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Autore: Kuno84    14/02/2013    10 recensioni
Tutti conosciamo l'esito della battaglia finale contro Safulan. Ma se le cose fossero andate diversamente? Ranma avrebbe combattuto, avrebbe salvato Akane contro ogni evidenza, o più semplicemente si sarebbe lasciato soccombere alla pazzia?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo 13
“Congedo”



Tofu sospirò in silenzio. A così pochi metri di distanza l’intera famiglia Tendo era riunita ad accogliere Akane-chan, eppure non poteva avvicinarsi. Si corresse, non osava avvicinarsi.
Si sforzò di ignorare i movimenti e i dialoghi attorno a lui e indirizzò i propri pensieri a quanto accaduto qualche minuto prima, quando aveva delicatamente risvegliato Ukyo dallo stato di trance in cui era piombata. Aveva immaginato che la ragazza fosse nuovamente entrata in contatto con l’anima di Akane-chan che risiedeva dentro di lei, ma non si aspettava di certo il piglio determinato con cui, recuperata coscienza, aveva affermato di aver preso – anzi, ricordò correttamente, che avevano preso – una decisione e chiesto di far riunire tutti.
Il contenuto della decisione era scontato dal suo punto di vista, nessuno avrebbe mai preteso da Ukyo di sacrificare la propria vita per salvare quella di Akane: ma per questo era ancora più doloroso, perché sapeva che molti dei presenti se l’erano, sia pure inconfessabilmente, auspicato.
E allo stesso modo sapeva che sarebbe dovuto essere lui a comunicare una tale notizia. Non è sempre il medico curante a dichiarare alle persone in sala quando è il momento di arrendersi? E invece non poteva… non osava e se ne rimaneva a prendere ragnatele in un angolo, in piedi accanto a uno sgabello vuoto su cui non aveva minimamente considerato di accomodarsi, con una goffaggine peggiore di quella di un ragazzino al suo primo ballo.
Sono solo un ipocrita…
Aveva avuto un bel coraggio a muovere tutte quelle considerazioni sulla mancanza di autocontrollo di Ranma, quando perfino in una notte come questa era stato almeno un paio di volte sul punto di perdere ogni lucidità di pensiero. Ma non si trattava solo della sua timidezza, non era l’eventualità di un sorriso, di una parola cortese di Kasumi, stavolta, a suscitare in lui il panico.
La causa era quell’altra fantasia che sempre più spesso lo tormentava, nelle notti insonni: l’immagine della donna da lui amata che di colpo abbandonava il suo angelico sorriso, assumeva un atteggiamento aggressivo, lo rimproverava e lo scacciava via dalla casa dei Tendo, da lei, per essere sparito negli ultimi tempi, per non essersi fatto vedere nel momento del bisogno. Per non esserci mai veramente stato, per lei e i suoi cari.
No, basta così, si disse. Scosse da sé quella paura illogica. Poteva ancora riuscirci, se non era costretto ad avvicinarsi. Si limitò a osservare, di nuovo. Da molti minuti, ormai, padre e sorelle stavano chiacchierando come… una famiglia, come se niente stesse accadendo, e però allo stesso tempo i loro volti lasciavano trapelare il segno della consapevolezza. E lui non era nemmeno tra loro a consolarli, a provare a trasmettere forza e speranza alla piccola Akane.
Forse il suo compito era un altro, forse doveva restare davvero in disparte e tentare in tutti i modi di ragionare e trovare una soluzione che le salvasse la vita, nonostante l’ineluttabilità delle parole di Cologne, nonostante l’evidenza. Forse, chissà, poteva perfino riuscirvi.
Ma intanto non osava avvicinarsi, e per questo odiava se stesso con tutta l’anima.


Come mai il dottor Tofu continuava a osservarli da lontano, senza decidersi una buona volta a raggiungerli? Kasumi non riusciva a spiegarselo, così come non comprendeva per quale motivo quel pensiero la stesse tormentando, nonostante le priorità in un momento simile fossero ben diverse.
