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Autore: avalon9    03/02/2013    0 recensioni
“Ichigo ichie” le sussurrò, uno sbuffo di riso. Perché poteva essere l’ultima volta. Perché era sempre un’ultima volta. E aveva imparato a non volere rimpianti.
Uno sparo; un amico ferito; forse una traccia. Sono passati sei anni da quando Shinichi ha recuperato il suo reale aspetto. Sei anni passati a scappare dai MIB, vivendo alla macchia. Da solo. Sei anni in cui le vite degli altri sono andate avanti, mentre la sua si è fermata a quando di anni ne aveva ancora sedici. Eppure anche lui è cresciuto. E non da solo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heiji Hattori, Kaito Kuroba/Kaito Kid, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Heiji Hattori/Kazuha Toyama, Ran Mori/Shinichi Kudo, Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: Lime | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo 1

 

 

 

Capitolo 1

Kemuri no namida

 

 

In tutte le lacrime indugia una speranza.

Simone de Beauvoir, I mandarini, 1954

 

 

 

 

“Fumare è un pessimo vizio.”

Lo aveva svegliato l’odore. Un misto di amaro e dolciastro che era penetrato fin dentro quel limbo grigio fluttuante dove non c’era tempo, spazio, pensieri. Era stata una brutta sensazione, decisamente sgradevole. Il profumo di caffè mescolato a quello del fumo. Prima ancora di realizzare cosa fosse quell’odore, il suo stomaco si era stretto in un conato. Il soffitto era stata la prima cosa. Un soffitto bianco con un’ombra di luce rossastra. Forse di tramonto forse di neon. Non sembrava un ospedale; non c’era nemmeno l’odore dell’ospedale.

Non aveva voluto pensare a cosa fosse, quel soffitto. A dove fosse.

Non sentiva il corpo; non sentiva i pensieri.

C’era solo l’odore del fumo e quella luce rossastra che andava scemando lentamente. Troppo lentamente per essere un’insegna. È il tramonto.

Voltare appena il viso era stata nausea e fatica; era stato il sudore sulla fronte accaldata e scosse lungo tutta la colonna vertebrale. E quel corpo che non sentiva era esploso, doloroso e lancinante in ogni più piccola fibra. Come la voce.

Quanto aveva impiegato ad articolare una frase? Quanta fatica e boccheggiare erano costate quelle poche parole strascicate e roche, simili al grattare del metallo sull’asfalto? Quanta era stata l’attesa, seguendo le volute corpose del fumo oltre la finestra?

“Mi dicono che anche farsi sparare è poco salutare.”

Sorrise. Non si era aspettato una risposta diversa; forse non l’aveva nemmeno attesa davvero, quella risposta. In fondo, la voglia di parlare non c’era e quelle quattro parole rotolate nella bocca erano state una piccola innocua sfida a se stesso. Eppure.

Sì. Dovette ammettere che sentirla, quella risposta. Quella risposta ironica e un po’ distaccata; quella risposta che non voleva sentire, che non si aspettava di sentire. Quella risposta era stata ossigeno. Era stata la consapevolezza dell’ovvietà, di una normalità tanto anormale, da risultare quasi patetica.

Avrebbe riso, se ogni respiro non fosse stato uno strazio. Sì; avrebbe riso.

“Oh” riuscì a biascicare, la bocca secca e la lingua gonfia. “Sì; hai ragione. L’ho sentito anch’io.”

Shinichi sospirò.

L’acero aveva le foglie rosse dell’ultimo autunno e nell’aria c’era ancora un vago sentore di pioggia e umido. Avrebbe dovuto trovarsi a Naha, in quel momento. In attesa di un aereo che avrebbe fatto scalo prima alle Hawaii e poi a Los Angeles. Avrebbe dovuto essere in viaggio per l’America, per quell’appuntamento con Jodie Sterling. Avrebbe. C’erano dei dossier da discutere, vecchio materiale di Akai ritrovato in una delle sue case sicure. C’erano. C’erano da vagliare la possibilità per lui di entrare nel programma di protezione testimoni e di collaborare regolarmente come fonte esterna alle indagini. C’erano.

C’erano tante cose. Da fare. Da pianificare.

E invece si trovava lì, a fissare un acero rosso e il tramonto di Osaka.

“Bene” soffiò con il fumo della sigaretta. “Visto che ne sei consapevole, sei pregato di restartene qui buono a riposare.”

“Uh! Che cordialità!”

Shinichi socchiuse gli occhi: non capiva nemmeno se essere arrabbiato o rasserenato. Quando lo avevano chiamato, a Nara, aveva sentito il cuore soffocarlo nella gola. Una chiamata del genere; una chiamata su quel numero. Un numero creato apposta; un numero cui non avrebbe mia voluto rispondere. Quando era arrivata quella chiamata, Shinichi aveva sentito il cuore nella gola e la terra girare. Aveva avuto paura, mentre le mani tremavano e un grumo di saliva era rimasto lì, annodato da qualche parte. Aveva avuto paura; e aveva risposto.

