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Autore: LilithJow    24/02/2013    4 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 8
"Heartless"


Shock post-traumatico: insieme di forti sofferenze psicologiche che conseguono un evento catastrofico e violento.

Sapevo benissimo dare la definizione di tale patologia, ma provare certe cose sulla propria pelle, fu nettamente diverso. Ero sempre stato dell'idea che fosse qualcosa di superabile, attraverso la conversazione, il controllo del respiro e così via.
Solo allora, mentre Johanna ancora mi fissava, immobile sulla soglia della porta, realizzai quanto tutte le mie convinzioni fossero un enorme buco nell'acqua.

Non sapevo che fare, che pensare, ed avevo la netta sensazione di stare per impazzire. Lo avrei fatto a breve, sarei completamente crollato. Le mie emozioni erano un miscuglio caotico che mi portarono a piangere senza controllo e più cercavo di portar via le lacrime dal mio viso, più esse scorrevano, rendendomi la vista appannata e le idee ancor meno chiare. Riuscii, tuttavia, a scorgere Johanna provare a fare un passo verso di me.

«Stai... Stai indietro» urlai e il tono che mi uscì di bocca fu stridulo e nevrotico.

«Simon... Sono io, per favore» mormorò lei, alzando le mani, come in segno di resa e innocuità.

Scossi ripetutamente la testa e mi passai più volte i palmi sul volto, cercando di restare almeno un po' lucido. «No, no, no, no... Quella... Sei... Sei tu» biascicai e indicai distrattamente il cadavere. «Ma tu sei anche... Qui, davanti a me e sei... Viva, perciò, a meno che tu non abbia una spiegazione un minimo logica a tutto questo, tu... Stai indietro». Avevo iniziato anche a fare discorsi da pazzo, il che non mi sorprese per niente.

«C'è una spiegazione, in realtà» replicò. «Puoi, per favore, smettere di tremare?».

Come poteva chiedermi una cosa del genere in quel momento? Era come chiedere al sole di spegnersi in un giorno d'estate. O in qualsiasi altro giorno, in realtà.
Parlando, Johanna fece un passo avanti. D'istinto, io ne feci uno all'indietro, sollevando una mano, come se quella potesse effettivamente difendermi. «Stai indietro!» ripetei, soffocando un urlo. Lei si morse piano il labbro inferiore e si fermò, continuando ad osservarmi con sguardo stanco. Il mio, intanto, vagava dal corpo morto steso sui libri ammassati sul pavimento al viso di Johanna.
«Puoi fidarti di me» disse, ad un tratto. Accennai una risata, isterica. «Oh, ho appena trovato un cadavere nella tua stanza ed è uscito fuori da un muro» esclamai. «Ho qualche problema con la fiducia, in questo momento».

«Ti ho anche detto che c'è una spiegazione. Se solo tu ti calmassi...».

«Non posso calmarmi! Come diavolo faccio a calmarmi?!». Non ottenni risposta, ovviamente, perché nemmeno c'era. Feci una breve pausa e socchiusi più volte gli occhi. Non piangevo più, per mia fortuna. «Sei tipo... La gemella cattiva che ha ucciso quella buona? O... Oppure quella buona che accidentalmente ha ucciso quella cattiva o...».
Johanna sorrise lievemente, ma tornò quasi subito seria, di fronte alla mia espressione contrariata. «Hai visto parecchi film, Simon» disse, tranquilla. Estremamente tranquilla, il che mi fece irritare terribilmente. «Devo farti una domanda, prima di poterti dire tutto».

«Falla».

Esitò per qualche istante. «Credi nel sovrannaturale?».

«Fino a dieci minuti fa, ti avrei detto di no, senza pensarci due volte, ma... Al momento non so più a cosa credere».

«Sospettavo una risposta del genere». Si prese un'altra pausa. Altro silenzio, durante il quale io continuai a fissarla, negli occhi, sperando e pregando che riuscissero a donarmi benessere, come facevano sempre. Ma non ci riuscirono.

«Dovresti crederci» disse, poi. «Il tuo mondo è circondato dal sovrannaturale e non te ne rendi conto».

Deglutii rumorosamente. D'improvviso, come un flash davanti gli occhi, mi tornarono in mente le ombre rosse, che in quell'attimo erano passate in secondo piano. Le mie ricerche, le leggende metropolitane che avevo ritenuto poco credibili e attendibili. Era evidente che mi fossi sbagliato.

«Che cosa sei?» domandai, con un fil di voce. Se quella domanda avesse davvero un senso, dopo tutto, non seppi dirlo. Johanna mi lanciò una rapida occhiata, serrando le labbra. Voleva rivelarmi ogni cosa, ma era trattenuto, tentennante o, perlomeno, mi diede quell'impressione.

