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Autore: avalon9    12/02/2013    2 recensioni
“Ichigo ichie” le sussurrò, uno sbuffo di riso. Perché poteva essere l’ultima volta. Perché era sempre un’ultima volta. E aveva imparato a non volere rimpianti.
Uno sparo; un amico ferito; forse una traccia. Sono passati sei anni da quando Shinichi ha recuperato il suo reale aspetto. Sei anni passati a scappare dai MIB, vivendo alla macchia. Da solo. Sei anni in cui le vite degli altri sono andate avanti, mentre la sua si è fermata a quando di anni ne aveva ancora sedici. Eppure anche lui è cresciuto. E non da solo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heiji Hattori, Kaito Kuroba/Kaito Kid, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Heiji Hattori/Kazuha Toyama, Ran Mori/Shinichi Kudo, Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: Lime | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo 2

Capitolo 2

Hiro

 

 

 

Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta

ed è la più terribile delle stanchezze.

Non è pesante come la stanchezza del corpo,

e non è inquieta come la stanchezza dell'emozione.

 È un peso della consapevolezza del mondo,

 una impossibilità di respirare con l'anima.

Fernando Pessoa

 

 

 

“Se continui così dovrai metterli davvero, gli occhiali.”

Heiji lasciò scorrere la fusuma. La penombra della stanza era appena rischiarata dalle shoji lasciate socchiuse. Si mosse lento, per abituarsi e evitare di urtare qualcosa. Shinichi era seduto contro lo stipite, gli occhi socchiusi e documenti ovunque.

Hakuba lo ha appena inviato” gli disse, porgendogli il fascicolo con il risultato dei rilievi e dell’inchiesta sul furto di quattro giorni prima.

Domo.”

Shinichi lo accettò con un gesto stanco, iniziando a sfogliarlo alla fioca luce che proveniva dall’esterno, stringendo gli occhi arrossati.

“Dovresti riposare” lo riprese Heiji, sedendosi accanto.

“Sì ” minimizzò Shinichi, continuando a sfogliare il dossier. Gli ultimi rilievi effettuati dalla scientifica forse gli avrebbero permesso di comprendere cosa esattamente fosse successo. Confidava nella precisione quasi maniacale del collega, e nella possibilità di ottenere qualche informazione in più da Kuroba se gli avesse parlato con una maggior cognizione dei fatti. Avrebbe anche voluto vedere la scena del furto, certo. Ma era rischioso; decisamente troppo rischioso.

Come lo era essere a Osaka; come lo era restarsene lì, seminascosto da una shoji socchiusa a indovinare il trascorrere delle ore sulla città; ad aspettare un foglio, una parola, una telefonata. Ad aspettare e pensare. Soprattutto pensare.

Kudo.”

Le mani libere all’improvviso e il viso di Hattori a pochi centimetri, fra l’irritato e il preoccupato, furono come cadere. Non se ne era accorto. Né delle parole che doveva avergli rivolto né del fatto che si fosse fermato accanto a lui. Credeva. Credeva che se e fosse andato; credeva che la fusuma fosse stata aperta e chiusa e di trovarsi di nuovo da solo.

Da solo.

“Non hai ascoltato. Giusto?”

“Hm.”

Heiji sospirò massaggiandosi esasperato la testa. Lo conosceva; lo conosceva da anni ormai. E sapeva che quando l’attenzione di Kudo era attratta da un caso, non riusciva a pensare ad altro, non riusciva a concentrarsi su altro. Ma questa volta.

Questa volta era diverso, Heiji lo sapeva. Non era uno dei soliti casi in cui poteva trovarsi coinvolto; uno di quei casi che lo riportavano indietro, a quando era un ragazzino e li risolveva con mille attenzioni e una sottile vena di orgoglio. Quasi un malsano conforto per un ragazzo imprigionato nel corpo di un bambino.

No. Non era nulla di simile. Aveva smesso di essere un gioco da troppo tempo ormai; aveva smesso di essere solo un’indagine alla giornata da troppi anni. E di Shinichi Kudo, del ragazzo incontrato per una sfida d’orgoglio; di un ragazzo smascherato e costretto all’amicizia; di un ragazzo che gli aveva insegnato la determinazione e con cui era cresciuto. Di quel ragazzo restava solo un uomo dal viso troppo scavato e con tanta solitudine dentro.