Intuiva che gli altri presenti, come Mousse e la ragazza in tenuta da ninja, seduti al tavolo della parete opposta, volessero in qualche modo rispettare quel momento così intimo. Poteva giustificare perfino l’assenza della zia Nodoka. Ma il dottor Tofu era loro amico da sempre, di più, aveva tutto il diritto di considerarsi parte integrante della famiglia. E soprattutto ora aveva… avevano bisogno di lui, delle sue parole di conforto, della sua stessa presenza, più che mai.
Strano. Improvvisamente sentiva come un senso di oppressione sul punto di travolgerla, ma non poteva certo permettersi di lasciarglielo fare. La sua sorellina non lo meritava, e dopotutto l’occasione era lieta, non funesta. Quante altre persone avrebbero pregato, scongiurato per un’opportunità del genere? Chi non avrebbe dato tutto per poter parlare di nuovo, ancora una volta… ancora un altro momento… con una persona cara che aveva perduto, come stava accadendo a loro?
Sono una sciocca.
Sbirciò in direzione del dottor Tofu, ma ora lui non c’era, non si trovava più nemmeno nella loro stessa stanza, se n’era andato. Si rimproverò per essersi lasciata distrarre un’altra volta, quindi tornò a rivolgere la propria attenzione alle sorelle e sorrise, imitando come le volte precedenti il sorriso della loro mamma, dolce e rassicurante come lei lo ricordava, e sperando così di mascherare il proprio dolore. Aveva per caso detto dolore?
Già, sono proprio sciocca. Ed egoista.
Egoista, lei, Kasumi, che tutti consideravano l’angelo del focolare: se solo lo avessero saputo! Forse non ci avrebbero creduto nemmeno se l’avesse confessato di persona, eppure era vero. Perché in fondo non riusciva proprio a ringraziare i Kami per la fortuna più unica che rara capitata loro. Tutto ciò cui era capace di pensare era che quel momento non le bastava, che ne voleva un altro ancora. E poi un altro. E un altro. E un altro…


Kasumi le aveva appena rivolto uno dei suoi tipici sorrisi. Si domandò distrattamente se si trattasse di un gesto di circostanza oppure se davvero stesse partecipando con loro a quel battibecco.
“E invece torno a ripeterti che non vedo dove sia il problema.” Disse Nabiki, con l’aria della finta tonta.
“Intendi oltre al fatto che la giacchetta che stai indossando sia una delle mie?” Ribatté usando il suo stesso tono. “E precisamente quella che non trovavo più da nessuna parte e che ti avevo domandato se avessi per caso visto in giro, ricevendo una risposta negativa?”
La sorella fece spallucce. “Mi sarò sbagliata, del resto come pretendi che possa ricordarmi ogni tuo singolo capo di abbigliamento?”
“In effetti hai le tue ragioni”, ammise Akane, “è facile perdere il conto considerando il numero totale di tutti quelli che mi hai… preso in prestito.” Cercò di assumere un’aria indignata mentre proferiva quelle parole, ma dovette invece concentrarsi per non scoppiare in una grossa risata. Come mai trovasse quella situazione tanto esilarante era un mistero anche per lei.
“Suvvia, sorellina, dov’è finito il tuo senso della famiglia? Lo sai che ciò che è tuo è mio e ciò che è mio è tuo. Anche tu puoi prendere i miei vestiti quando vuoi.”
Per poco Akane non si soffocò da sola, sopprimendo lo scoppio d’ilarità. Va bene, forse il motivo le era chiaro. E stava prendendo in seria considerazione l’idea che anche Kasumi stesse trovando tutto ciò davvero demenziale.
“No grazie, no davvero.” Disse, reggendole il gioco. “Non credo che poi potrei permettermi i tuoi… saggi d’interesse.”
Nabiki strizzò un occhio. “Sicura? Immagino che tu non abbia letto attentamente il listino, ho delle offerte davvero vantaggiose per i miei amati consanguinei.”