«Sono una Divoratrice di Anime» sussurrò, quasi si vergognasse di pronunciare tali parole.

«Una...» balbettai. «E che... Che significa?».

Rise, nello stesso modo di poco prima. «Non si capisce?».

«Mi stai dando spiegazioni» esclamai e il mio tono di voce risultò leggermente più fermo. «Mi aspetto che tu mi dica... Tutto, nei minimi dettagli».

«Ci vorrebbero secoli per raccontarti tutto».

«Prova a fare un riassunto». Sospirai. Tenevo ancora la mano alzata, nella sua direzione e non ero molto propenso a levare quella difesa – se mai avesse potuto esser definita tale. «Partiamo da lei» dissi e feci un cenno verso il cadavere. «Perché è uguale a te?».

«Perché... Lei è la vera Johanna Wilkinson».

«La vera? Cosa...».

«Io ho solamente preso il suo aspetto. I Divoratori possono farlo. Possono prendere l'aspetto delle anime che divorano».

«Quindi, tu l'hai uccisa?».

«No. Lei si è uccisa, io sono arrivata dopo e ho impedito che la sua anima finisse in posti peggiori».

«Peggiori del tuo stomaco?».

Johanna – o come dovevo chiamarla dopo che aveva dichiarato di non essere la vera Johanna? - mi guardò storto, quasi si fosse offesa. Sospirai e gesticolai con la mano non impegnata nell'inutile difesa. «Scusa» dissi «battuta di pessimo gusto, ne faccio parecchie quando sono nervoso».

«Non fa niente».

«Jason. L'hai ucciso tu?».

«No. Perché sei così convinto che io abbia ucciso qualcuno?».

«Era giusto per... Chiedere».

Sbuffò, passandosi una mano tra i capelli. «Non ho ucciso Jason» esclamò, con tono cantilenante. «Anche se mi sarebbe piaciuto, perché era davvero un coglione».

«E chi è stato?».

«Non lo so. Probabilmente qualcun altro della mia specie. Siamo parecchi qui, a Chicago».

«Vuoi dirmi che ce ne sono altri come te?».

«Io non sono come loro. Loro uccidono, io... Non lo faccio. Devo nutrirmi delle anime delle persone per sopravvivere, ma prendo quelle di coloro che rifiutano la vita».

«Le anime dei suicidi?».

Annuì. «La vita umana è un dono prezioso, Simon. Il fatto che qualcuno la butti via per chissà quale assurdo problema è un crimine, che viene punito, dopo quella morte forzata».

«Perché hai preso l'aspetto di Johanna?».

«Perché era carina e... Adoro i suoi genitori. Sono gentili e premurosi, ma lei non l'ha mai capito».

«Da quanto sei lei?».

«Un anno, circa. Stavo per andarmene, in realtà, io... Non tengo per molto lo stesso aspetto, anzi, questo è stato il più longevo, ma poi... Sei arrivato tu».

«Io? E che cosa ho fatto?».

«Tu mi hai fatto sentire umana. Mi fai sentire umana». Prese un respiro profondo e indietreggiò di qualche passo, fino a sedersi sulla poltrona bordeaux affiancata alla scrivania di legno. «I Divoratori non possono provare sentimenti» sussurrò «che siano buoni o cattivi. Sono... Siamo, semplicemente, apatici. Le uniche volte in cui sentiamo qualcosa è quando ci nutriamo e l'effetto dura per qualche giorno. Ma quando tu mi stai attorno, tutto cambia e quell'effetto si amplifica. Tu sei... Diverso».

A quel punto, abbassai il braccio. A che serviva una difesa quando era lei a risultare estremamente vulnerabile? Rimasi, tuttavia, fermo e immobile, sebbene qualcosa nella mia testa mi stesse suggerendo di avvicinarmi e abbracciarla.
«Non voglio farti del male» mormorò Johanna, notando forse la mia incapacità di muovermi. «Non ho mai voluto, sul serio. Non aver paura di me».
Di quello, stranamente, ero sicuro. Una parte di me, chissà quanto remota, si fidava delle sue parole, al contrario di quanto avevo affermato poco prima, ma probabilmente tale sensazione non sarebbe durata a lungo.

«Quel giorno, in piscina» dissi, allora. «Perché sei scappata?».

«Ho degli istinti, come Divoratrice, e a volte... Faccio fatica a trattenermi».

«Come un vampiro col sangue?».

«Una cosa del genere».

«Quindi, sei tipo un vampiro».

Abbozzò una risata e quella volta ci colsi un po' d'entusiasmo. «L'ho già detto che hai visto troppi film?».

«Sto solo... Cercando di capire. Insomma, come...Come fai? Come... Divori le anime delle persone?».

«Devo toccare il loro cuore».

«Toccare, nel senso metaforico del termine?».

«No. Toccarlo, tenerlo in mano. Attraverso il petto».

