Prologo
Questa notte ho avuto un incubo. Mi sono svegliato
di soprassalto, ricoperto di sudore, ho temuto persino di avere urlato. La
scena che ho sognato mi ha spinto ad alzarmi, nel cuore della notte, a
recuperare carta e inchiostro e a sedermi qui alla scrivania, al chiaro di
luna, per mettere per iscritto tutto quanto. Tutto quello che finché sarò in
vita non avrò il coraggio di confessare, ma che in un modo o nell’altro va detto,
va raccontato. Nella speranza che colei a cui ho taciuto la verità per tutti
questi anni un giorno ritrovi queste carte scritte nel cuore di una notte di luna
piena, con la preghiera che lo sconvolgimento a cui il suo animo sarà
sottoposto nel leggere queste mie parole non sia ancora più potente
dell’affetto che prova per me, per questo misero uomo patetico che ha paura della
verità. Perché se così fosse verrò odiato dalla persona che più ho amato nella
mia vita, mia figlia. La bambina che in questo momento dorme tranquilla nella
camera accanto alla mia e che prende il suo nome proprio dall’astro che adesso
mi fornisce la luce per mettere per iscritto questo racconto. La mia piccola si
chiama Luna.
Proprio Luna è stata protagonista del mio incubo di
questa notte. La mia bambina ha adesso sette anni, ma nel mio sogno era più
grande, già una ragazza. Ma con quella certezza che è possibile solo nei sogni
so che si trattava di lei, pur se la somiglianza non era poi così evidente. Pur
se non so, in realtà, come sarà mia figlia tra qualche anno, posso solo
immaginarmela. Nel sogno, la mia bambina fissava la propria immagine riflessa
nelle acque del fiume dietro la nostra modesta casetta, una piccola abitazione
in legno immersa nel fitto verde di un bosco, poco lontano da un villaggio che
conta non più di tremila abitanti. Non ci sarebbe niente di strano, se non
fosse che mia figlia stava sorvolando il fiume a cavallo di una scopa. I suoi capelli castani fluttuavano nel
vento, la sua espressione era piuttosto concentrata, il volo sembrava più che
naturale, come se la mia piccola salisse a cavalcioni su una scopa tutti i
giorni.
Chiunque mi direbbe che si tratta di qualcosa di
stupido, un sogno a cui non ha senso dare importanza. Anche mia figlia, pur se
a soli sette anni, credo sarebbe dello stesso avviso. E’ una bambina piuttosto
scettica! A volte ho la netta sensazione che non dia alcun credito alle
favolette che le racconto la sera per farla addormentare. A scuola le hanno
insegnato che la magia non esiste, che le favole sono state inventate da uomini
del tutto normali, e mia figlia è molto brava a scuola.
Ma io so che sarebbe un errore fingere che il mio
incubo di questa notte non abbia alcun significato. Io conosco benissimo il
perché del mio sogno, so che la sua importanza non è da trascurare e
soprattutto so che si tratta di un monito. Non devo dimenticare la verità, per
se essa è così scomoda che il rimuginarci sopra mi terrebbe sveglio la notte.
Quando un giorno la mia bambina metterà le mani su queste pagine, poserà gli occhi sulle parole che adesso sto scrivendo, rimarrà già abbastanza sconvolta per quello che scoprirà. Non voglio quindi confonderla ulteriormente con informazioni a metà o poco chiare, preferisco raccontarle la storia nei dettagli, partendo dal principio e senza trascurare il minimo particolare.
Cap.1:
Guardarti
Ho sempre vissuto in questa casa e in questo bosco,
almeno dacché ho memoria. Credo che Luna lo sappia, anche se non ricordo
esattamente il momento in cui glielo ho detto. Ho frequentato la sua stessa
scuola, nel villaggio poco lontano da qui, ho imparato a conoscere ed amare
ogni singolo albero di questi boschi come un fratello, ho amato la brezza che
nelle notti d’estate scuote le fronde e i cespugli, ho amato la neve che
ricopre e addormenta tutto nel suo candore. Pur se figlio unico come la mia
bambina, da giovane non ho mai sofferto la solitudine, perché ogni scoiattolo,
ogni uccellino sui rami degli alberi era mio amico.
