Capitolo 2
Hiro
Esiste una
stanchezza dell'intelligenza astratta
ed è la più terribile delle
stanchezze.
Non è pesante come
la stanchezza del corpo,
e non è inquieta come la stanchezza
dell'emozione.
È un peso della consapevolezza del mondo,
una impossibilità di
respirare con l'anima.
Fernando Pessoa
“Se continui così dovrai metterli
davvero, gli occhiali.”
Heiji lasciò scorrere la fusuma. La penombra della stanza era appena rischiarata dalle
shoji lasciate socchiuse. Si mosse lento, per
abituarsi e evitare di urtare qualcosa. Shinichi era seduto contro lo stipite, gli occhi socchiusi
e documenti ovunque.
“Hakuba lo ha
appena inviato” gli disse, porgendogli il fascicolo con il risultato dei
rilievi e dell’inchiesta sul furto di quattro giorni prima.
“Domo.”
Shinichi lo accettò con un gesto stanco,
iniziando a sfogliarlo alla fioca luce che proveniva dall’esterno, stringendo
gli occhi arrossati.
“Dovresti riposare” lo riprese Heiji,
sedendosi accanto.
“Sì sì” minimizzò Shinichi, continuando a sfogliare il dossier. Gli ultimi
rilievi effettuati dalla scientifica forse gli avrebbero permesso di comprendere
cosa esattamente fosse successo. Confidava nella precisione quasi maniacale del collega, e nella possibilità di ottenere
qualche informazione in più da Kuroba se gli avesse
parlato con una maggior cognizione dei fatti. Avrebbe anche voluto vedere la
scena del furto, certo. Ma era rischioso; decisamente
troppo rischioso.
Come lo era essere a Osaka; come lo era restarsene lì,
seminascosto da una shoji socchiusa a indovinare il
trascorrere delle ore sulla città; ad aspettare un foglio, una parola, una
telefonata. Ad aspettare e pensare. Soprattutto pensare.
“Kudo.”
Le mani libere all’improvviso e il viso di Hattori a pochi centimetri, fra l’irritato e il
preoccupato, furono come cadere. Non se ne era accorto. Né delle parole che
doveva avergli rivolto né del fatto che si fosse fermato accanto a lui.
Credeva. Credeva che se e fosse andato; credeva che la
fusuma fosse stata aperta e chiusa e di trovarsi di
nuovo da solo.
Da solo.
“Non hai ascoltato. Giusto?”
“Hm.”
Heiji sospirò massaggiandosi esasperato
la testa. Lo conosceva; lo conosceva da anni ormai. E
sapeva che quando l’attenzione di Kudo era attratta
da un caso, non riusciva a pensare ad altro, non riusciva
a concentrarsi su altro. Ma questa volta.
Questa volta era diverso, Heiji
lo sapeva. Non era uno dei soliti casi in cui poteva trovarsi coinvolto; uno di
quei casi che lo riportavano indietro, a quando era un ragazzino e li risolveva
con mille attenzioni e una sottile vena di orgoglio. Quasi un
malsano conforto per un ragazzo imprigionato nel corpo di un bambino.
No. Non era nulla di simile. Aveva smesso di essere un gioco da troppo tempo ormai; aveva
smesso di essere solo un’indagine alla giornata da troppi anni. E di Shinichi Kudo, del ragazzo
incontrato per una sfida d’orgoglio; di un ragazzo smascherato e costretto
all’amicizia; di un ragazzo che gli aveva insegnato la determinazione e con cui
era cresciuto. Di quel ragazzo restava solo un uomo dal viso troppo scavato e
con tanta solitudine dentro.
“Haibara è tornata a Tokyo” gli
disse, sedendosi sul tatami. “Ha detto di richiamarla se ci fosse bisogno, ma
non dovrebbero esserci complicazioni.”
“È stato un rischio. Farla venire qui.”
“Sì. Lo so” sospirò Heiji,
socchiudendo maggiormente la fusuma. Nel giardino
della casa, il piccolo laghetto mandava riflessi incerti e un refolo freddo
muoveva appena le foglie. “Ma l’alternativa era
l’ospedale. E lo sai anche tu: sarebbe stato peggio.”
“Non era un rimprovero” soffiò Shinichi,
socchiudendo gli occhi e appoggiandosi maggiormente allo stipite alle sue spalle.