“Non crederle.” Era la voce di Kasumi, che si era intromessa con una strana espressione tra il serio e il faceto. “Me lo ricordo bene quel listino di favore, ho avuto l’onore di esserne stata la prima vittima.”
Fu troppo. Le uscì una risata e in una manciata di secondi anche Nabiki e Kasumi ne furono contagiate. Ricordò sensazioni già provate anni prima e se ne lasciò avvolgere.
Occorreva che io morissi per ritrovare questo legame?
Raccogliendo il fiato, assaporò il gusto retroamaro di quella rivelazione: era indubbiamente passato troppo tempo dall’ultima volta che lei e le sorelle avevano avuto una tale complicità. Non si punzecchiavano così da quando…


Erano piccole, allora. Le sue bambine innocenti di un tempo lontano, molto prima che Nabiki divenisse così cinica e Akane tanto insicura.
Era accanto alle figlie ma non voleva intromettersi e preferiva ascoltarle in silenzio, sovrapponendo quella scena ad altre simili del passato. Si sentiva quasi sereno, adesso, nonostante tutto, e voleva cercare di registrare nella sua mente ciascuno di quegli istanti.
Per un attimo, sentendola ridere di un riso più controllato rispetto alle sorelle, ma altrettanto sincero, gli sembrò che anche Kasumi fosse tornata magicamente la bambina spensierata che solo lui, forse, ricordava. Ma appunto durò un attimo, un’ombra tornò a segnare il suo volto e Soun se ne dispiacque. Non gli sfuggì che di tanto in tanto, furtivamente, forse sperando che non se ne accorgessero, la sua figlia maggiore aveva gettato lo sguardo verso il resto della sala in cerca di qualcosa… o qualcuno, più plausibilmente.
Già, Soun comprendeva il suo animo maturo e sensibile. Così come aveva ben colto anche la stessa causa di quella preoccupazione, ossia l’assenza di Ranma. Per lui, che così chiaramente davanti a tutti aveva mostrato di sentirsi il vero responsabile di quanto accaduto ad Akane, doveva essere quasi più difficile che per loro.
Anche Akane, a sua volta, sembrava aver deliberatamente evitato l’argomento, ma nei suoi occhi aveva potuto percepire, pur a sprazzi, tra uno scherzo e l’altro con Nabiki, il tipico senso d’ansia e frustrazione della sua terzogenita.
Mi dispiace, piccola mia. Hai preso troppo da me…
E capiva anche questo, ma con amarezza. Il rimorso, la paura di farsi avanti per primi. Aveva vissuto anche lui quei sentimenti durante la propria giovinezza. Eppure, si chiese, era mai possibile che per l’ennesima volta quei due non avessero il coraggio di sistemare le cose tra loro?
Del resto, fino a un mese prima, non vi avrebbe dato poi tanto peso. Quei due ragazzi erano così giovani, e avevano davanti a sé tutto il tempo del mondo. La sorte della palestra poteva aspettare ancora un po’. Le sue speranze potevano aspettare.
E ora, invece, il tempo era proprio ciò che non avevano più a disposizione.
Soppresse il sospiro che gli era sorto spontaneo. Meditò per un momento di intervenire in prima persona e parlare con Ranma, ma poi notò un’altra assenza e questo, d’incanto, lo rassicurò.
Meglio così, pensò, ci avrebbe pensato una persona molto più adatta di lui. Il suo posto era invece lì, assieme alle sue figlie. Annuendo tra sé, tornò a rivolgere loro tutta la sua attenzione, come meritavano.


Lo trovò esattamente dove si aspettava. Non a chilometri di distanza, ma subito dopo aver varcato la soglia principale, appoggiato contro il muro in direzione dei lampioni che illuminavano la strada deserta, con lo sguardo assorto che spaziava in chissà quale genere di pensieri.
