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Autore: PinaProser95    18/02/2013    4 recensioni
Una leggenda cristiana narra di un cardellino che tentò di strappare le spine dalla corona del Cristo crocifisso e ne rimase trafitto a sua volta, macchiandosi il capo con il proprio sangue e con quello del Messia.
Per quel che posso dire conobbi la verità solo nel 1359, che ricorderò per sempre come l'anno di madamoiselle Jaqueline e del diavolo che la uccise davanti ai miei occhi.
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3 Agosto 1382
Aucey La Plaine, Normandia


Viva il Sangue di Gesù Cristo

Eccellenza Reverendissima,

come accordato, Vi invio la presente per comunicarVi che la bambina è nata: non posso ragionevolmente esser sicuro che sia lei, ma in cuor mio non ho più dubbi. Quel viso di infante è innocente come se null'altro fosse che una povera orfanella, ma il suo sguardo non mente e si ravvisa non esser pianta di questo Terreno.
Confido che ci sia ancora speranza per noi figli di Dio, anche se in ragione delle mie incertezze sono di tutt'altro avviso, e mi dispero: temo per i miei fratelli e le mie sorelle, temo per la sacralità di questo istituto. Temo per la salvezza dell'anima mia stessa.

Possa Dio perdonarci e darci la forza di ultimare il nostro ufficio, prima che il Principe di questo Mondo erediti la sua corona di spine.
Prego Vostra Eccellenza di voler accogliere le espressioni della mia filiale devozione e raggiungermi al più presto: la croce che mi attende è troppo pesante per la mia sola Fede.

Tanto Vi dovevo e con segni di vera stima e rispetto mi prostro al bacio del Sacro Anello e mi dichiaro
di Vostra Eccellenza Reverendissima.

Vostro umilissimo servo,
Padre Bernard Turstin.


A Monsignore
Raoul de Lamps
Vescovo di Pontorson


Ripongo la lettera nel cassetto.
O Gesù Redentore, possa la mia goccia di sangue, unita al tuo, giovare alla redenzione del Mondo.
Chiudo gli occhi e dormo di un sonno profondo.




Nel Nome del Padre

(Prima Parte)


Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo.
Mi appello alla misericordia del Signore di noi tutti e lo prego perché mi dia la forza e la lucidità per rievocare gli avvenimenti dell'anno 1359 e quel di cui i miei occhi furono testimoni omertosi, offuscati da bassi istinti, affinché il mio mortale peccato non abbia più occasione di ripetersi nei tempi a venire.
Ho implorato il Suo perdono per tutte le sere che seguirono e continuerò a farlo finché il mio corpo non troverà la pietosa fine della carne guasta, secondo il Suo volere.
Comincerò dall'inizio, come si deve ad una storia che meriti la giusta attenzione, e per ordine comincerò dal mio nome.


Mi chiamo Bernard Turstin.
Nacqui a Servon, nel 1325, dall'errore di una madre ingenua e troppo giovane per rendersi conto della vita che portava in grembo. Mi gettò come una vergogna tra gli scarti di una conceria di porto e, fin da subito, in quel luogo fetido, imparai a riconoscere odori e avanzi di una civiltà che non mi apparteneva ancora, ma che, presto, sarebbe diventata il mio gregge.

Con il primo respiro inalai i fumi della lisciva e i vapori dell'alcool, e mi aprii ad un mondo che sapeva di sangue e frattaglie, di feci e carne bruciata: la mia esistenza iniziò proprio lì, in un umido letamaio, tra i miasmi della morte.
Fui salvato da un macellaio che udì il mio pianto mentre scaricava in mare le rigaglie della sua giornata, scure e marcescenti come quelle di sempre. Mi afferrò per un piede, mi scrollò come un budello inanimato e, guardandomi negli occhi, vide che invece erano pieni di vita, ed ebbe pietà di me. Non era raro trovare neonati indesiderati in un posto come quello, l'unico abbastanza caldo da permettere ad un infante di sopravvivere quel tanto che bastava perché il suo primo vagito non fosse colto solo dal gelido inverno.