Vivevo da solo con la nonna, la madre di mia madre,
essendo rimasto orfano a soli cinque anni. Certo, ho sofferto molto per la
perdita dei miei genitori, ma non ringrazierò mai abbastanza il cielo per aver
conosciuto nella mia vita una persona straordinaria come la mia nonna. Una
donna forte, volitiva, severa, ma al tempo stesso buona e affettuosa. Non ha
mai frequentato nessuna scuola, non sapeva nemmeno scrivere, ma è stata la
persona più colta, in un certo senso, che io abbia mai conosciuto. I boschi non
avevano segreti per lei, non c’era infuso d’erbe che non sapesse preparare, non
esisteva al mondo pianta di cui lei non conoscesse nome, proprietà, capacità
curative. Ho imparato da lei ben più di quanto qualsiasi professore potesse
insegnarmi e mi sto sforzando, ogni giorno, di trasmettere i suoi insegnamenti
a Luna, di lasciarle questa piccola eredità, perché il ricordo di una donna
straordinaria non venga perduto per sempre con la morte di questo mio corpo.
L’immenso affetto che ho provato nei suoi confronti,
però, non mi ha affatto impedito di rendere, in taluni momenti, la vita della
mia cara nonna un vero e proprio inferno. Ero un bambino molto vivace, proprio
come è Luna adesso. Non ho idea di quante volte le ho sentito pronunciare la
frase: “Cristiano, tu sarai la mia morte!”, né di quante volte, ridendo, ho
lasciato che mi inseguisse per i prati, senza pietà per i suoi muscoli ben più
vecchi dei miei.
Una donna speciale, senza alcun dubbio, così come
speciale poteva essere per un ragazzino la vita nel fitto di un bosco.
Non passava giorno in cui la natura non mi svelasse
uno dei suoi molteplici segreti, stimolando la mia curiosità e spingendomi a
cercare sempre qualcosa di nuovo, di ancor più incredibile e stupefacente. Non
c’era mistero che per me rimanesse tale per più di qualche ora, perché spendevo
ogni mia energia per venire a capo di qualunque dilemma e avere una piena
consapevolezza di ciò che mi circondava.
Quest’ultima affermazione può essere considerata
sincera solo per il periodo precedente ai miei quindici anni, perché a
quell’età ho assistito a qualcosa di cui sono riuscito a carpire parte del
significato solo diversi anni dopo. Posso affermare con certezza che mai, per
quanto possa essere ancora lunga la mia vita, riuscirò a comprendere fino in
fondo ciò che è accaduto.
Spero che Luna, in un modo o nell’altro, possa
riuscire là dove io ho fallito. So che ha buone possibilità di farcela, perché
dentro di lei vive parte di quel mistero, pur se lei non ne sa nulla e questa
parte del suo animo è attualmente assopita profondamente, come è giusto che sia,
come era volere di colei che ha fatto parte, anzi che è stata la protagonista,
di quel mistero.
Sto cercando di procrastinare l’inevitabile, me ne
rendo conto. Non ho ancora nemmeno iniziato a narrare ciò che devo, come se
stessi in tutti i modi provando a ritardare quel momento. Ma spero che quando
Luna avrà finito di leggere questo mio scritto, possa comprendere quanto sia
difficile per me trovare le parole adatte, che a mio parere forse non esistono
nemmeno, per dirle quello che ha il diritto di sapere e per descrivere alcuni
momenti della mia vita che, se non fosse proprio per la presenza di mia figlia,
per il suo corpo così reale nella mia casa, crederei solo frutto della mia
immaginazione.
Non passa giorno in cui io non mi chieda se non ho
solo immaginato tutto quanto. Solo per pochi secondi, il tempo necessario per
posare gli occhi su un oggetto che mi ricordi la presenza di una bambina di
sette anni in questa casa, prova vivente che non si è trattato solo di un
sogno. Che ho vissuto tutto per davvero.
Che quella
notte, a quindici anni, ho davvero assistito, per la prima volta nella mia
vita, al Rito.
Era una fresca notte di primavera. La nonna dormiva
già da un po’, ma io proprio non riuscivo a prendere sonno, così avevo deciso
di affacciarmi dalla finestra sul retro della casa, quella che dà sul fiume,
per prendere una boccata d’aria.
