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Autore: iam_theinsecure    18/02/2013    2 recensioni
" Ho passato questi ultimi 3 anni a fissare la mia vita non muoversi nemmeno di un millimetro, a vederla rimanere immobile e diventare noiosa. Sono come un giocattolo rotto dimenticato dal proprio bambino.
Sospesa.
Quella parola mi era passata per la testa per un'intera settimana.
La mia vita. Era. Sospesa.
Sospesa ad un filo che non si sarebbe mai spezzato, ad un filo che non è mosso dal vento, ad un filo immobile, che non si muove.
Non sono triste. Non sono nemmeno felice se è per questo.
Solo... sospesa. "
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jay McGuiness
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Black walls -



Un messaggio. Di Jay.
 
 
 
Non ero abituata ad avere numeri sul cellulare e non ricordavo affatto con quale freddezza mi fosse venuto in mente di memorizzare il suo numero con una semplice lettera “ J ”.
 
Che cosa senza senso.
 
 
Innervosita presi il cellulare, frettolosamente finii sulla rubrica e cambiai quella J maiuscola con un “ Jay ” ed esitai…
 
 
Wow.
 
Io che ho il numero di telefono di un ragazzo su un cellulare…
 
Impensabile, ma vero.
 
 
Salvai la modifica e poi posai il cellulare sul comodino, scordandomi completamente di dover rispondere.
 
Avevo una voglia matta di farmi una doccia e non riuscii a resistervi.
 
Scesi il piccolo condizionatore per bagno da sopra il mobile dello specchio, rimanendo sommersa in una montagna di polvere fastidiosa che mi si infilò in posti impensabili, sotto il pigiama.
 
Era da troppo tempo che non pulivo in questo appartamento: i pochi millimetri di polvere erano diventati spessi e pesanti tappeti grigio-bianchi.
 
Ma lasciai perdere quella piccola ‘ me Biancaneve ’ che mi gridava insistentemente “ pulisci, pulisci ” ed aprii il rubinetto della vasca, aspettai che ne uscisse acqua bollente e poi lasciai che la vasca si riempisse, tappandole il buco.
 
 
Uno squillo di telefono.
 
Jay che si aspettava una risposta e che aveva deciso di chiamare per sapere se ero ancora viva?
In effetti erano ormai passati due giorni dall’ultima volta che ci eravamo visti.
 
 
È proprio vero che devi riuscire a toccare il fondo per poter trovare la forza sovrumana che serve per tornare in superficie.
 
E io purtroppo ci ero rimasta, su quel fondo, e pure per troppo tempo.
 
 
Il fondo… l’unico posto di cui mi sentivo all’altezza…
 
 
Come mio solito, stavo lasciando che la marea di pensieri mi investisse completamente, dimenticandomi anche dello squillare insistente del mio cellulare.
 
 
Lo alzai controvoglia aspettandomi il nome di chiunque a lettere cubitali.
 
E invece era mia madre…
 
 
Feci un lungo sospiro, lasciando che la fragranza alla vaniglia del bagnoschiuma che avevo versato nell’acqua bollente mi riempisse le narici, arrivando fino alla gola e scatenando lo straripare della saliva che mi riempì la bocca fino a costringermi a deglutire.
 
 
<< Pronto? >>
 
<< Violet… sono io… >>
 
Parole strascicate venivano fuori da una bocca impastata e continuamente secca…
 
Ecco, era ubriaca, di nuovo.
 
<< Mam… hai bevuto… sei ubriaca… >> dissi, dispiaciuta.
 
Lo ero ogni volta che la trovavo con il busto completamente steso sul tavolo di marmo della cucina, aggrappata con il braccio destro ad una delle tante bottiglie che nascondeva da qualche parte, chissà dove, in casa nostra.
 
<< Tuo padre se n’è andato, hai capito? Nemmeno lui mi vuole più… sono un mostro e merito di essere sola >>
 
E c’era voluto l’alcol per capirlo?
 
Ma certo… da ubriachi la verità fa meno male, ma è quando si torna lucidi che si torna ignoranti, che si torna a rinnegarla.
 
<< Kay dov’è? Non gli avrai fatto del male… >>
 
Il mio cuore batteva all’impazzata.
 
Avevo una terribile paura della risposta a quella domanda, ma dovevo saperlo comunque.
 
<< È proprio di Kay che voglio parlarti… devi venirlo a prendere, Violet. Non sta più bene con me… >>
 
<< Ne parli come se fosse un semplice animale domestico, che puoi benissimo scaricare ad un’altra famiglia quando vedi che tu non sei più capace di prendertene cura… Ha bisogno di sua madre e io non lo sono… no, giusto. Io sono meglio… >>
 
Quelle parole l’avrebbero ferita più di qualsiasi altro insulto, ma era giusto che si rendesse conto di ciò che era.
 
Non mi interessa avere compassione e pena per qualcuno che non ne ha avuta per niente con me.
 
<< Vienilo a prendere… >> e poi sentii il suono di qualcosa di liquido che veniva versato e lo schiocco della bocca di una bottiglia che si staccava da un paio di labbra.
 
 
Riattaccai.
 
Al diavolo la doccia calda.
 
Tiravi via il tappo della vasca, lasciando che tutta quell’acqua bollente mista a bagnoschiuma sprecato venisse aspirata dallo scarico.
 
Mi spogliai in fretta, sudando.
 
 
Fa davvero caldo…pensai.
 
 
Tirai dal filo la presa del condizionatore vedendo una piccola scintilla accendersi vicino alla spina.
 
Mi infilai comunque nella vasca, aprendo il rubinetto per farmi la doccia.
 
Resistetti sotto l’acqua bollente, troppo svogliata e pigra per regolarla ad una temperatura accettabile.
 
 
Muoviti. Muoviti.
 