Ancora prima di trovarlo, sapeva benissimo che stavolta non era fuggito. Un tempo avrebbe attribuito questo suo intuito al fatto di essere la moglie di un artista marziale; ora voleva tanto sperare, con tutta se stessa, che ciò era semplicemente dovuto al fatto di essere una madre, sua madre.
“Ranma…” Accennò, udendo la propria voce come un timido richiamo, quasi troppo fioco per essere sentito da qualcun altro. Tuttavia lui scosse il capo e si volse a incontrare il suo sguardo, senza dire una parola.
Nodoka si fece coraggio, ricacciò i sensi di colpa che la opprimevano e cercò di non pensare a tutti gli anni in cui non era stata presente per suo figlio. Il passato era passato, ma adesso lei poteva e doveva essergli vicina. Allungò il braccio e mostrò il proprio carico. “Ti ho portato una camicia pulita. Ero sicura che ti potesse servire, dopo che Ukyo-chan stamattina è rientrata in casa indossando la tua.”
Gliela porse e lui la prese e, voltatosi di nuovo nell’altra direzione, accennò a mettersela, lentamente e con fare meccanico.
Nodoka decise di tentare un’altra volta. Forse l’approccio diretto sarebbe stato il più semplice.
“Perché non vieni dentro? Io penso… che farebbe piacere ai Tendo. E ad Akane.”
Ranma smise di abbottonarsi.
“Questo non credo di poterlo fare.” Mormorò, con gli occhi rivolti al cielo. “Cosa potrei dirle? Che mi dispiace di non essere riuscito a salvarla? Che ci ho provato ma non sono stato in grado di fare nulla di buono, che fra una manciata di minuti il suo tempo scadrà e morirà… a causa mia?”
“Non è affatto vero.” Nodoka scosse la testa con convinzione. “Ecco, temo di non aver compreso nei dettagli tutto quanto è accaduto… ma sull’argomento l’anziana signora, prima, è stata molto chiara. Tu hai fatto tutto il possibile e anche di più.”
“E allora? Non è servito a niente, è questo il punto!” Ranma aveva alzato la voce. “E se non fosse stato per me, Akane non sarebbe nemmeno stata rapita e portata in Cina. Safulan e gli altri lo hanno fatto per mettere in difficoltà me. Lo sai quante volte ci ho pensato, in questi giorni? Io…”
“Beh, di sicuro non servirà nemmeno quello che stai facendo ora.” Lo interruppe con tono molto meno accondiscendente di prima. E stavolta le parole le vennero spontanee. “Sappi che tutto questo autocommiserarti non è affatto…”
“Virile?” Ranma sibilò a bassa voce esibendo un sorriso aspro, tagliente come la lama di un rasoio. Mentre una vecchia ferita dentro di lei riprendeva improvvisamente a sanguinare, suo figlio si girò e la guardò negli occhi. “Ho pensato anche a questo, ultimamente. Ti ho evitato per così tanto tempo, terrorizzato dall’idea di tagliarmi il ventre, dando la colpa di tutto a papà, certo, ma soprattutto alla mia maledizione… e ora eccomi qui, guarito una volta per tutte da Jusenkyo. Non mi trasformerò mai più in una ragazza. Ciò mi ha forse reso un vero uomo? No, in questi giorni ho capito che non risponderò mai a quel vostro, tuo ideale… e ho capito anche che non me ne importa proprio niente.” Concluse, senza distogliere lo sguardo da lei, senza alzare il tono eppure lo stesso con aria di sfida.
Non si lasciò intimorire. Era addolorata per quelle parole, sì, ma era pur sempre – nonostante gli anni in cui erano stati distanti, nonostante ogni cosa – sua madre e finalmente ne era del tutto cosciente. Era abituata a soffrire in silenzio, poteva sopportare anche quel colpo. I dubbi e i timori di pochi secondi prima erano un pallido ricordo.
Poggiò delicatamente un dito sulle labbra di Ranma.
“Hai finito? Perché non volevo dire questo. Intendevo solo che il tuo rimanere qui e continuare a punire te stesso non è affatto giusto nei confronti della tua fidanzata.”
