Capitolo 1
Kemuri no namida
In tutte le lacrime
indugia una speranza.
Simone de Beauvoir, I mandarini, 1954
“Fumare è un pessimo vizio.”
Lo aveva svegliato l’odore. Un misto di amaro e dolciastro
che era penetrato fin dentro quel limbo grigio fluttuante dove non c’era tempo,
spazio, pensieri. Era stata una brutta sensazione, decisamente
sgradevole. Il profumo di caffè mescolato a quello del fumo. Prima ancora di
realizzare cosa fosse quell’odore, il suo stomaco si era stretto in un conato.
Il soffitto era stata la prima cosa. Un soffitto
bianco con un’ombra di luce rossastra. Forse di tramonto forse di neon. Non
sembrava un ospedale; non c’era nemmeno l’odore dell’ospedale.
Non aveva voluto pensare a cosa fosse, quel soffitto. A dove
fosse.
Non sentiva il corpo; non sentiva
i pensieri.
C’era solo l’odore del fumo e
quella luce rossastra che andava scemando lentamente. Troppo lentamente per
essere un’insegna. È il tramonto.
Voltare appena il viso era stata
nausea e fatica; era stato il sudore sulla fronte accaldata e scosse lungo tutta
la colonna vertebrale. E quel corpo che non sentiva era esploso, doloroso e
lancinante in ogni più piccola fibra. Come la voce.
Quanto aveva impiegato ad articolare una frase? Quanta
fatica e boccheggiare erano costate quelle poche parole strascicate e roche,
simili al grattare del metallo sull’asfalto? Quanta era stata l’attesa,
seguendo le volute corpose del fumo oltre la finestra?
“Mi dicono che anche farsi sparare
è poco salutare.”
Sorrise. Non si era aspettato una
risposta diversa; forse non l’aveva nemmeno attesa davvero, quella risposta. In
fondo, la voglia di parlare non c’era e quelle quattro parole rotolate nella
bocca erano state una piccola innocua sfida a se stesso. Eppure.
Sì. Dovette
ammettere che sentirla, quella risposta. Quella risposta ironica e un
po’ distaccata; quella risposta che non voleva sentire, che non si aspettava di
sentire. Quella risposta era stata ossigeno. Era stata
la consapevolezza dell’ovvietà, di una normalità tanto anormale, da risultare quasi patetica.
Avrebbe riso, se ogni respiro non fosse stato uno strazio.
Sì; avrebbe riso.
“Oh” riuscì a biascicare, la
bocca secca e la lingua gonfia. “Sì; hai ragione. L’ho
sentito anch’io.”
Shinichi sospirò.
L’acero aveva le foglie rosse dell’ultimo autunno e
nell’aria c’era ancora un vago sentore di pioggia e umido. Avrebbe dovuto
trovarsi a Naha, in quel momento. In attesa di un
aereo che avrebbe fatto scalo prima alle Hawaii e poi a Los Angeles. Avrebbe
dovuto essere in viaggio per l’America, per quell’appuntamento con Jodie Sterling. Avrebbe. C’erano dei dossier da discutere,
vecchio materiale di Akai ritrovato in una delle sue
case sicure. C’erano. C’erano da vagliare la possibilità per lui di entrare nel
programma di protezione testimoni e di collaborare regolarmente come fonte
esterna alle indagini. C’erano.
C’erano tante cose. Da fare. Da pianificare.
E invece si trovava lì, a fissare un acero rosso e il
tramonto di Osaka.
“Bene” soffiò con il fumo della sigaretta. “Visto che ne sei consapevole, sei pregato di restartene qui
buono a riposare.”
“Uh! Che cordialità!”
Shinichi socchiuse gli occhi: non capiva nemmeno se essere arrabbiato o rasserenato. Quando lo
avevano chiamato, a Nara, aveva sentito il cuore
soffocarlo nella gola. Una chiamata del genere; una chiamata
su quel numero. Un numero
creato apposta; un numero cui non avrebbe mia voluto
rispondere. Quando era arrivata quella
chiamata, Shinichi aveva sentito il cuore nella gola
e la terra girare. Aveva avuto paura, mentre le mani tremavano e un grumo di
saliva era rimasto lì, annodato da qualche parte. Aveva avuto paura; e aveva risposto.
Ran.
Ran era stato il primo pensiero. E
poi il sollievo. E l’ansia nella voce metallica del
cellulare; i rumori, le parole inghiottite. Sì. Sirene. Sì, è la polizia. Un’esplosione. No. Ferito. Sangue. Tanto.
Osaka.
Osaka.
Un nome che gli era rimbombato nella testa per tutto il
viaggio; un nome che aveva detestato e che martellava nella testa ogni secondo
che passava. Osaka. Sempre Osaka.