 
-
 
 
Grazie a Dio erano passati a malapena quaranta minuti dalla chiamata quando finalmente arrivai davanti a quella che una volta era casa mia.
 
Quando Geneeve mi chiedeva se mi mancasse casa mia le avevo risposto sempre con un “ ma certo che mi manca… ci sono cresciuta in quel posto ”.
 
Ma non era vero…
 
Non era tanto quell’edificio a mancarmi, quanto quello che ero stata tra quelle quattro mura.
 
 
Ero stata una piccola e minuscola neonata pestifera, che non faceva che piangere e gridare ad ogni suo bisogno.
 
Ero stata un’altrettanta piccola e maldestra bambina, che tornata dall’asilo preferiva restare a casa accoccolata al proprio cane, Rufus, ad imbottirsi di cartoni animati piuttosto che uscire in giardino a giocare, come il resto dei marmocchi della sua età.
 
Ero stata una cicciotella ed insicura ragazzina delle medie, sempre pronta ad imbottirsi di merendine e ancora e ancora di televisione.
 
Ero stata un’introversa ragazzina delle superiori, con i propri problemi di disordine alimentare e autolesionismo, che preferiva restare tutti i pomeriggi attaccata alla tv piuttosto che andare, come i suoi zii le avevano consigliato, da uno psicologo che puntualmente ogni pomeriggio chiamava i suoi genitori per informarli della sua assenza.
 
 
Inventavano sempre qualche scusa stupida con lo psicologo.
 

“ La scusi, ma ha avuto parecchio da fare con la scuola. ”

“ La scusi, ma non sta molto bene ultimamente. ”

“ La scusi, ma è stata invitata da un’amica per un gruppo di studio. ”
 

Erano tutte menzogne, ma quello era l’unico loro compito: cercare scuse per me.
 
Sapevano fare solo quello, mentre la loro unica figlia femmina cresceva da sola.
 
 
Scesi dall’auto ed entrai in giardino, percorrendo la passerella di pietra.
 
La cuccia di Rufus, vuota e impolverata dal passare del tempo.
 
Rufus era morto quando me n’ero andata io.
 
Soffrì troppo per la mia mancanza, mi disse mia madre, ma non era quello il motivo.
 
Senza di me non c’era più nessuno che se ne prendesse cura come facevo io, non c’era più nessuno ad amarlo e l’amore incostante di Kay non poteva bastare ad un cane che ormai era diventato vecchio e stanco.
 
 
Suonai il campanello…
 
Fuori faceva talmente tanto freddo che le mie mani intorpidite mi duolevano ad ogni movimento.
 
 
<< È aperto! >> mi urlò mia madre, meno ubriaca, ma non ancora del tutto sobria.
 
Girai la maniglia e con un cigolio entrai, finalmente…
 
 
<< Tu adesso salirai di sopra, prenderai Kay e tutte le sue cose e lo porterai via. Io sarò nascosta da qualche parte. Devi dirgli che sei venuta per portarlo in un posto sicuro e che andrà tutto bene… devi farlo sentire al sicuro, chiaro? >>
 
Parlava da madre responsabile che ha a cuore, più della propria, la felicità di suo figlio.
 
 
Finge davvero bene… le stavo quasi per credere.
 
 
Salii le scale ed esitai davanti alla porta della camera di mio fratello, guardandomi un attimo intorno ed accorgendomi che nulla era cambiato dall’ultima volta.
 
Voltai le spalle a quella porta a cui mi appoggiai e come se avessi corso per ore, il respiro accelerò alla vista della porta rosa della mia di stanza.
 
 
Fuori era rosa, ma dentro era nera, come le pareti.
 
Ricordo ancora il giorno in cui dipinsi l’intera stanza di nero, con una vernice che comprai con i soldi delle paghette ricevute in tre mesi.
 
 
Avevo quindici anni…
 
Un sabato, arrabbiatissima senza un motivo apparente, cominciai a fantasticare, fissando le pareti rosa antico della mia stanza.
 
Odiavo quel colore con tutta me stessa, ma prima di quel giorno non ero mai stata tanto coraggiosa da ridipingerle di mia iniziativa con un colore che a me piacesse.
 
Poi le immaginai nere e buie come la notte e l’idea mi piacque talmente tanto che presi tutti i soldi che avevo messo da parte, andai alla ferramenta, a due isolati da casa mia, e finalmente la comprai.
 
Un’intera. Latta. Di. Vernice. Nera.
 
La nascosi nello zaino, anche se sapevo benissimo che in casa non ci sarebbe stato nessuno fino all’ora di cena, e, salendo le scale facendo attenzione a non fare rumore, mi chiusi a chiave in camera mia, alzai la musica al massimo e mi misi a dipingere per intero tutta la mia stanza, compreso il soffitto, arrampicandomi sui mobili.
 
Per qualche giorno i miei non se ne accorsero nemmeno: non erano soliti entrare in camera mia, ma quando lo scoprirono andarono su tutte le furie.
 
Ricordo la soddisfazione nel vederli urlarsi contro per colpa mia: da un lato mio padre che continuava a dire che io con le mie cose potevo farci quello che volevo, sicuro che tra qualche settimana li avrei implorati di ridipingere la mia stanza al suo colore precedente, dall’altro mia madre completamente fuori di sé che gli rimproverava di essere sempre stato troppo permissivo con me e Kay.
 
Era solo un pretesto per rinfacciarsi torti che avevano tenuto nascosti per troppo tempo.
 
Alla fine i litigi finirono per diventare silenzi profondi e carichi di tensione, muri insormontabili che nessuno nemmeno tentata di scavalcare.
 
E io, soddisfatta, ottenni ciò che volevo.
 
 
 
Chissà se le pareti sono ancora nere…

  
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