Così fui lavato dal sangue che mi ricopriva, oltre a quello di animale, anche da quello di mia madre e l'unico contatto che ebbi mai con lei fu risciacquato dal mio corpo e sparì per sempre nello scarico di una fogna a cielo aperto.


Come la maggior parte degli orfanelli di Servon venni affidato alle cure delle Sorelle del Précieux Sang de Notre Seigneur e nel loro istituto di carità passai i primi sedici anni della mia vita. Appresi a leggere e scrivere, a pregare e a ringraziare Dio per la mia miseria. Sperimentai la compassione cristiana e fui rapito dai misteri di una Fede che per me era insieme gioia e dolore, amore e odio, affascinato e turbato allo stesso tempo da quel dissidio irrisolvibile che riusciva a suscitarmi nel profondo.

Nei primi mesi del 1350 decisi di accogliere la mia vocazione, pur con tutti i dubbi e le incertezze che mi appesantivano lo spirito, e mi unii all'Ordine dei Frati Minori Conventuali, i Cordeliers della Normandia. I monaci mi insegnarono tutto ciò che mi fu permesso da età e passione e, cinque anni dopo l'ingresso nell'Ordine, tornai all'orfanotrofio e aiutai le Sorelle a gestirlo con tutto me stesso, comprendendo immediatamente che il mio destino mi chiedeva di restituire ai più bisognosi parte di quella misericordia che Dio, nella Sua infinita bontà, mi aveva concesso.

Seguirono anni molto difficili, sia per me che per il paese. Guerra e pace si alternarono con costanza, ma in modo tale che ad un occhio attento, e che soprattutto fosse incredulo nei confronti della parafrasi politica del momento, non sfuggisse quella sottile connessione di interdipendenza che l'una aveva con l'altra, come se in questo mondo non abbiano altra scelta che quella di coesistere, il Bene e il Male incarnati in una dicotomia terrena e apparentemente inestirpabile. E anche quando il nemico non fosse arrivato da oltre i confini, per quanto labili e privi di una definizione concreta potessero essere, si era costretti a diffidare della propria gente, martoriata in casa propria più dei soldati in terra straniera e nelle cui viscere già ribolliva il germe dell'insurrezione, pronto per esplodere e sommergere i potenti, o chi tale sembrasse, sotto una schiumante marea di pus virulento. Le rivolte intestine che seguirono rischiarono di sventrare l'intera Normandia. Ricordo la prima ribellione contro le imposte a Rouen, come fosse ieri. Vedo ancora i corpi lungo le strade, lasciati per giorni ad imputridire nel fango come spazzatura. Vedo il sole sorgere e tramontare nei loro occhi vitrei, svuotati dalla morte e dimentichi della vita che una volta racchiudevano.

In tutto ciò tentai con ogni mia forza di scorgere l'ombra sfuggente di un disegno provvidenziale, perdurando in un logorante sforzo intellettivo il quale, tuttavia e ben presto, si dimostrò essere solo una vana macchinazione di logica, che in ultimo nulla può e niente sa per far luce sui profondi misteri della teologia; a me non restò così altra strada che quella di proseguire nella mia missione terrena lasciando perdere le domande del cielo e, come se nulla fosse, rinunciare ai fin lì inutili tentativi di conciliare l'amore divino con il sangue versato e sprecato sulla mia terra, di cui ero ancora, e ancora sono, perdutamente innamorato. Ma più gli anni passavano e più non potevo che domandarmi quale ruolo giocasse davvero l'Onnipotente nell'esistenza delle sue creature.
E così, la crisi che imperversava all'esterno trovò modo di riflettersi negativamente sulla mia stessa fede, alla quale tutto il mio essere si trovava allora appeso in grazia a un filo che, poco a poco, diventava sempre più sottile; e sebbene in diversi momenti della mia vita sentii quella presa allentarsi pericolosamente, mai fui tanto sicuro di averla persa come nell'inverno del 1359.