Haibara è tornata a Tokyo” gli disse, sedendosi sul tatami. “Ha detto di richiamarla se ci fosse bisogno, ma non dovrebbero esserci complicazioni.”

“È stato un rischio. Farla venire qui.”

“Sì. Lo so” sospirò Heiji, socchiudendo maggiormente la fusuma. Nel giardino della casa, il piccolo laghetto mandava riflessi incerti e un refolo freddo muoveva appena le foglie. “Ma l’alternativa era l’ospedale. E lo sai anche tu: sarebbe stato peggio.”

“Non era un rimprovero” soffiò Shinichi, socchiudendo gli occhi e appoggiandosi maggiormente allo stipite alle sue spalle. “Ne abbiamo già parlato. Era la soluzione migliore.”

Hakuba ci raggiungerà domani. In serata” continuò Heiji, studiando di sfuggita l’espressione dell’amico.

“Bene.” Shinichi sollevò pigramente un foglio, socchiudendo gli occhi, come se la debole luce dell’esterno lo infastidisse. “Quando arriverà, vedremo di fare il punto della situazione.”

“E allora dimmi cos’hai.”

“Nulla. Perché?”

Heiji sorrise. Un sorriso sottile, a metà fra lo scherzo e la delusione. Perché faceva male. Faceva male vedere come, dopo tutti quegli anni, dopo quanto condiviso, dopo gli inganni, i sotterfugi, le parole e le promesse, Kudo ancora cercasse di mentirgli.

Faceva male. E faceva rabbia.

Perché era proprio da Kudo indossare sempre quella maschera di forza e sicurezza; era proprio da Kudo cercare di mascherare le proprie paure e le proprie insicurezze. E addossarsi le colpe. Addossarsi la responsabilità per ogni cosa, procedendo senza chiedere né aiuto né appoggio.

“Siamo ancora a questo punto, Kudo?” gli chiese stancamente, stringendo le mani sulle ginocchia.

Quante? Quante volte ancora dovrà costringerlo a quel discorso, per farglielo capire? Quante volte ancora dovranno litigare e arrabbiarsi, perché Kudo accetti semplicemente che è stata una sua scelta, quella di seguirlo in quell’operazione? Quante volte ancora lo vedrà sparire, senza sapere se mai lo rivedrà? Quante volte una chiamata lo farà tremare, nella paura di ascoltare dall’altra parte del ricevitore qualcosa che non vorrebbe mai sentire. Quante volte ancora?

“Sì Hattori. Lo siamo ancora” sospirò Shinichi.

Perché? Perché non voleva capire? Aiutarlo; coprirlo; nasconderlo. Ogni parole; ogni gesto; ogni pensiero. Tutto. Tutto quello che aveva fatto e che avrebbe fatto lo metteva in pericolo. Lo esponeva all’Organizzazione e a possibili, anzi certe, ritorsioni. Non era solo una questione di sicurezza. Per Shinichi il solo pensiero che potessero arrivare a lui attraverso una qualsiasi delle persone che lo conoscevano era un cancro che lo consumava giorno dopo giorno, minuto dopo minuto.

Eppure.

Eppure non ce la faceva. Sapeva che avrebbe dovuto tagliare i ponti con tutto, una volta ritornato adulto. Lo aveva sempre saputo. E non ce l’aveva fatta. Non era riuscito a guardare Ran e dirle addio. Non era riuscito a cancellare il numero di Hattori. Non ce l’aveva fatta.

Qualcosa. Qualcosa dentro di lui glielo aveva impedito; lo aveva costretto ad aggrapparsi con tutte le sue forze a quei pochi numeri imparati a memoria, a quei pochi visi che poteva ricordare con una malinconia confortante.

Non ce l’aveva fatta, a dimenticare. A gettarsi tutto alle spalle e continuare da solo la sua fuga. Non ci era riuscito; e non riusciva a perdonarsi.

Perché ogni telefonata poteva essere una traccia lasciata.

Perché ogni incontro fugace poteva concludersi in una trappola.

Perché ogni volta poteva essere un’ultima volta, e Shinichi viveva nella speranza che, se fosse successo, sarebbe stato per lui e non per loro.

Aho” scattò Heiji, afferrandolo per le spalle e strattonandolo. “Aho. Lo abbiamo deciso insieme, ricordi? Io l’ho deciso. Ti avrei aiutato; avresti sempre potuto contare su di me. Te lo ricordi? Kuso, Kudo. Te lo ricordi o no?”