Cogliendo l’espressione stupita e leggermente intimidita del figlio, permise che il rimprovero, ora, lasciasse posto a parole più dolci.
“Non hai pensato davvero a lei? Non credi che abbia bisogno di te, in questo momento? Non lasciare che a parlare per te sia il tuo orgoglio. Ranma, voi vi volete così tanto bene. Se davvero tieni ad Akane, non devi restare qui ma entrare dentro e starle vicino. Avete quest’opportunità così unica. Non sprecarla.”
“Ma lei non…”
“Lei non aspetta altro. Credimi, lo so con certezza, gliel’ho letto negli occhi.” Si avvicinò ulteriormente a Ranma e prese lei stessa ad abbottonargli la camicia. Quando terminò, aggiunse con fare più leggero: “Ma forse ora è meglio che tua madre la smetta di fare da tramite tra voi e che vi lasci un po’ di spazio. In ogni caso mi aspetto di vederti al più presto nel salone, va bene?” Lo invitò, per poi voltarsi e incamminarsi verso l’ingresso del ristorante.
Entrando, Nodoka si sentì come sgravata da un grosso peso.
Era sicura di essere stata convincente.
Glielo diceva il suo istinto. E quest’ultimo, poteva affermare tra sé con grande soddisfazione, non aveva nulla a che fare con l’essere la moglie di un artista marziale.


Rimase fermo a guardarla, mentre rientrava con passo deciso ma aggraziato nel Nekohanten.
Forse aveva ragione, forse la cosa giusta da fare era seguire il suo invito.
Quanto poteva mancare all’alba, ormai? Una mezz’ora, forse meno, forse più. Non aveva senso sprecare quel poco tempo prezioso.
All'improvviso pensò che, più di ogni altra cosa, voleva rivedere Akane. Rivederla e confessarle quel pensiero che aveva rimuginato tanto a lungo in quegli ultimi giorni, il rimpianto più grande che non aveva mai smesso di tormentarlo, nemmeno per un istante. Accennò un sorriso, dentro di sé.
Si avviò. E mentre i suoi passi, da cauti, si facevano via via più spediti, ringraziò mentalmente sua madre. Era certo di averla fatta preoccupare molto, nelle ultime ventiquattro ore, e ne era profondamente addolorato, tuttavia era rimasto ancora più colpito dalla forza d’animo che gli aveva appena mostrato, concedendosi perfino un pizzico di ironia.
Si sentì orgoglioso di essere suo figlio. E tuttavia era quanto mai vero: non poteva certo essere lei a fare da tramite per loro. Non ora, non più, si disse: stavolta stava a lui farsi coraggio e affrontare Akane, affrontare l’addio, e pensava queste parole cercando di convincersi con tutto se stesso che fosse giusto così.
Ma proprio allora il pensiero lo attraversò come una scarica elettrica e lo devastò da capo a piedi, mentre ne assaporava in poche frazioni di secondo tutta la sua veridicità.
Combattuto da sentimenti contrastanti strinse i pugni, avvertendo il fastidio delle fasciature e della pelle sbucciata. E infine si arrese e si arrestò, come se si fosse appena scontrato contro un muro invisibile.
Perdonami, mamma…


“Sono davvero felice per te!” Akane era sinceramente convinta delle parole che aveva appena proferito.
Il ragazzo cinese ridacchiò, sistemandosi su un lato con un gesto istintivo della mano la frangia bagnata dei capelli. Dal momento in cui si era unito a loro la conversazione era diventata piuttosto povera di argomenti: Mousse si era mostrato irrigidito e a disagio, forse temendo di dire qualcosa di inopportuno, forse intimidito dalla strana situazione, anche se Akane aveva apprezzato molto il suo gesto.
Erano cambiate davvero tante cose dai tempi in cui le aveva affibbiato il ruolo di ‘posta in palio’ del duello tra lui e Ranma, per non parlare di quella volta che l’aveva rapita con la minaccia di trasformarla in papera.