Ran.

Ran era stato il primo pensiero. E poi il sollievo. E l’ansia nella voce metallica del cellulare; i rumori, le parole inghiottite. Sì. Sirene. Sì, è la polizia. Un’esplosione. No. Ferito. Sangue. Tanto. Osaka.

Osaka.

Un nome che gli era rimbombato nella testa per tutto il viaggio; un nome che aveva detestato e che martellava nella testa ogni secondo che passava. Osaka. Sempre Osaka.

Aveva fretta. Fretta di arrivarci; fretta di capire; fretta di assicurarsi di.

Che cosa? Che fosse vivo lo sapeva già.

No; non era quello che voleva sapere. Forse era perché. O forse nemmeno quello. Lo sapeva, il perché. Era lo stesso che teneva lui lontano da tutti; quel maledetto motivo che lo faceva vivere da ricercato, sempre scappando, sempre guardandosi le spalle. Quel perché che gli aveva distrutto la vita e che continuava a permettergli di condizionarlo.

Ma quel perché.

Quel perché era anche una speranza di vita. Era tutta la vita che gli era rimasta; e forse la follia forse l’illusione o l’irrazionale speranza di avere ancora un domani diverso; un domani da vivere come se l’era immaginato a diciassette anni. Quel domani che se ne era andato per troppa curiosità e poca esperienza.

No. Non era sollievo.

E non era nemmeno rabbia. Era semplicemente rassegnazione. Perché prima o dopo, lo sapeva, ci si sarebbe trovato, in quella situazione. Di nuovo. Perché presto o tardi, ne era consapevole, qualcosa sarebbe sfuggito al suo controllo e qualcuno ne avrebbe pagato le conseguenze. E il peso di quella responsabilità sarebbe stato suo. Solo suo.

E osservando il viso pallido, gli occhi segnati e quel sorriso strafottente che non se ne voleva andare; guardando forse se stesso forse una proiezione inconscia, Shinichi si chiese se l’avrebbe mai avuta, la forza, per sostenere quella responsabilità. E se era giusto costringersi, costringerli, in quel modo.

“Sei pensieroso” lo riscosse quella voce ancora flebile e arrochita. “Stai cercando le parole giuste per farmi la predica?”

“Servirebbe?”

“No. Lo sai.”

Sì, lo sapeva. E in fondo non ne aveva nemmeno l’intenzione. Doveva bruciare. La consapevolezza di esser finito in trappola e di avercela fatta solo per un gioco della sorte. Doveva bruciare. Tanto. Forse troppo. E lui. Cosa avrebbe fatto, lui, se si fosse trovato al suo posto? Probabilmente avrebbe agito allo stesso modo. Ne era consapevole. Forse si sarebbe soffermato un po’ di più a riflettere o forse no. Ma comunque avrebbe agito.

Quindi, erano inutili prediche o consigli. Erano inutili da lui, che puntualmente disattendeva quelli rivoltigli.

“Non c’era bisogno che venissi.”

“Già” gli concesse Shinichi, gettando il mozzicone di sigaretta e richiudendo la finestra. “In fondo ti hanno solo quasi ammazzato.”

“Eri preoccupato?” cercò di sorridere, e il gesto gli strappò una smorfia.

“Stai fermo” lo riprese Shinichi, trascinando la sedia della scrivania accanto al letto. “Kazuha-neechan ha faticato, a ricucirti.”

Kazuha-neechan?” bofonchiò, divertito della sorpresa di Shinichi stesso a quel modo confidenziale che ancora ogni tanto gli sfuggiva. “Le abitudini sono dure a morire, ne?”

Kuroba.”

“Ah. Scusa scusarise ancora Kaito, un singhiozzo simile ad un rantolo. Scherzare con Kudo; ripetere quei piccoli bisticci verbali, quelle piccola gare di arguzia e battutine; riscoprire il gioco dei ruoli e delle parti da recitare. La normalità. Era quella normalità che gli conferiva un senso di sicurezza calda, come quiete. Anche se sapeva che Kudo non avrebbe mai ammesso nulla; anche se sapeva che Kudo avrebbe trovato una scusa qualunque per giustificare la sua venuta a Osaka. Anche se sapeva che quello sguardo che gli aveva visto, fugace, l’increspatura di un attimo, non si sarebbe ripetuto. Va bene. Andava bene comunque. Era quello che cercava; quello che voleva. Né pietà né condiscendenza.

“Sto bene” gli rispose all’occhiata perplessa che Kudo gli aveva gettato mentre cercava di sollevarsi meglio contro il cuscino. “Davvero. Dammi alcuni giorni e sarò di nuovo in forma” lo rassicurò ancora, senza che chiedesse. E in fondo più che Shinichi Kaito voleva rassicurare se stesso; realizzare di esserci andato vicino, quella volta. Maledettamente vicino. Scosse la testa. Kuso. Ricordava lo sparo; e il dolore. Ricordava la canna della pistola sotto il riflesso al neon; e parole. Parole urlate. Forse il suo nome forse delle imprecazioni. Poi.

