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Autore: LilithJow    19/02/2013    4 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 7
"Bittersweet"


Bloccato.

Paralizzato, dalla testa ai piedi, tanto che sembrò che il mio cuore si fosse fermato, insieme al respiro.
Stavo fermo, con le braccia lungo i fianchi, a fissare gli occhi spalancati di Jason, vuoti, senza espressione. Le urla, fuori dalla sala del ballo, non erano cessate. Regnava il caos e il panico, sia fuori che dentro di me. La morte faceva quell'effetto un po' a tutti.

«Simon!». La voce di Johanna mi fece sobbalzare. Mi girai di scatto e la vidi venirmi incontro, di corsa, finché non si buttò su di me, circondandomi il collo con le braccia. «Sei qui» sussurrò.
Portai lentamente le mani sui suoi fianchi e socchiusi gli occhi. Lasciai che il suo profumo alla vaniglia mi inebriasse e riuscì anche a tranquillizzarmi, almeno un po'.
«E' morto» biascicai, come se fosse necessario dirlo ad alta voce per realizzare quanto fosse vero. Johanna si staccò da me, scuotendomi appena. Io non mi ero nemmeno reso conto di aver cominciato a tremare.
Prese il mio viso tra le mani e passò i pollici sulle mie guance. Stavo addirittura piangendo. Per quale motivo, poi?

«Andiamo a casa» mormorò.

«Jo...».

«Stiamo bene. Noi stiamo bene. Andiamo a casa».

Mi limitai ad annuire. Ero ancora spaventato e sotto shock, e non sapevo spiegarmi il perché. Non che Jason mi fosse mai piaciuto, ma, vederlo a terra, privo di vita, mi toccò qualcosa dentro e mi strinse una morsa attorno al cuore, una forte stretta che fu difficile da sciogliere.
Ascoltai Johanna, tuttavia, che mi prese per mano e mi condusse fuori dall'edificio, passando tra la folla che si era riversata nel cortile e sembrava essere più confusa che mai. Esattamente come mi sentivo io.

Cosa era successo?

Passai i tre giorni successivi a domandarmelo, chiuso nella mia stanza, senza contatti esterni che non fossero le visite di Johanna, di giorno e di notte, e la presenza saltuaria di mia madre.
La scuola rimase serrata, durante le indagini della polizia, che aveva meno risposte da dare di me. La morte di Jason sarebbe rimasta un caso irrisolto per anni ed anni. Tutti avevano un motivo per odiarlo, tutti avevano un movente.
L'unica cosa che si seppe per certo fu la causa del decesso: la descrissero come una pugnalata al petto, che aveva letteralmente diviso in due l'aorta. Non aveva avuto nemmeno il tempo di dissanguarsi, la vita gli era scivolata via dalle dita prima che potesse sbattere le palpebre.

Era un modo atroce di morire, che nemmeno lui meritava. Che nessuno meritava.

***


«Domani si torna alla vita di tutti i giorni».

Seduto sulla moquette, accanto al letto, non mi accorsi dell'entrata di Johanna nella mia stanza, stranamente dalla porta e non dalla finestra, come al solito. Sollevai lo sguardo e feci una smorfia, vedendola in piedi, davanti a me. «Tua madre mi ha fatto entrare» disse, prima che potessi chiederle qualcosa.

«E ti ha sottoposto a qualche interrogatorio?».

«No, mi ha solo chiesto il nome e quasi saltellava quando gliel'ho detto».