“Ne abbiamo già parlato. Era la
soluzione migliore.”
“Hakuba
ci raggiungerà domani. In serata” continuò Heiji,
studiando di sfuggita l’espressione dell’amico.
“Bene.” Shinichi sollevò
pigramente un foglio, socchiudendo gli occhi, come se la debole luce
dell’esterno lo infastidisse. “Quando arriverà, vedremo di fare il punto della
situazione.”
“E allora dimmi cos’hai.”
“Nulla. Perché?”
Heiji sorrise. Un
sorriso sottile, a metà fra lo scherzo e la delusione. Perché faceva
male. Faceva male vedere come, dopo tutti quegli anni, dopo quanto condiviso,
dopo gli inganni, i sotterfugi, le parole e le promesse, Kudo
ancora cercasse di mentirgli.
Faceva male. E faceva rabbia.
Perché era proprio da
Kudo indossare sempre quella maschera di forza e
sicurezza; era proprio da Kudo cercare di mascherare
le proprie paure e le proprie insicurezze. E addossarsi le colpe. Addossarsi la responsabilità per ogni cosa, procedendo senza
chiedere né aiuto né appoggio.
“Siamo ancora a questo punto, Kudo?”
gli chiese stancamente, stringendo le mani sulle ginocchia.
Quante? Quante volte ancora dovrà costringerlo a quel
discorso, per farglielo capire? Quante volte ancora dovranno litigare e
arrabbiarsi, perché Kudo accetti semplicemente che è stata una sua scelta, quella di seguirlo in
quell’operazione? Quante volte ancora lo vedrà sparire, senza sapere se mai lo
rivedrà? Quante volte una chiamata lo farà tremare, nella paura di ascoltare
dall’altra parte del ricevitore qualcosa che non vorrebbe mai sentire. Quante
volte ancora?
“Sì Hattori. Lo siamo
ancora” sospirò Shinichi.
Perché? Perché non voleva capire? Aiutarlo; coprirlo;
nasconderlo. Ogni parole; ogni gesto; ogni pensiero. Tutto. Tutto quello che
aveva fatto e che avrebbe fatto lo metteva in
pericolo. Lo esponeva all’Organizzazione e a possibili, anzi certe, ritorsioni.
Non era solo una questione di sicurezza. Per Shinichi
il solo pensiero che potessero arrivare a lui
attraverso una qualsiasi delle persone che lo conoscevano era un cancro che lo
consumava giorno dopo giorno, minuto dopo minuto.
Eppure.
Eppure non ce la faceva. Sapeva che avrebbe dovuto
tagliare i ponti con tutto, una volta ritornato adulto. Lo aveva sempre saputo.
E non ce l’aveva fatta. Non era riuscito a guardare Ran e dirle addio. Non era riuscito a cancellare il numero
di Hattori. Non ce l’aveva
fatta.
Qualcosa. Qualcosa dentro di lui glielo aveva impedito; lo
aveva costretto ad aggrapparsi con tutte le sue forze a quei pochi numeri
imparati a memoria, a quei pochi visi che poteva ricordare con una malinconia
confortante.
Non ce l’aveva fatta, a
dimenticare. A gettarsi tutto alle spalle e continuare da
solo la sua fuga. Non ci era riuscito; e non riusciva
a perdonarsi.
Perché ogni telefonata poteva essere una traccia lasciata.
Perché ogni incontro fugace poteva concludersi
in una trappola.
Perché ogni volta poteva essere un’ultima volta, e Shinichi viveva nella
speranza che, se fosse successo, sarebbe stato per lui e non per loro.
“Aho”
scattò Heiji, afferrandolo per le spalle e
strattonandolo. “Aho.
Lo abbiamo deciso insieme, ricordi? Io l’ho deciso. Ti avrei aiutato;
avresti sempre potuto contare su di me. Te lo ricordi? Kuso, Kudo.
Te lo ricordi o no?”
“Me lo ricordo” soffiò Shinichi,
senza riuscire ad alzare la testa. “E ricordo anche che hai rischiato la vita,
per me, Hattori.”
“Ma sono vivo. L’ho
scampata.”