Poi era stata la voce constante di Hakuba che lo costringeva a restare sveglio, la sua mano premuta nella carne e luce. La luce intermittente che lo accecava continuamente. La consapevolezza di un’altra persona. E poi.

Poi era stato il soffitto di una stanza. E Kudo nel tramonto.

“Quando te ne andrai?”

“Non ho intenzione di farlo” lo sorprese Shinichi, giocherellando distrattamente con una penna. “Non per il momento, almeno.”

“È pericoloso” gli ricordò Kaito, abbandonando completamente l’ironia solita.

“Non più che altrove” minimizzò Shinichi, ignorando la sensazione di tensione che ancora non scemava, nonostante la certezza di trovarsi relativamente protetto. Almeno finchè fosse rimasto nascosto in quella casa.

“Penso che non riuscirò a farti cambiare idea. Ne?”

Shinichi gli sorrise appena. No. Non aveva intenzione di andarsene; non subito almeno. Doveva capire cos’era successo. Doveva capire come avessero fatto a prevenire Kuroba e ad aspettarlo al varco. Doveva capire se si trattava di un regolamento di contri all’interno della malavita o se fosse coinvolta direttamente l’Organizzazione. E soprattutto doveva capire perché Kuroba avesse deciso all’improvviso, con un’imprudenza che non gli apparteneva, con una sconsideratezza che mai avrebbe arrischiato. Lui così preciso nei suoi piani; lui che calcolava ogni sorpresa e ogni apparizione per ottenere il massimo effetto.

“È stato un mio errore, Kudo.”

“Non un errore così banale, Kuroba” ragionò a voce alta Shinichi.

“Capita anche ai migliori” scherzò Kaito. “Ho sottovalutato la situazione. Succede.”

“Non a te.”

“Lo prenderò per un complimento.”

Shinichi sospirò. Kuroba non collaborava. Ironizzava, svicolava, scherzava. Cercava di non affrontare l’argomento con la serietà necessaria; cercava di non svelare i suoi trucchi e il perché di quanto successo.

Non lo avevano pianificato, e Kuroba aveva deciso d’impulso. Ma doveva essere un colpo facile. Ma c’era quel buco. Quel buco di dieci minuti fra il furto e il momento in cui Hakuba aveva trovato Kuroba ferito e vicino all’essere arrestato.

E se Kaito Kid aveva ritardato la sua fuga non era per una pianificazione affrettata o uno spiegamento di forze troppo massiccio. Non era nemmeno per l’improvvisa arguzia dell’ispettore Nakamori.

Nakamori. Nakamori non spara. Nakamori non avrebbe mai sparato a Kaito Kid.

Nakamori no. Ma.

“Loro.”

Nani?

“Sono stati loro a sparati. Sono stati loro a sorprenderti” incalzò Shinichi, sporgendosi verso Kaito. “Ho ragione, Kuroba? È con loro che ti sei scontrato.”

“E se fosse?”

Era stata una risposta sgarbata; una risposta sulla difensiva. Una risposta assolutamente non da Kuroba. Shinichi capì di aver colto nel segno; capì di aver scoperto quello che, probabilmente, Hakuba gli avrebbe confermato una volta finiti i rilievi.

Baka” sibilò, e la rabbia e la preoccupazione si fusero in un sussurro simile a un ringhio. “Eravamo d’accordo. Niente iniziative personali. Te lo ricordi? Avevamo detto…”

“…-ko” sussurrò Kaito, stringendo forte le coperte, la fronte bassa.

“Cosa?”

Aoko. Poteva esserci Aoko” singhiozzò senza lacrime, la voce che bruciava la gola.

Shinichi sospirò, lasciandosi cadere sul letto, le mani fra le gambe e la testa all’improvviso pesante. Non riusciva a guardare Kuroba; non voleva scoprire il suo sguardo, la disperazione in quei lineamenti sempre allegri e spensierati. Non voleva rivedere le sue paure e i suoi timori si quel viso tanto sconvolto.

Nakamura-chan è”

“Lo so.”

E fu un urlo strozzato. Furono lacrime inghiottite fra rabbia e incredulità, fra dolore e annientamento.

“Lo so” ripetè più piano, coprendosi gli occhi con una mano. “Lo so. Eppure. Eppure io.”

Shinichi strinse forte le mani.

Avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato, osservando la notte avanzare su Osaka.

Avrebbe aspettato, consumando nella cenere di una sigaretta il dolore e il senso di impotenza; il sollievo o forse la rabbia.

Avrebbe aspettato, mentre un pianto silenzioso riempiva il tempo che passava.

 

  
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