La prima cosa che ho notato, in quella notte intrisa
di magia, è stato lo splendore della luna. C’era una bellissima luna piena, che
fulgida irradiava un chiarore tale da far invidia alla luce del sole di
mezzogiorno. Ricordo di essere rimasto immobile, con la leggera brezza notturna
a scompigliarmi i capelli, per diversi minuti, a rimirare in silenzio la
lucentezza del nostro satellite. E’ stato quasi naturale, un atto dovuto,
seguire la scia luminosa tracciata da quella luce nel buio cielo della notte
fino al fiume poco lontano da casa mia, nelle cui acque quella luce si
specchiava dando origine ad uno spettacolo meraviglioso.
E allora ho visto ciò che avrebbe completamente
cambiato la mia vita, pur se in quel momento si trattava solo di ombre sfocate
che non riuscivo a identificare. Tre figure, ammantate di nero, avanzavano
verso il fiume nel cono di luce lunare. Pur da quella distanza sono rimasto
incantato dalla grazia del loro incedere, dalla poesia irradiata dal leggero
ondeggiare dei loro mantelli alla brezza notturna.
Quale ragazzo di quindici anni avrebbe saputo
resistere all’impellente curiosità, di fronte ad uno spettacolo del genere? Non
di certo io, Cristiano, giovane cresciuto nel fitto di quei boschi, innamorato
di quella natura meravigliosa.
In un attimo ero sull’uscio di casa e mi avviavo il
più silenziosamente possibile verso il fiume perché, qualunque cosa fossero
quelle creature che avevo scorto da lontano, non volevo disturbarle.
Da giovane ero molto meno scettico della mia Luna.
Al contrario, credevo fermamente nei diversi miti e nelle leggende che la nonna
mi raccontava quando ero più piccolo, per farmi addormentare. Adoravo quei
racconti, amavo credere che nella nostra foresta ci fosse qualcosa di magico.
Da questo punto di vista Luna è molto diversa da me,
per colpa mia, devo aggiungere. Non ho mai messo, nel raccontare le fiabe, lo
stesso entusiasmo, la stessa cieca fede che era tipica di mia nonna. Non saprei
dire se, inconsapevolmente, l’ho fatto di proposito. Per ritardare
l’inevitabile.
A pochi metri di distanza dal fiume, mi sono
accucciato sul terreno e ho proseguito a quattro zampe, per non farmi notare,
approfittando del valido nascondiglio offerto dai cespugli. Quando ero ormai
abbastanza vicino da vedere chiaramente le tre figure mi sono fermato, sempre
al riparo dietro un cespuglio.
Si trattava di tre donne. Giunte presso la riva del
fiume avevano abbassato i loro cappucci, permettendomi di studiare con cura la
loro fisionomia. Uno strano diadema ornava le loro fronti, qualcosa di
chiaramente simbolico, che però, complice l’oscurità comunque piuttosto fitta
nonostante il chiaro di luna, non riuscivo a distinguere perfettamente. A turno,
ho concentrato la mia attenzione su ciascuna di loro.
La più lontana da me aveva lunghissimi capelli neri,
ondulati e piuttosto disordinati, che le ricoprivano in parte pure il volto,
caratterizzato da lineamenti molto duri e marcati, per quel poco che mi era
concesso di vedere. Gli occhi erano due profondi pozzi bui. Era piuttosto esile
di corporatura, non molto alta, ma nonostante ciò so di non sbagliare
nell’affermare che solo una parola poteva descrivere perfettamente il suo
aspetto: terrificante. Per un attimo, fissando non visto quegli occhi scuri,
ricordo di aver provato l’irresistibile tentazione di voltarmi e correre via,
tornarmene al sicuro nella mia casetta, lontano da quella presenza minacciosa.
Invece, mi costrinsi a distogliere semplicemente lo sguardo e a fissare la
seconda figura.
Quest’ultima, al centro tra le altre due, aveva i
capelli più corti e più ordinati, castani e lisci, e l’aspetto complessivo era
decisamente meno minaccioso. Eppure, a modo suo, pur non incutendo timore nel
senso più stretto del termine, pareva avvolta da un inspiegabile alone di
eleganza, di grazia. Pretendeva rispetto. Era la più alta delle tre e il suo
viso era certamente il più imperscrutabile.