“Me lo ricordo” soffiò Shinichi, senza riuscire ad alzare la testa. “E ricordo anche che hai rischiato la vita, per me, Hattori.”

“Ma sono vivo. L’ho scampata.”

“Sì. Sei vivo” ne convenne. “Ma la prossima?” gli chiese a bruciapelo, con negli occhi il terrore. Con negli occhi la pazzia di provare di nuovo quella paura, di sentire di nuovo le mani viscide di sangue che non si ferma e la voce graffiare nella gola. Con negli occhi il dolore di essere impotente.

“La prossima volta potresti non farcela” continuò affannato. “Guarda Kuroba. È vivo solo per un colpo di fortuna.”

“Allora cercheremo di avere sempre fortuna” scherzò Heiji, strizzandogli l’occhio in segno di complicità.

“Sono serio, Hattori.”

“Anch’io” gli rispose, e in quel tono. In quel tono più basso e maturo; nella piega del volto e nella presa più salda sulle sue spalle. In quello sguardo all’improvviso più maturo e cinico; in quegli occhi senza ombra di ironia e leggerezza, Shinichi vide l’uomo. Vide l’uomo che gli anni avevano creato. Vide la determinazione e la forza che la vita aveva insegnato ad Hattori. Quel coraggio travestito da leggerezza e ironia che gli aveva fatto scegliere il rischio ad una vita su una sedia a rotelle.

Quasi trasognato, Shinichi afferrò una delle mani di Hattori, ancora ferme sulle sue spalle. È salda. Quella mano non stava tremando. Quella mano c’era sempre stata e prometteva di esserci ancora. Quella mano. La stessa che Hattori gli aveva offerto sotto i ciliegi in fiore, una primavera di aprile. Quando le scuse non avevano parole e il rimorso era un nodo in fondo allo stomaco; quando il sorriso di Hattori era l’ancora davanti al suo corpo immobile su una sedia a rotelle.

È salda. Ed è qui.

Cosa c’era negli occhi di Shinichi? Cos’era quel velo di incredulità, quella punta di sorpresa che li attraversava? Heiji gliel’aveva vista una sola volta, in passato. Sotto i petali d’aprile, quando gli aveva offerto la mano e un perdono che Kudo sembrava incapace di accettare. Quando gli aveva detto mi farò operare. Vedrai: non ti libererai così facilmente di me.

Kudo aveva quello sguardo. Lo sguardo del bambino che era stato; lo sguardo di chi non è bravo con i sentimenti e ha paura di fidarsi. Kudo ha quello sguardo: di quando non ci vuole credere, di potersi fidare. Di quando ha paura che dare fiducia significhi ancora farsi del male.

“Sono serio anch’io, Kudogli ripetè, ricambiando la stretta della mano di Shinichi. “È pericoloso? Lo sapevo già. L’ho sempre saputo. Ma non ti mollo, amico. Hai capito? Non ho alcuna intenzione di farlo. Quindi non chiedermelo mai più. Va bene?”

Shinichi annuì.

C’era la forza, negli occhi di Hattori. O forse la sconsideratezza. C’era il desiderio di trasmettergli quella convinzione; quella volontà che nulla sembrava poter scalfire. C’era l’amicizia. Quell’amicizia che non si era preso né il dolore né la distanza; non era stata piegata dagli attriti né dai pericoli. Quell’amicizia che era cresciuta, fra piccole complicità e passioni affini; quell’alchimia di serietà e ironia che esisteva solo fra loro, ambigua e intricata, eppure così salda.

Come la mano di Hattori.

Sono stanco Hattori. Così stanco” sussurrò Shinichi, premendogli la fronte contro la spalla, quasi a sottolineare con quel gesto così inatteso, così estraneo a Shinichi Kudo, tutta la debolezza di quel momento.

“Dormi un po’, allora.”

“Non mi riferivo a quello.”

“Lo so.”

