava per i senzatetto. Dopo l’incedente mi portò a casa un cesto pieno di dolci deliziosi, ricordandosi addirittura della mia allergia alla cannella. Faceva da mamma a tutta la città, ma non aveva una famiglia propria, anche per questo tutti le erano vicini, non volevano lasciarla sola.
 
A mezzogiorno finalmente incontrai Ben sul muretto nel cortile, mentre ripassavo matematica. Mi corse incontro: «Ei, ma dov’eri finito?», esclamai. «Sophie! Come stai? Dio, quanto mi sei mancata», sorrise e mi baciò velocemente sulle labbra. «Ci vediamo oggi pomeriggio, vero? Ho gli allenamenti, ma poi passo da te». Acconsentii, e lo guardai scappare via. Raggiunsi Amy e Luke in mensa, presi qualcosa da mangiare e mi sedetti. «Allora… era a lezione con voi?» chiese Amy, elettrizzata. «Chi?», risposi. «Ma il ragazzo nuovo, ovvio. Non dirmi che non sai di chi sto parlando!» - «In realtà, no…». Scioccata, Amy assunse il suo tono da giornalista e disse: «Sei un caso perso. Meno male che ci sono io ha riempire le tue lacune. E’ arrivato la settimana scorsa, si chiama Tobias Bryson, viene da Chicago. O, per essere esatti, dal riformatorio di Chicago». Fece una pausa. Era euforica. «E’ stato lì per un anno intero.  In ogni caso, nessuno è certo del perché. Cecile Benson ha detto che ha stuprato una ragazzina, ma gira voce che ha rapinato la Banca Centrale dell’Illinois da solo.» Luke la interruppe: «Marcus Lloyd dice che ha sedotto una ricca donna sposata e gli ha rubato tutto, compresi i vestiti». Amy ricominciò, divertita: «Bhe, ora è stato preso in affidamento dai signori Stewart e frequenta il nostro stesso anno, anche se è più grande, perché ha perso i corsi essendo in riformatorio. Ah, dimenticavo: è dannatamente carino». Risi. Mi stava contagiando con la sua eccitazione.
 
Ricominciarono le lezioni, così mi diressi insieme a Ben nell’aula di chimica. All’inizio era divertente, ma dopo un’ora l’intera classe era sprofondata nella noia. Ignorai il discorso sulle molecole di ossigeno e cercai nella borsa il mio quaderno degli schizzi. Amavo quel quaderno almeno quanto amavo disegnarci sopra, e non mi interessava se era rosa con i brillantini e avevo 16 anni. Non lo trovai perciò pensai di averlo lasciato sul muretto poche ore prima. Alla fine delle lezioni dissi ad Amy che li avrei raggiunti dopo poco per studiare insieme, e andai a cercare il quaderno. Mi avvicinai al muretto, ma era già occupato.
 
C’era un ragazzo, appoggiato svogliatamente al muro. Ascoltava la musica con le cuffiette e guardava lontano, non so bene cosa. Spostai lo sguardo sul suo viso, non temevo che mi vedesse, era troppo occupato con i suoi pensieri. La prima cosa che pensai fu che mi ricordava una scultura. Di quelle greche o romane che si vedono nei libri di arte. Aveva i lineamenti marcati e un po’ spigolosi, come scolpiti nel marmo. Ma fu quando vidi gli occhi che rimasi scioccata: erano azzurri, ma non il solito celeste grigiastro. Questi erano più chiari, come il cielo la mattina presto, però tendevano al violetto. Rimasi così a fissarli per qualche secondo, poi lui si voltò e mi vide. Dovevo dire qualcosa, ma avevo la gola secca. «Quello è…insomma io…ce-cercavo…» Stavo balbettando, grandioso. «Come, scusa?» chiese lui, aggrottando le sopracciglia e guardandomi come se fossi pazza. «Sto cercando il mio quaderno, dovrebbe essere sul muretto», dissi schiarendomi la voce. Si girò, lo prese dandogli una rapida occhiata e me lo porse. «Gra-grazie», dissi. Accennò un sorriso finto e si allontanò. “Perché ho fatto la figura dell’idiota totale?”, pensai. Erano gli occhi, mi avevano stordita completamente.
 
Mi girai e vidi Amy e Luke dietro di me. «Oh mio Dio. Ci stavi parlando!», esclamò lei. «Con chi?», le chiesi. «Con il probabile criminale, scema».
  
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