Aveva fretta. Fretta di arrivarci;
fretta di capire; fretta di assicurarsi di.
Che cosa? Che fosse vivo lo sapeva già.
No; non era quello che voleva sapere. Forse era perché. O forse nemmeno quello. Lo
sapeva, il perché. Era lo stesso che
teneva lui lontano da tutti; quel maledetto motivo che lo faceva vivere da
ricercato, sempre scappando, sempre guardandosi le spalle. Quel perché che gli aveva distrutto la vita e
che continuava a permettergli di condizionarlo.
Ma quel perché.
Quel perché era
anche una speranza di vita. Era tutta la vita che gli era rimasta; e forse la
follia forse l’illusione o l’irrazionale speranza di avere ancora un domani
diverso; un domani da vivere come se l’era immaginato a diciassette anni. Quel
domani che se ne era andato per troppa curiosità e poca esperienza.
No. Non era sollievo.
E non era nemmeno rabbia. Era semplicemente rassegnazione.
Perché prima o dopo, lo sapeva, ci si sarebbe trovato, in quella situazione. Di
nuovo. Perché presto o tardi, ne era consapevole, qualcosa sarebbe sfuggito al
suo controllo e qualcuno ne avrebbe
pagato le conseguenze. E il peso di quella responsabilità sarebbe stato suo.
Solo suo.
E osservando il viso pallido, gli occhi segnati e quel
sorriso strafottente che non se ne voleva andare; guardando forse se stesso
forse una proiezione inconscia, Shinichi si chiese se
l’avrebbe mai avuta, la forza, per sostenere quella responsabilità. E se era giusto costringersi, costringerli,
in quel modo.
“Sei pensieroso” lo riscosse quella voce ancora flebile e
arrochita. “Stai cercando le parole giuste per farmi la predica?”
“Servirebbe?”
“No. Lo sai.”
Sì, lo sapeva. E in fondo non ne aveva nemmeno
l’intenzione. Doveva bruciare. La consapevolezza di esser
finito in trappola e di avercela fatta solo per un gioco della sorte.
Doveva bruciare. Tanto. Forse troppo. E lui. Cosa avrebbe
fatto, lui, se si fosse trovato al suo posto? Probabilmente avrebbe agito allo
stesso modo. Ne era consapevole. Forse si sarebbe soffermato un po’ di più a
riflettere o forse no. Ma comunque avrebbe agito.
Quindi, erano inutili prediche o
consigli. Erano inutili da lui, che puntualmente disattendeva
quelli rivoltigli.
“Non c’era bisogno che venissi.”
“Già” gli concesse Shinichi,
gettando il mozzicone di sigaretta e richiudendo la finestra. “In fondo ti
hanno solo quasi ammazzato.”
“Eri preoccupato?” cercò di sorridere, e il gesto gli
strappò una smorfia.
“Stai fermo” lo riprese Shinichi,
trascinando la sedia della scrivania accanto al letto. “Kazuha-neechan
ha faticato, a ricucirti.”
“Kazuha-neechan?” bofonchiò,
divertito della sorpresa di Shinichi stesso a quel
modo confidenziale che ancora ogni tanto gli sfuggiva. “Le abitudini sono dure
a morire, ne?”
“Kuroba.”
“Ah. Scusa scusa”
rise ancora Kaito, un
singhiozzo simile ad un rantolo. Scherzare con Kudo;
ripetere quei piccoli bisticci verbali, quelle piccola
gare di arguzia e battutine; riscoprire il gioco dei ruoli e delle parti da
recitare. La normalità. Era quella normalità che gli conferiva un senso di
sicurezza calda, come quiete. Anche se sapeva che Kudo
non avrebbe mai ammesso nulla; anche se sapeva che Kudo
avrebbe trovato una scusa qualunque per giustificare la sua venuta a Osaka.
Anche se sapeva che quello sguardo che gli aveva visto, fugace, l’increspatura
di un attimo, non si sarebbe ripetuto. Va
bene. Andava bene comunque. Era quello che cercava; quello che voleva. Né
pietà né condiscendenza.
“Sto bene” gli rispose all’occhiata perplessa che Kudo gli aveva gettato mentre cercava di sollevarsi meglio
contro il cuscino. “Davvero. Dammi
alcuni giorni e sarò di nuovo in forma” lo rassicurò ancora, senza che
chiedesse. E in fondo più che Shinichi Kaito voleva rassicurare se stesso; realizzare di esserci
andato vicino, quella volta. Maledettamente vicino. Scosse la testa. Kuso. Ricordava
lo sparo; e il dolore. Ricordava la canna della pistola sotto il riflesso al
neon; e parole. Parole urlate. Forse il suo nome forse delle
imprecazioni. Poi.