Tuttavia, quando il ragazzo vestito di bianco ebbe interrotto il silenzio che si era creato negli ultimi minuti, sbuffando come rassegnato per poi andare a prendere il vaso di fiori che stava sul tavolo vicino, Akane aveva immaginato per qualche istante che volesse assumere lui la sua forma maledetta e volare via da lì per sottrarsi a quell’imbarazzo.
Ora, cessata la sorpresa iniziale, trovava perfettamente logico che Mousse, pur essendosene rovesciato il contenuto per ritrovarsi inzuppato fradicio, fosse rimasto umano.
La spedizione in Cina era almeno servita a qualcosa di buono, notò con una punta di amarezza.
“Ti ringrazio, Akane Tendo. Comunque non si tratta soltanto di me.” Specificò proprio allora il suo interlocutore. “Siamo tutti quanti guariti dalle nostre maledizioni, compresi Ranma e Ryo…”
“Mi perdoni tanto, signorina Akane!” Scongiurò la voce acuta di Konatsu, coprendo le parole dell’altro. Il giovane kunoichi che prestava servizio da Ukyo doveva essere insieme a loro già da un po’, a giudicare dalle facce poco sorprese degli altri, ma francamente Akane non si era accorta della sua presenza. “D-deve sapere che, prima, ho fatto una scenata imbarazzante, scandalosa. È stato più forte di me… vede, non volevo che accadesse qualcosa di male alla signorina Ukyo. Ma-ma questo non vuol dire certo che io volessi che qualcosa invece accadesse a lei, perché…”
“Ho capito.” Lo placò con un cenno della mano e un sorriso, sebbene non avesse compreso alcunché di quello sproloquio. E aggiunse con più sincerità: “Stai tranquillo, non me la sono affatto presa.”
“Akane, cara.” La voce familiare della signora Nodoka la fece voltare. La stava guardando con una dolcezza disarmante, e per un attimo Akane pensò alla mamma. “Credo ci sia qualcuno che vuole parlare un momento a quattrocchi con te.” E detto ciò le prese la mano e accennò a guidarla in direzione dell’ingresso.
Esitò, cercando con lo sguardo papà e le sue sorelle. Trovò i loro volti assenzienti, che la invitavano ad andare. D’un tratto capì che era ora, che non poteva continuare a indugiare, e nello stesso tempo avrebbe voluto che i minuti appena trascorsi fossero potuti durare per sempre.
Akane si lasciò dunque trascinare, ma il cuore aveva preso a batterle forte.
Dentro di sé, dovette ammettere, era perfino intimorita. L’ultima volta che l’aveva visto, dopotutto, lui l’aveva fissata come una perfetta estranea.
Un’altra parte di lei, però, seguiva bramosamente la zia Nodoka e non vedeva l’ora di arrivare a destinazione, timorosa che ci stessero mettendo troppo tempo. Come quando si insegue l’arcobaleno e però, per quanto veloci si corra, questo puntualmente svanisce prima di aver raggiunto la linea dell’orizzonte.
Percorsero il corridoio per secondi che le parvero un’eternità, mentre dietro di sé udiva i passi solerti di amici e familiari.
Finalmente la signora Nodoka aprì la porta, per poi arrestarsi e tentare di reprimere un sussulto, senza riuscirci.
Akane si affacciò a sua volta, desiderosa di scoprire la causa di una tale reazione, e poté appurarlo anche lei.
In fondo al suo cuore, non fu una vera sorpresa constatare che l’uscio era deserto e che di Ranma non v’era alcuna traccia. Ma fu stranamente proprio in quel momento che sentì di cogliere appieno l’angoscia straziante della sua situazione. Fu allora che si sentì una condannata al patibolo.

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Il prossimo capitolo sarà anche l’ultimo. Sì, avete capito bene. Ed essendo già stato scritto i tempi di aggiornamento saranno rapidi, per cui non ho altro da aggiungere se non che vi aspetto per il finale!


   
 
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