La risata strozzata che sentì sembrava un singhiozzo. Eppure Heiji avvertì il sollievo. Era la prima volta. Nonostante gli anni passati, era la prima vera volta che Kudo gli parlava così, apertamente, senza maschere e dissimulazione. Era la prima, e Heiji sapeva che probabilmente sarebbe stata anche l’unica volta, in cui Kudo cercava davvero il suo appoggio, il suo aiuto. E si accorse dell’abbandono della testa contro il suo braccio; si accorse della stanchezza di ore passate nel dormiveglia, gli occhi chiusi e la mano alla pistola sotto il cuscino. Realizzò il logorio mentale e fisico di mesi passati in fuga, sempre in allerta, sempre pronto a scappare di nuovo. Vide la solitudine nelle ombre scure sotto gli occhi, nel viso scavato e pallido, nell’abbandono sfinito del corpo di Kudo.

Eppure non si era ancora arreso. Non si sarebbe mai arreso.

C’era una pistola, accanto a Kudo. Quella pistola con cui lo aveva salutato anni prima, quando quella fuga era iniziata. Quella pistola da cui Kudo mai si separava, cosciente del pericolo nascosto in ogni ombra. Quella pistola che Kudo gli aveva affidato, in una notte di pioggia che gli era rimasta impressa nelle ossa e nella memoria. Quella notte in cui aveva capito davvero cosa significasse mettersi contro l’organizzazione. Quella notte che era stato un lampo di dolore azzurro e la prospettiva di perdere tutto con il sangue che se ne andava.

Quella pistola. E l’ossessione di Kudo di non cedere.

“Voglio aprire un’agenzia, Kudo” soffiò ad un tratto Heiji, quando ormai il silenzio era il loro respiro ritmico

“Auguri, allora” biascicò Shinichi dal futon. Era caldo, sotto quelle coperte e la presenza di Hattori accanto alle shoji aveva un che di confortante. Quando Shinichi aveva cercato di congedarlo con una scusa, più per l’imbarazzo che per reale volontà di cacciarlo, Hattori aveva risposto sistemando un futon e chiudendo bene le shoji. Non glielo avrebbe mai chiesto, né Shinichi l avrebbe mai confessato, Heiji lo sapeva; eppure era quello ciò di cui aveva bisogno, in quel momento. Una semplice dormita, sapendo, per una volta, di potersi completamente rilassare, si essere davvero al sicuro.

Era strano. Per quanto Hattori fosse sempre stato pronto ad aiutarlo, avesse sempre fatto di tutto per lui, solo in quel momento Shinichi accettò davvero quell’aiuto semplice e discreto che gli dava: il conforto di un letto e la sicurezza di avere le spalle coperte per alcune ore. Anche se Hattori si era preso un proiettile al suo posto; anche se Hattori aveva rischiato la paralisi a vita per causa sua; anche se Hattori si era fatto operare anche per lui. Nulla sminuiva il debito che Shinichi sapeva avere con Hattori, e nulla glielo fece avvertire, forte e presente e costante, come quel momento.

“Forse non mi sono spiegato” sorrise Heiji nella penombra, continuando il discorso incrociando le mani dietro la testa. “Voglio aprila con te.”

Baka.”

“Lo so” acconsentì. “Non è possibile. Non per il momento. Ma un giorno. Chissà.”

“Un giorno” sussurrò Shinichi, rigirandosi nel letto prima di alzarsi a sedere massaggiandosi la fronte. “Certo che ne hai di idee strane, tu.”

Aveva voglia di ridere. Una voglia che gli premeva nel petto come da troppo tempo non accadeva. La voglia di non avere né pensieri né preoccupazioni; la voglia di aprire gli occhi i trovarsi Ran accanto, di baciarla e fare di nuovo l’amore con lei. L’avrebbe svegliata, e l’avrebbe fatta arrabbiare, ma quel pensiero. Il pensiero di stringerla fra le braccia e poi. E poi immaginare. Immaginare davvero un dopo. Immaginare un’agenzia; una collaborazione. Gli anni, i mesi, i giorni. Immaginare giorni senza dover pianificare le mosse, una vita scandita da un routine fatta di casi, lavoro, famiglia. Una routine in cui l’unico pericolo potesse essere non far arrabbiare Ran perché ritardava con il lavoro. Una vita diversa; una vita senza la paura di essere preso; una vita senza essere braccato.

Hattori gli stava regalando un’illusione; forse un’immagine di un futuro.

Gli stava regalando una certezza cui aggrapparsi, un sogno cui aspirare per impedirgli di cedere. Per non lasciarlo andare nemmeno quando, di nuovo, si fossero trovati lontani.

“Però ti piace. Sa Kudo?”

“Sì” sorrise Shinichi. “Mi piace.”

 

  
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