“Sì. Sei vivo”
ne convenne. “Ma la prossima?” gli chiese a bruciapelo, con
negli occhi il terrore. Con negli occhi la
pazzia di provare di nuovo quella paura, di sentire di nuovo le mani viscide di
sangue che non si ferma e la voce graffiare nella gola. Con
negli occhi il dolore di essere impotente.
“La prossima volta potresti non
farcela” continuò affannato. “Guarda Kuroba. È vivo solo per un colpo di fortuna.”
“Allora cercheremo di avere sempre fortuna” scherzò Heiji, strizzandogli l’occhio in segno di complicità.
“Sono serio, Hattori.”
“Anch’io” gli rispose, e in quel tono. In
quel tono più basso e maturo; nella piega del volto e nella presa più salda
sulle sue spalle. In quello sguardo all’improvviso più maturo e cinico;
in quegli occhi senza ombra di ironia e leggerezza, Shinichi vide l’uomo. Vide l’uomo che gli anni avevano
creato. Vide la determinazione e la forza che la vita aveva insegnato ad Hattori. Quel coraggio
travestito da leggerezza e ironia che gli aveva fatto scegliere il rischio ad una vita su una sedia a rotelle.
Quasi trasognato, Shinichi
afferrò una delle mani di Hattori, ancora ferme sulle
sue spalle. È salda. Quella mano non
stava tremando. Quella mano c’era sempre stata e prometteva di esserci ancora.
Quella mano. La stessa che Hattori gli aveva offerto
sotto i ciliegi in fiore, una primavera di aprile. Quando le scuse non avevano
parole e il rimorso era un nodo in fondo allo stomaco; quando il sorriso di Hattori era l’ancora davanti al suo corpo immobile su una
sedia a rotelle.
È salda. Ed è qui.
Cosa c’era negli occhi di Shinichi?
Cos’era quel velo di incredulità, quella punta di
sorpresa che li attraversava? Heiji gliel’aveva vista una sola volta, in passato. Sotto i petali d’aprile,
quando gli aveva offerto la mano e un perdono che Kudo
sembrava incapace di accettare. Quando gli aveva detto
mi farò operare. Vedrai: non ti libererai
così facilmente di me.
Kudo aveva quello sguardo. Lo sguardo
del bambino che era stato; lo sguardo di chi non è bravo con i sentimenti e ha
paura di fidarsi. Kudo ha quello sguardo: di quando
non ci vuole credere, di potersi fidare. Di quando ha paura che dare fiducia
significhi ancora farsi del male.
“Sono serio anch’io, Kudo” gli ripetè, ricambiando la stretta
della mano di Shinichi. “È pericoloso? Lo sapevo già.
L’ho sempre saputo. Ma non ti mollo, amico. Hai
capito? Non ho alcuna intenzione di farlo. Quindi non
chiedermelo mai più. Va bene?”
Shinichi annuì.
C’era la forza, negli occhi di Hattori.
O forse la sconsideratezza. C’era il desiderio di trasmettergli quella
convinzione; quella volontà che nulla sembrava poter scalfire. C’era
l’amicizia. Quell’amicizia che non si era preso né il
dolore né la distanza; non era stata piegata dagli attriti né dai pericoli.
Quell’amicizia che era cresciuta, fra piccole complicità e passioni affini;
quell’alchimia di serietà e ironia che esisteva solo fra loro, ambigua e
intricata, eppure così salda.
Come la mano di Hattori.
“Sono stanco Hattori.
Così stanco” sussurrò Shinichi, premendogli la fronte
contro la spalla, quasi a sottolineare con quel gesto
così inatteso, così estraneo a Shinichi Kudo, tutta la debolezza di quel momento.
“Dormi un po’, allora.”
“Non mi riferivo a quello.”
“Lo so.”
La risata strozzata che sentì sembrava un singhiozzo.
Eppure Heiji avvertì il sollievo. Era la prima volta.
Nonostante gli anni passati, era la prima vera volta che Kudo
gli parlava così, apertamente, senza maschere e dissimulazione. Era la prima, e
Heiji sapeva che probabilmente sarebbe stata anche
l’unica volta, in cui Kudo cercava davvero il suo
appoggio, il suo aiuto. E si accorse dell’abbandono della testa contro il suo
braccio; si accorse della stanchezza di ore passate nel dormiveglia, gli occhi
chiusi e la mano alla pistola sotto il cuscino. Realizzò il logorio mentale e
fisico di mesi passati in fuga, sempre in allerta, sempre pronto a scappare di nuovo. Vide la solitudine nelle ombre scure sotto gli
occhi, nel viso scavato e pallido, nell’abbandono sfinito del corpo di Kudo.