E subito accanto, la più vicina alla mia postazione,
c’era lei. Non credo ci sia modo per descrivere ciò che ho provato la prima
volta che ho visto quei profondissimi occhi azzurri, brillanti di luce propria
in quella notte di luna piena, i riflessi della stessa luna che giocavano con i
suoi capelli neri e lucenti, creando mille riverberi di luce scintillante. Sono
certo di essere rimasto a fissarla a bocca aperta per ben più tempo di quanto
non ne abbia concesso alle altre due donne, che pure mi avevano incuriosito e
non poco. Ma in lei, in quegli occhi dalle mille sfumature del mare, in quella
figura esile ma eretta, vi era qualcosa di etereo, di stupendo, di
irraggiungibile nella sua grazia che andava ben al di là del mondo umano.
Incantato, fissavo il suo volto, i suoi lineamenti così fini e delicati, le
labbra sottili e rosee, la pelle di un candore che non avevo mai visto prima,
quei ciuffi neri ad incorniciare quel viso dall’espressione così dolce.
La differenza di età tra la ragazza più vicina a me
e le altre due era evidente. Le prime erano già delle donne adulte, mentre la
terza era una ragazzina, a prima vista non le avrei attribuito più dei miei
anni.
Le tre donne sollevarono sulle ginocchia le vesti
nere ed immersero i piedi nel fiume. Per evitare di essere scorto cercai di
farmi ancora più piccolo. L’attrazione verso il mistero che aleggiava tutto
attorno a loro era molta, ma al tempo stesso avevo davvero paura di essere
scoperto, completamente consapevole che non avrei dovuto essere lì, che
rischiavo di violare con la mia mera presenza qualcosa di sacro.
La donna al centro fu la prima ad iniziare a
cantare. La sua voce era ferma e dolce al tempo stesso, il suo canto echeggiava
nel silenzio della notte mischiandosi e sovrapponendosi ai rumori provocati
dallo scorrere del fiume e dal vento che agitava le fronde degli alberi.
Ricordo perfettamente la sensazione che ho provato, il rizzarsi dei capelli
sulla mia nuca, l’accelerazione dei battiti del mio cuore, la confusione dovuta
al fatto che quelle sensazioni non avevano alcun senso per me, dal momento che
non riuscivo a comprendere una sola parola di quel canto. Si trattava di una
lingua sconosciuta, dolce alle mie orecchie, sibilante e delicata. Il canto
durò diversi minuti, quindi la donna dai capelli castani portò le mani alla
fronte e si sfilò il diadema, che in quel momento riuscii a vedere più
chiaramente. Una sottile catena formata da due fili d’oro e d’argento reggeva
un medaglione di forma rotonda, ma ancora non riuscivo a distinguere che cosa
fosse rappresentato in esso. La donna immerse il medaglione in acqua, nel punto
in cui essa rifletteva la luce lunare, per tirarlo fuori dopo qualche secondo e
lasciarlo ondeggiare alto sulla propria testa. Reclinò il volto all’indietro e
lasciò che l’acqua scorresse dal ciondolo fin sul suo volto, il suo collo, e
quindi il suo petto, inzuppando leggermente la parte superiore del suo vestito.
Quindi, con lo sguardo fisso sulla luna, risistemò il diadema sulla fronte e
fece un passo indietro, lasciando spazio alle proprie compagne.
Adesso era il turno della più terrificante delle
tre, che prese a cantare facendo ondeggiare i lunghi capelli neri da una parte
e dall’altra, con voce roca, ma non per questo fastidiosa. La sensazione di
disagio che già provavo divenne però ancora più forte nell’udire il suo canto.
La donna ripetè esattamente le stesse operazioni della compagna e quindi fece
anche lei un passo indietro, lasciando la fanciulla dagli occhi azzurri da
sola.
Me lo aspettavo già che la sua voce sarebbe stata la
più incantevole. Il sussurro del vento, il cinguettio degli uccelli in primavera,
il crepitio e lo scoppiettare delle
fiamme, il ticchettare della gocce d’acqua, era come se i suoni della natura
fossero tutti concentrati nella sua voce meravigliosa. Quando smise di cantare
avrei voluto uscire allo scoperto per chiederle di continuare, di non smettere
mai di allietare il mio spirito con i suoi suoni soavi, che sembravano
accompagnare la mia mente nell’oblio ed innalzarla verso il cielo, oltre le
nuvole, fin sulla luna…
Incantato, fissavo i suoi movimenti perfetti, i suoi
gesti armoniosi nell’immergere il diadema in acqua, portarlo in alto e
lasciarsi bagnare da esso e rimetterlo al suo posto. Anche lei, quando ebbe
terminato, fece un passo indietro, posizionandosi accanto alle compagne.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, quindi la più alta delle altre parlò,
questa volta nella mia stessa lingua:
“Adesso l’ultima parte del Rito, sorelle.