Il 1359 fu l'anno della peste bubbonica e di madamoiselle Jaqueline; quest'ultima bussò alla porta del mio istituto in una fredda mattina di Novembre.
Se chiudo gli occhi posso ancora sentire i passi di sorella de Mere affrettarsi per le scale e la sua voce fanciullesca, preda di un mal ostentato panico, irrompere nella mia stanza.


-Padre Bernard?
Ricordo che quando mi fece cenno di seguirla, con quel gesto frettoloso e mal controllato della mano, capii che fosse successo qualcosa di serio e, trascorso un qualche breve istante, uscimmo dal portone di ingresso.
Prima ancora di aver dato un senso alla situazione, fui investito da una sferzata di vento gelido, nel quale avvertii, sebbene in parte ammansiti dalle basse temperature, gli effluvi di porto e tutte quelle altre esalazioni che si trascinava dietro passando dal mare alle concerie, dal macello al mercato del pesce, e tra le quali, con un fondo leggermente dolciastro, quello che non poteva essere altro che un primo presagio di ciò che presto mi sarei trovato davanti. E, infatti, girato l'angolo dell'edificio, proprio in prossimità dell'orto dove non cresceva più niente da qualche mese, vidi il motivo per il quale sorella de Mere venne a chiamarmi con così tanta fretta.

Sul terreno bruciato dal freddo qualcuno aveva faticosamente trascinato una carriola di ferro battuto. Le ruote malconce e infangate erano mezze sprofondate sotto il peso di ciò che vi era stato gettato dentro, di cui un braccio inanimato e sporgente dal resto era un incontrovertibile indizio.
Ci avvicinammo per liberarci da ogni dubbio e quel che vidi fu il cadavere di una donna.
Era stata adagiata su un fianco, le ginocchia raccolte al petto, in una posizione in cui non potei non riconoscervi l'angosciante imitazione di un infante nel grembo materno.
In aggiunta a questo, il volume di spazio non occupato dall'esile e denudato corpo della ragazza era colmato da una spaventosa quantità di sangue fumante, tanto che la povera sembrava galleggiarvi dentro come in una tinozza. I suoi capelli ne erano intrisi e si diramavano seguendo le forme di un corallo scarlatto.

Poi, quella mano smorta che pendeva fuori dalla carriola mi afferrò per un braccio, e un corpo che solo qualche attimo prima sembrava privo di vita iniziò ad urlare con quanto fiato aveva nei polmoni.


Portammo immediatamente la ragazza dentro le mura dell'istituto e io rimasi ad aspettare fuori dalla porta della lavanderia, attraverso la quale potevo comunque sentire il vociare di sorella Flavienne e sorella Claudine, mentre si affaccendavano nelle prime cure della poverina.
Mano a mano che i minuti trascorrevano, il panico che traspariva dalle loro parole nei primi istanti cedette il posto ad un tono più calmo e sollevato, che sortì il medesimo effetto rassicurante anche su di me.

Mi fu permesso di entrare solo dopo qualche interminabile minuto. Le care sorelle del Précieux Sang de Notre Seigneur avevano mondato la giovane dal sangue, smacchiato la sua pelle, datole dei vestiti puliti e asciutti, e io fui finalmente in grado di vederle i capelli, ora lavati e rilucenti di porpora naturale.
Mi apparve in quel momento in tutto il suo innocente splendore, levigata e avvolta dalla stessa luce che improvvisamente sembrava mancare dal resto della stanza. L'attraeva su di sé, e così il mio sguardo. Un diamante nel buio.
Una sola parola allora mi passò per la mente. Rinascita.

Mi avvicinai a lei, allietato.
-Come vi chiamate, madamoiselle?
Poi, vidi i suoi occhi.
-Jaqueline

Uno azzurro. L'altro nocciola.