Poi era stata la voce constante di Hakuba
che lo costringeva a restare sveglio, la sua mano premuta nella carne e luce.
La luce intermittente che lo accecava continuamente. La consapevolezza di
un’altra persona. E poi.
Poi era stato il soffitto di una stanza. E Kudo nel tramonto.
“Quando te ne andrai?”
“Non ho intenzione di farlo” lo sorprese Shinichi, giocherellando distrattamente con una penna. “Non
per il momento, almeno.”
“È pericoloso” gli ricordò Kaito,
abbandonando completamente l’ironia solita.
“Non più che altrove” minimizzò Shinichi,
ignorando la sensazione di tensione che ancora non scemava, nonostante la
certezza di trovarsi relativamente protetto. Almeno finchè
fosse rimasto nascosto in quella casa.
“Penso che non riuscirò a farti cambiare idea. Ne?”
Shinichi gli
sorrise appena. No. Non aveva intenzione di andarsene; non subito almeno.
Doveva capire cos’era successo. Doveva capire come avessero fatto a prevenire Kuroba e
ad aspettarlo al varco. Doveva capire se si trattava di un regolamento
di contri all’interno della malavita o se fosse coinvolta direttamente
l’Organizzazione. E soprattutto doveva capire perché Kuroba avesse deciso all’improvviso,
con un’imprudenza che non gli apparteneva, con una sconsideratezza che mai
avrebbe arrischiato. Lui così preciso nei suoi piani; lui che calcolava ogni
sorpresa e ogni apparizione per ottenere il massimo effetto.
“È stato un mio errore, Kudo.”
“Non un errore così banale, Kuroba”
ragionò a voce alta Shinichi.
“Capita anche ai migliori” scherzò Kaito.
“Ho sottovalutato la situazione. Succede.”
“Non a te.”
“Lo prenderò per un complimento.”
Shinichi sospirò. Kuroba
non collaborava. Ironizzava, svicolava, scherzava. Cercava di non affrontare
l’argomento con la serietà necessaria; cercava di non svelare i suoi trucchi e
il perché di quanto successo.
Non lo avevano pianificato, e Kuroba
aveva deciso d’impulso. Ma doveva essere un colpo
facile. Ma c’era quel buco. Quel buco di dieci minuti
fra il furto e il momento in cui Hakuba aveva trovato
Kuroba ferito e vicino all’essere arrestato.
E se Kaito Kid
aveva ritardato la sua fuga non era per una
pianificazione affrettata o uno spiegamento di forze troppo massiccio. Non era
nemmeno per l’improvvisa arguzia dell’ispettore Nakamori.
Nakamori. Nakamori
non spara. Nakamori non avrebbe mai sparato a Kaito Kid.
Nakamori no. Ma.
“Loro.”
“Nani?”
“Sono stati loro
a sparati. Sono stati loro a
sorprenderti” incalzò Shinichi, sporgendosi verso Kaito. “Ho ragione, Kuroba? È con loro che ti sei scontrato.”
“E se fosse?”
Era stata una risposta sgarbata; una risposta
sulla difensiva. Una risposta assolutamente non da Kuroba. Shinichi
capì di aver colto nel segno; capì di aver scoperto
quello che, probabilmente, Hakuba gli avrebbe
confermato una volta finiti i rilievi.
“Baka”
sibilò, e la rabbia e la preoccupazione si fusero in un sussurro simile a un
ringhio. “Eravamo d’accordo. Niente iniziative
personali. Te lo ricordi? Avevamo detto…”
“…-ko” sussurrò Kaito,
stringendo forte le coperte, la fronte bassa.
“Cosa?”
“Aoko. Poteva esserci
Aoko” singhiozzò senza lacrime, la voce che bruciava
la gola.
Shinichi sospirò, lasciandosi cadere sul
letto, le mani fra le gambe e la testa all’improvviso pesante. Non riusciva a
guardare Kuroba; non voleva scoprire il suo sguardo,
la disperazione in quei lineamenti sempre allegri e spensierati. Non voleva
rivedere le sue paure e i suoi timori si quel viso tanto sconvolto.
“Nakamura-chan è”
“Lo so.”
E fu un urlo strozzato. Furono lacrime inghiottite fra
rabbia e incredulità, fra dolore e annientamento.
“Lo so” ripetè più piano,
coprendosi gli occhi con una mano. “Lo so. Eppure. Eppure io.”
Shinichi strinse forte le mani.
Avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato, osservando la notte
avanzare su Osaka.
Avrebbe aspettato, consumando nella cenere di una
sigaretta il dolore e il senso di impotenza; il
sollievo o forse la rabbia.
Avrebbe aspettato, mentre un pianto silenzioso riempiva il
tempo che passava.