Eppure non si era ancora arreso. Non si sarebbe mai
arreso.
C’era una pistola, accanto a Kudo.
Quella pistola con cui lo aveva salutato anni prima, quando quella fuga era
iniziata. Quella pistola da cui Kudo mai si separava,
cosciente del pericolo nascosto in ogni ombra. Quella pistola che Kudo gli aveva affidato, in una notte di pioggia che gli
era rimasta impressa nelle ossa e nella memoria. Quella notte in cui aveva
capito davvero cosa significasse mettersi contro l’organizzazione. Quella notte
che era stato un lampo di dolore azzurro e la
prospettiva di perdere tutto con il sangue che se ne andava.
Quella pistola. E l’ossessione di Kudo di non cedere.
“Voglio aprire un’agenzia, Kudo”
soffiò ad un tratto Heiji,
quando ormai il silenzio era il loro respiro ritmico
“Auguri, allora” biascicò Shinichi
dal futon. Era caldo, sotto quelle coperte e la presenza di Hattori
accanto alle shoji aveva un che di confortante.
Quando Shinichi aveva cercato di congedarlo con una
scusa, più per l’imbarazzo che per reale volontà di cacciarlo, Hattori aveva risposto sistemando un futon e chiudendo bene
le shoji. Non glielo avrebbe mai chiesto, né Shinichi l avrebbe mai confessato,
Heiji lo sapeva; eppure era quello ciò di cui aveva
bisogno, in quel momento. Una semplice dormita, sapendo, per
una volta, di potersi completamente rilassare, si essere davvero al sicuro.
Era strano. Per quanto Hattori
fosse sempre stato pronto ad aiutarlo, avesse sempre fatto di tutto per lui,
solo in quel momento Shinichi accettò davvero quell’aiuto
semplice e discreto che gli dava: il conforto di un letto e la sicurezza di
avere le spalle coperte per alcune ore. Anche se Hattori
si era preso un proiettile al suo posto; anche se Hattori
aveva rischiato la paralisi a vita per causa sua; anche se Hattori
si era fatto operare anche per lui. Nulla sminuiva il debito che Shinichi sapeva avere con Hattori,
e nulla glielo fece avvertire, forte e presente e costante, come quel momento.
“Forse non mi sono spiegato” sorrise Heiji
nella penombra, continuando il discorso incrociando le mani dietro la testa.
“Voglio aprila con te.”
“Baka.”
“Lo so” acconsentì. “Non è possibile. Non per il momento. Ma un giorno. Chissà.”
“Un giorno” sussurrò Shinichi,
rigirandosi nel letto prima di alzarsi a sedere massaggiandosi la fronte. “Certo
che ne hai di idee strane, tu.”
Aveva voglia di ridere. Una voglia che gli premeva nel
petto come da troppo tempo non accadeva. La voglia di non avere né pensieri né
preoccupazioni; la voglia di aprire gli occhi i
trovarsi Ran accanto, di baciarla e fare di nuovo
l’amore con lei. L’avrebbe svegliata, e l’avrebbe fatta arrabbiare, ma quel
pensiero. Il pensiero di stringerla fra le braccia e poi.
E poi immaginare. Immaginare davvero un dopo.
Immaginare un’agenzia; una collaborazione. Gli anni, i mesi, i giorni.
Immaginare giorni senza dover pianificare le mosse, una vita scandita da un routine fatta di casi, lavoro, famiglia. Una routine in
cui l’unico pericolo potesse essere non far arrabbiare Ran
perché ritardava con il lavoro. Una vita diversa; una vita
senza la paura di essere preso; una vita senza essere braccato.
Hattori gli stava regalando un’illusione;
forse un’immagine di un futuro.
Gli stava regalando una certezza cui aggrapparsi, un sogno
cui aspirare per impedirgli di cedere. Per non lasciarlo andare nemmeno quando,
di nuovo, si fossero trovati lontani.
“Però ti piace. Sa Kudo?”
“Sì” sorrise Shinichi. “Mi
piace.”