Verifichiamo se la luna ha accettato le nostre richieste”.
Stese una mano in avanti, verso un largo sasso sulla
riva del fiume e pronunciò qualche incomprensibile parola a voce bassa, come se
stesse parlando tra sé e sé.
Per me, in quel momento, il tempo si fermò. Infine,
avevo la conferma di stare assistendo a qualcosa che andava oltre la realtà,
qualcosa che non avrei mai dovuto vedere. Una scia bianca scaturì dalla sua
mano protesa, viaggiò a tutta velocità verso il sasso indifeso e lo distrusse.
Letteralmente, ne rimasero solo frammenti che scomparvero inghiottiti dal
fiume.
Mi accorsi che stavo tremando ed ebbi paura di fare
troppo rumore e di venire scoperto. La strega dai lunghi capelli neri arruffati
allungò improvvisamente una mano verso un pipistrello che stava volando
pigramente sopra le nostre teste ed una scia nera proveniente dalla sua mano
perforò una delle sue ali, facendolo crollare a terra in evidente agonia. Non
dimenticherò mai l’agghiacciante risata di quella strega. Sì, a quel punto lo
avevo capito, che si trattava proprio di questo. Streghe, creature dall’aspetto
umano ma dotate di poteri che di umano non avevano proprio nulla. Non ebbi però
troppo tempo per affannarmi nella mia paura, perché la terza strega intervenne
immediatamente, protendendo una mano verso il pipistrello ferito. Una luce
azzurrognola avvolse il povero animale per qualche secondo, quindi il
pipistrello, completamente guarito, si sollevò nuovamente in volo e scomparve
dalla mia vista.
La strega che lo aveva ferito si rivolse quindi alla
fanciulla dagli occhi azzurri con voce intrisa di scherno: “Ti faceva pena, non
è vero, Leanor? Non sopporti di vedere soffrire nemmeno le più patetiche
creature della Terra”.
Leanor, finalmente conoscevo il suo nome, si voltò
verso di lei e le rispose con un tono glaciale, che nulla aveva a che vedere
con la dolcezza del canto che poco prima era venuto fuori da quelle stesse
labbra: “Stavo solo testando il Potere, Hana, solo che diversamente da te ho
scelto di farlo in un modo che desse qualche vantaggio”.
“Quale vantaggio possiamo trarre dalla sopravvivenza
di un essere inutile come quello?”.
“Non parlavo di un vantaggio per la nostra stirpe,
Hana”.
Hana stava per replicare, probabilmente in maniera
aspra, ma venne zittita dall’intervento della strega dai capelli castani, che
sembrava essere quella dotata di maggiore autorità.
“Basta così, sorelle. Ciascuna di noi ha il diritto
di provare il Potere come meglio crede. Adesso torniamo indietro, non manca
molto all’alba, le altre ci attendono per
Non so quanto tempo mi ci volle, ma alla fine
riuscii a raccogliere il coraggio necessario per rimettermi in piedi e tornare
a casa. Ma di certo quella notte non riuscii a chiudere occhio. Ciò che avevo
visto mi aveva profondamente sconvolto, com’era ovvio che fosse. Magia… ancora
non riuscivo a crederci. Ero così eccitato e spaventato al tempo stesso, ma
soprattutto curioso, desideroso di indagare, di saperne di più, di assistere
ancora una volta a quella scena, di vedere di nuovo gli splendidi occhi azzurri
di Leanor.
Il semplice suono di quel nome era incantevole alle mie orecchie. Credo di aver passato tutta la notte a ripeterlo a bassa voce, come una formula magica. Del resto, qualcosa di magico c’era davvero in quel nome. Il nome di una strega. Una bellissima, incantevole strega.
Nota dell'autrice: La storia si compone in totale di tre capitoli, più il prologo e l'epilogo. E' già completa sul mio pc, tuttavia la prossima settimana non potrò aggiornare perché non avrò la possibilità di utilizzare Internet. Aggiornerò quindi il 21 Settembre con il secondo capitolo. Detto questo, spero che la storia sia di vostro gradimento, dato che è la prima volta che pubblico un racconto originale su efp. Spero mi farete sapere che ve ne pare. A presto e grazie a chi ha letto e ancor più a chi vorrà recensire! Sonsimo