Sorrisi appena, ma solo per circostanza. Ero totalmente privo di ogni entusiasmo. Vidi Johanna inginocchiarsi e, successivamente, sedersi al mio fianco. Appoggiò la testa sulla mia spalla e intrecciò le dita di una mano con la mia.
«Stai bene?» sussurrò. Avrei voluto annuire, dire sì, che ero solo un po' frastornato e scosso. Sarebbe stata la verità, del resto. Eppure, rimasi in silenzio. Mi girai lento verso di lei, che sollevò lo sguardo. Attendeva ancora una risposta, che non le diedi.
Appoggiai le labbra sulle sue e la baciai, prima delicatamente, lento, poi in maniera più spinta, come se volessi farle mancare il fiato al mio posto. Era come se sentissi l'estremo bisogno di sentire qualcuno il più vicino possibile e Johanna non era da meno. Percepii subito le sue mani sul mio collo e, poco a poco, sul mio petto; prima sopra la maglietta, poi al di sotto di essa.
«Tua madre è di là» biascicò lei, mordicchiando il mio labbro inferiore. «Mhm, basta che chiudiamo la porta» dissi, in maniera pressoché incomprensibile, e allungai una gamba, in modo da poter spingere l'anta e far sì che si chiudesse. Johanna rise, tra un bacio e l'altro.
Prese il mio viso tra le mani e ci mettemmo entrambi in ginocchio. Afferrai la base della maglietta grigia che indossava e gliela sfilai, buttando quel pezzo di stoffa a terra. Lei fece lo stesso con la mia t-shirt blu.
Le cinsi i fianchi e ci alzammo in piedi. Prese a giocherellare con l'elastico dei pantaloni della tuta che avevo addosso, mentre con le labbra mi torturava delicatamente l'incavo del collo.
Sospirai sommessamente. I miei palmi vagavano lenti sulla sua schiena pallida, mentre socchiudevo gli occhi, immerso in quella piccola beatitudine che solo il contatto con la sua pelle calda riusciva a darmi.
Ci spostammo, quindi, sul letto. Ricademmo entrambi sul materasso, lei sopra di me, con le labbra che si ritrovarono le une contro le altre per l'ennesima volta. Johanna si sfilò le scarpe e i jeans, mentre io mi limitavo ad osservarla, con le braccia piegate ai lati della testa.
Quando tornò col viso attaccato al mio, mi sfiorò con le labbra il mento. «Sei... Sicuro di volerlo fare?» mormorò. Mi venne quasi da ridere a quella sua domanda. «Di solito è il ragazzo che domanda queste cose» commentai.

«Lo so, ma tu... Hai l'aria più dolce e innocente di me, quindi credo che possa valere il contrario, almeno per questa volta».

Risi, allora, e lo feci per davvero. Sollevai il capo, per depositare un casto bacio sulla sua bocca e feci in modo che le nostre posizioni si ribaltassero, così che potessi esser io sopra al suo corpo. «Non sono così innocente» esclamai, marcando strettamente il “così”, di proposito.
Insomma, non ero mica vergine! Ed ero pressapoco sicuro che lei fosse convinta del contrario. Ahimè, avrei voluto sul serio esserlo. La mia prima volta era stata talmente imbarazzante che, al solo pensiero, mi veniva voglia di sotterrarmi.
Fu Johanna a ridacchiare allora, piegando le gambe ai due lati dei miei fianchi. Non disse nient'altro. Neppure io lo feci. Lasciammo che fossero i gesti a parlare: i baci, le carezze, a tratti rudi, a tratti delicate.

I nostri ultimi brandelli di vestiti ricaddero sulla moquette. Fummo nudi, tra le lenzuola azzurre, a guardarci di tanto in tanto, un po' per timidezza, un po' per frenesia.
Ero pronto per passare alla fase successiva – mi fece strano pensarla in quel modo – ma qualcosa mi fermò prima che potessi farlo.

Io non avevo preservativi in camera, né, tanto meno, in casa.

Il motivo era semplice: non mi aspettavo di fare sesso con qualcuno entro un periodo così breve!

“Idiota!” mi rimproverò l'irritante vocina nella mia testa e la parte peggiore fu che non potei ribattere in alcun modo. Roteai gli occhi e iniziai a guardarmi intorno, spaesato, come se la soluzione potesse spuntare fuori da qualche parte nella stanza.
Ovviamente non fu così: come poteva davvero accadere una cosa del genere?