Ultimamente non è raro che io mi ci imbatta ancora, nei suoi occhi, illuso da un gioco di luce e ricordi che si combinano tra loro in modo tale che io non possa più distinguere ciò che è vero da ciò che invece è solo eco della mia memoria, e sulla lingua non mi rimane nient'altro che la fiele amara del presentimento appena avvertito.
Li vedo traballare in una fiamma, danzare tra i riflessi di una pozzanghera, oppure impossessarsi dello sguardo di un mendicante e supplicarmi attraverso i suoi, di occhi, un attimo solo, prima di abbandonarlo in grembo a una sfuggente lacrima.
Mi perseguitano tutt'ora, demoni evanescenti di un passato ancora troppo vicino perché ceda il passo una volta per tutte.

Madamoiselle Jaqueline, forse per caso, ma io credo più probabilmente per destino, incrociò quella mattina il suo cammino con quello stesso che passava per il mio caro istituto di carità, che in sé già raccoglieva le sorti del sottoscritto e delle sorelle del Preciéux Sang. Quando qualche tempo dopo ci rendemmo conto, ripensando al momento in cui trovammo Jaqueline nell'orto, mezza congelata e ricoperta di sangue, di come quell'accadimento fosse in realtà riuscito a porsi come spartiacque tra due periodi ben distinti delle nostre esistenze - nel primo divise, poi saldamene intrecciate -, ad unirci e a vincolarci creando un continuum che ci raccordasse in modo che le sfortune di uno producessero conseguenze percepibili anche dall'altro, quando appunto ce ne accorgemmo non rimanemmo meno stupiti di chi, aprendo un cassetto per pulirne il contenuto, vi ritrovi una matassa dimenticata di stringhe, disgiunte un tempo e ora inspiegabilmente annodate.

Come ho già detto, il 1359 fu anche l'anno della peste bubbonica.
A solo qualche settimana dalla sua comparsa, le nostre porte dovettero aprirsi alla straziante moltitudine di orfani a cui la malattia aveva strappato entrambi i genitori. Ahimè, non che il morbo avesse qualche preferenza per gli adulti, perché a dirla tutta furono soprattutto i corpi dei bambini a riempire fino all'orlo le fosse comuni, e noi ci ritrovammo a combattere contro un nemico invisibile che se fosse riuscito a raggirare tutte le nostre precauzioni per tenerlo fuori dalle mura del mio istituto, avrebbe distrutto buona parte di quel futuro di Servon che avevamo promesso di proteggere.

Jaqueline svolse un ruolo essenziale in tutto questo. Non volle mai unirsi all'ordine delle sorelle del Precieux Sang, ma desiderò comunque prestare i suoi servizi alla gestione dell'orfanotrofio, forse perché sentiva il dovere di sdebitarsi con qualcuno, o forse perché non aveva nessun altro posto in cui andare, ma comunque fosse, in quel che fece per noi e per i bambini dimostrò un'esperienza ed un controllo straordinari, cosa che contribuì ad infittire il mistero che la riguardava.
Già, perché benché si ricordasse il nome con cui era stata battezzata, Jaqueline non conservava il minimo ricordo delle proprie origini. Per quanto si sforzasse, stimolata anche dalle mie continue domande, non riusciva a ricordare niente della sua famiglia o del suo passato, remoto o recente, compresi gli eventi che la condussero al nostro orto.
Soprattutto non seppe mai dirci nulla del sangue che la ricopriva quando la trovammo nella carriola, né da chi provenisse, poiché in lei non trovammo alcun trauma o lacerazione che ne potesse giustificare una perdita così ingente.
In quel suo esordio, a cui più pensavo e più questo assumeva i tratti del miracoloso, mi parve col tempo di riconoscervi l'ombra di un progetto divino: mai nella mia vita mi discostai tanto lontano dal vero, ora posso dirlo con certezza.

Perché capiate ciò che intendo, occorre che adesso io vi narri di quella parte della vita di Jaqueline di cui lei pareva allora essersi dimenticata, ma che io ebbi modo di conoscere in seguito, grazie ad eventi che forse avrò modo di chiarire più avanti nel racconto.
Per farlo, concedetemi quindi di abbandonare per un attimo l'orfanotrofio e la peste, e accompagnatemi attraverso la piana ghiacciata che separa Servon dal villaggio di Cancale.

  
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