Johanna mi guardò in maniera perplessa, mentre cercavo un'ipotetica soluzione, la quale sembrava essere terribilmente lontana da me.
«Qualcosa non va?» domandò, allora. Sulle prime, rispondere mi parve una cattiva idea. Le avevo appena detto che non ero casto e puro; affermare che non avevo profilattici in casa suonava quasi come una presa in giro.

«Uhm. No, niente» biascicai. «E' solo che...».

«Che?».

Sospirai e strizzai gli occhi. Johanna si trovava sotto di me, nuda, e quella distanza così ravvicinata al suo corpo aveva già influenzato in maniera tangibile e visibile il mio.

“Idiota”.

«Io non ho...» balbettai. «Non ho i... Cosi. Insomma... Quelli».

«I cosi... Cosa?».

Sospettai che, vedendomi in difficoltà, stesse fingendo di non capire, ma mi resi presto conto che quello che mi stava uscendo di bocca era davvero incomprensibile.

«I... I preservativi» soffocai, infine.

Johanna rise, probabilmente a causa dell'espressione che il mio viso aveva assunto in quel momento: un misto tra imbarazzo e voglia di suicidarsi seduta stante per la pessima figura.

Era poi così pessima?

«Non fa niente» disse, quando riuscì a riprendere fiato.

«Niente? Come può non...».

«Li ho io».

Spalancai gli occhi, con stupore. In realtà non avrebbe dovuto toccarmi qualcosa del genere. Da Johanna, c'era da aspettarselo. «Sono nella tasca di dietro dei miei jeans» sussurrò, baciandomi rapidamente sul mento.

«Oh. Bene». Mi spostai appena sul materasso e recuperai i suoi pantaloni, in bilico tra il letto e la moquette. Estrassi da essi la piccola bustina quadrata, color porpora.

La aprii e indossai il tutto, sotto il suo sguardo devoto, ma anche, a tratti, divertito.

Quando finalmente le entrai dentro, cominciai a muovermi avanti e indietro con il bacino. Prima lento e a fondo, poi più veloce, prendendo un ritmo sempre più accelerato. Afferrai una sua mano e la premetti sul cuscino, facendo intrecciare le nostre dita. Lei mi sfiorò la schiena con i polpastrelli. All'inizio furono solo carezze, dopo mi graffiò. Percepii dolore e non poco, ma non diedi molto peso a quel particolare, perché ero impegnato in altro – letteralmente.
Feci una smorfia e premetti le labbra sulle sue, con foga. Johanna gemette e quel suono fu in grado di farmi rallentare. Non appena lo feci, lei si distaccò di poco dal mio viso e portò la mano libera sulla mia nuca. Tirò piano i capelli in quel punto.

«Non. Ti. Fermare» sillabò, col fiatone.

Non avevo alcuna intenzione di farlo. L'unico motivo per cui avevo interrotto quel ritmo frenetico era per paura di farle male. Lo ripresi, tuttavia, più veloce e forte di poco prima, fino a portare entrambi al culmine del piacere.

E quella volta fu decisamente meglio della mia prima volta.

Scivolai al fianco di Johanna, tirandomi dietro il lenzuolo, che finì per coprirci entrambi, dai fianchi in giù. Lei mi seguì quasi di riflesso, appoggiando la testa sul mio petto.

Non seppi esattamente cosa accadde in quel momento.

Stavo bene, da un lato, ma dall'altro, mi sentivo peggio di prima. Era come se i pensieri che mi vagavano in testa nei momenti precedenti al suo arrivo, si fossero amplificati e io ero confuso, schiacciato da altre domande senza risposta e, a quel punto, sopraggiunsero persino i rimorsi, che non avevano nemmeno il senso di esistere.
Avrei voluto scacciare ogni cosa, ma fu pressoché impossibile.
«A che pensi?» sentii Johanna mormorare e io risposi di getto, lasciandomi trasportare dalle cose che mi vagavano per la mente in quel momento: «Pensavo a... Quello che è successo a Jason».

A quelle mie parole, lei sollevò la testa e abbozzò una risata, nervosa. «A... Quello che è successo a Jason? Davvero?» disse, con le labbra serrata.

«Io...» biascicai. «E' solo che... E' morto in modo atroce e io ho l'immagine di lui a terra, immerso nel sangue e non...».

«Jason era un coglione, che faceva star male tutte le persone che avevano la sfortuna di girargli attorno».

«Lo so, ma essere un coglione al liceo non è una ragione valida per morire in una maniera del genere».

«Quindi, ti dispiace per lui?».

«Ovvio che mi dispiaccia per lui, io...».

«Noi abbiamo appena fatto sesso e tu... Tu te ne esci col fatto che pensi a Jason?».

«Jo, mi hai chiesto a che pensavo e te l'ho detto. Non credevo che...».

Per la terza volta in meno di un minuto, la mia frase non trovò fine. Johanna scosse ripetutamente la testa e si alzò in modo brusco dal letto, raccattando in modo distratto i propri vestiti da terra e indossandoli alla stessa maniera.

«Jo...» mormorai, mettendomi seduto sul letto. «Non te la devi prendere, okay?».

«Non me la sto prendendo, me ne so semplicemente andando».

Sospirai sommessamente e mi alzai anche io, recuperando i miei boxer neri e mettendomeli addosso, rischiando di incastrarli con i miei piedi più volte.

Johanna, nel frattempo, si era completamente rivestita ed era sul punto di aprire la porta. Riuscii a fermarla non appena la sua mano toccò il pomello.

«Non andartene» sussurrai. «Okay, mi dispiace, ma... Hai frainteso tutto, davvero».

«Oh, io ho capito benissimo, Simon. Ora spostati, voglio tornare a casa».

«Jo...» biascicai, per l'ennesima volta. Lei sostenne il mio sguardo duramente e, alla fine, non ebbi più altra scelta che togliermi di mezzo e permetterle di uscire dalla stanza.

Non era davvero mia intenzione ferirla in qualche modo. Anche se quelle non erano le parole più adatte da pronunciare dopo un evento del genere, qualcosa di estremamente importante in una coppia, nemmeno il mio inconscio poteva minimamente immaginare che quella sarebbe stata la sua reazione.
Una cosa, tuttavia, riuscì a farla: farmi sentire terribilmente oppresso dai sensi di colpa.
Era incredibile come il mio cervello fosse in grado di tirarmi verso la parte del torto, sempre di più, senza che io potessi impedirlo.
Quella volta i rimorsi furono così pesanti che passò solo un'ora prima che mi decidessi ad andare da lei e ringraziai chissà chi per il fatto che abitasse nel mio stesso palazzo.
Misi addosso una tuta e le scarpe. Ero pronto ad uscire, ma non avevo calcolato la presenza di mia madre in cucina. Sicuramente, mi avrebbe riempito di domande alle quali non avevo la benché minima voglia di rispondere. Decisi, allora, di usufruire dell'alternativa preferita da Johanna: la scala antincendio.
Scavalcare il davanzale della finestra fu un'impresa, considerando anche che soffrivo enormemente di vertigini. Tenni per qualche secondo gli occhi chiusi, ma poi l'acida vocina nel mio cervello mi rimproverò: “Questo è un metodo sicuro per cadere di sotto, imbecille”.
Dovetti percorrere un metro di cornicione, prima di raggiungere la scala e per me equivalse a correre una maratona. Il cuore mi batteva all'impazzata e fui pressapoco sicuro del fatto che ebbi un infarto in quell'occasione.

Johanna abitava al settimo piano, il che voleva dire scendere due rampe di scale per raggiungere la finestra della sua camera. Non ci ero mai stato nella sua stanza. In realtà, non ero proprio mai entrato in casa sua.
Ero passato davanti alla porta di ingresso un paio di volte, quando l'avevo accompagnata all'appartamento dopo la scuola e sapevo quale fosse la sua finestra solamente perché lei si era affacciata una mattina, per dirmi di aspettarla; nulla di più.
Ero curioso di vedere un po' il suo mondo. Johanna conosceva nei minimi dettagli il mio.

***

Giunsi alla vetrata azzurra che si affacciava sulle strade trafficate di Chicago, dopo aver percorso un ulteriore pezzo di cornicione – e in quel caso, l'infarto fu triplo.
Per mia estrema fortuna, trovai la finestra aperta e, non senza difficoltà, riuscii a catapultarmi dentro la stanza, ovviamente cadendo fragorosamente a terra, e lì non c'era la moquette ad attutire la frana che ero.

“Dannazione” pensai, mentre mi rialzavo.

«Jo?» chiamai, ma non ottenni risposta. La camera sembrava essere vuota. Mi guardai attorno: era tutto tremendamente scuro, a partire dalle pareti, colorate di nero, la coperta viola sul letto e i poster di band metal attaccati praticamente ovunque. Se non avessi saputo il contrario, avrei di certo detto che quella fosse la stanza di un ragazzo.

«Jo?» dissi ancora e, di nuovo, nessuno replicò.
Non avevo intenzione di andarmene. Prima o poi sarebbe rientrata e io avrei avuto l'occasione di parlarle e chiarire. Se c'era davvero qualcosa da chiarire. Mi sentivo un perfetto idiota per aver messo a soqquadro ogni cosa, semplicemente parlando. A volte, avrei davvero dovuto tenere la bocca chiusa.
Inizia a gironzolare per la stanza, un po' per curiosità, un po' per passare il tempo.
Osservai le rare foto presenti – due, per l'esattezza - ritraenti una Johanna da sola, sorridente, l'altra con una ragazza, forse la sua migliore amica o qualche altra conoscente. C'erano molti quaderni sparsi sulla scrivania, alcuni aperti, altri chiusi, e nessuno di essi conteneva pagine bianche. Era una che amava scrivere, proprio come me, e non potei non esserne felice.
Sorrisi, tra me e me, e continuai quella sorta di sopralluogo. Non che fossi veramente in grado di fare una cosa del genere, anzi... Non lasciare traccia del mio passaggio era cosa ardua. Di fatti, nel giro di cinque minuti, rischiai di far cadere un vaso e feci cadere tre libri da uno scaffale.
Rimisi tutto a posto, di fretta, ma, operando in quel modo, non feci altro che incrementare il danno, facendo riversare a terra tutta la pila di libri, uno dietro l'altro.

E non furono le uniche cose a cadere.

Capitombolò a terra anche la libreria a quattro ripiani, spinta da qualcosa, da dietro. Mi scansai di getto, per non rimanere sotto a tutto quel macello.
Strizzai gli occhi per più volte e, quando riuscii a tener su le palpebre in maniera corretta, ciò che vidi mi fece raggelare completamente il sangue nelle vene. La parete era letteralmente crollata e, da quel buco del muro, era uscito fuori un corpo, che ora giaceva sopra i libri e pezzi del mobile distrutto.
Un cadavere e non uno qualsiasi. Nonostante la parziale decomposizione, riconobbi chiaramente i tratti del viso di Johanna: il taglio degli occhi, la bocca socchiusa, l'arcata sopraccigliare.

Era lei, in tutto e per tutto.

Senza rendermene conto, avevo iniziato ad essere scosso da forti tremori. Mi morsi forte il labbro inferiore, portando una mano sulla bocca, e sentii una lacrima – dovuta a chissà cosa – percorrermi una guancia. Feci un passo indietro, totalmente sconvolto, impaurito, divorato dal panico.

Poteva essere altrimenti?

Sperai, pregai con tutto me stesso che quello fosse solo un brutto sogno. Doveva esserlo, per forza.

Ma non era così. La realtà, dura e cruda, mi prese a schiaffi, poco dopo.

«Non dovresti essere qui».

Mi voltai, in maniera estremamente lenta.

Johanna, quella di sempre, stava in piedi sulla soglia della porta. Il suo sguardo ricadde sul cadavere per mezzo secondo, poi tornò su di me. Sembrava essere dispiaciuta, ma non ne seppi il motivo. Forse per me, o forse per se stessa.

  
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