Mi mancò quasi il respiro. Sembrava che, ad ogni sua parola, le mie emozioni sobbalzassero e non di poco: avevano picchi di totale tranquillità e quasi la stessa beatitudine che lei prima riusciva a infondermi, seguiti da abissi neri in cui tutto ciò che mi circondava era il nero, il colore della paura e della morte.
Deglutii rumorosamente e il mio sguardo si perse nel vuoto per un attimo. Nemmeno avevo ricominciato a respirare in maniera regolare, che mi ritrovai Johanna davanti, a pochi centimetri dal mio viso. Avrei voluto indietreggiare subito, ma qualcosa mi tenne incollato al pavimento. Molto probabilmente, i suoi occhi verdi che mi fissavano.

«Non avere paura di me. Per favore» sussurrò.

«Io...» mormorai, incapace di dire altro. Lei alzò una mano e la avvicinò piano al mio viso. D'istinto, mi scansai, evitandola. Mi guardò per un attimo, socchiudendo gli occhi e mise giù il braccio, evidentemente delusa da quel gesto.

«E' meglio che vada» dissi, con voce impastata. Johanna annuì appena: non che concordasse davvero, ma, evidentemente, non aveva molta scelta. Lanciai un'ultima occhiata al cadavere, a terra, e poi mi diressi verso la finestra, per uscire, così come ero entrato. «Simon» mi chiamò lei. Avevo già un piede sul davanzale, ma mi voltai col capo, per guardarla in viso. «Non... Puoi dire niente a nessuno. Lo sai questo, vero?» sussurrò. Abbozzai una risata, ironica. Chi mai avrebbe creduto ad una storia del genere? A stento ci riuscivo io e non senza rischiare seriamente di impazzire. Se solo ne avessi fatto parola con qualcuno, probabilmente prima mi avrebbero riso in faccia e dopo trascinato verso il manicomio più vicino. La cosa buffa era che avrebbero riaperto i manicomi solo per me.

«Non dirò nulla» replicai e mi accinsi a compiere una nuova maratona lungo i cornicioni, per tornare a casa.

 

***


La mattina successiva, sedevo al tavolo della cucina, rigirando il cucchiaino dentro la tazza gialla, colma di latte caldo che quasi certamente non avrei bevuto. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto. Non ero riuscito a dormire per nulla quella notte. Continuavo a ripensare a ciò che avevo visto, alle parole di Johanna – o non-Johanna, come chiamarla cominciava ad essere un dubbio – a ciò che avrei fatto da lì in poi. Come avrei dovuto comportarmi? Fare finta di niente, fingere di non sapere nulla quando la verità mi stava prendendo a calci nello stomaco ad ogni scoccare d'orologio? Era pressoché impossibile.

«E quella faccia a cosa è dovuta?». Mia madre entrò nella stanza, aggiustandosi la giacca blu scuro del tailleur che indossava. Sobbalzai appena a causa del tono di voce squillante, ma non risposi, quasi avessi perso la parola o peggio, tutta la mia vitalità. Con la coda dell'occhio, vidi la sua figura sedersi al mio fianco. Percepii il suo sguardo su di me per qualche secondo; o forse furono minuti.

«E' successo qualcosa che riguarda quella ragazza che è venuta qui ieri?». La sua domanda mi fece abbozzare un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo. «No» sussurrai.

«Sei sicuro? Perché è uscita di corsa e mi è parso che stesse piangendo».

«Non è successo niente» mi ostinai a ripetere, marcando tali parole.

«Avete litigato?». Lei era ostinata e la cosa non mi sorprese. Mia madre aveva sviluppato una sorta di empatia nei miei confronti: anche stando in silenzio, avrebbe sempre capito quando qualcosa non andava.

Sospirai, lasciando perdere il cucchiaino che continuavo a torturare tra l'indice e il pollice e mi feci di poco indietro con la sedia. «In un certo senso» dissi.

«Oh, Simon. Siete adolescenti. Gli adolescenti litigano perennemente. Non abbatterti così».

«Non è una delle solite stupide liti da adolescenti».

«Ah, no? E che cos'è?».

Esitai per qualche istante. Che cos'era? Oh, mi sarebbe piaciuto darle una spiegazione almeno lontanamente credibile. «E' complicato» mormorai, malgrado odiassi con tutto me stesso quella parola.
«Complicato è sempre meglio di irrimediabile, anche perché “irrimediabile” sarebbe collegato al fattore “incinta” e sono decisamente troppo giovane per diventare nonna. Aspetta un momento... Johanna non è incinta, vero?».
Risi, stranamente per davvero. I problemi che si fece mia madre mi distrassero per un attimo dalla situazione reale. «No, non è incinta» dissi.
«Questo è rassicurante». Annuì alla propria frase e allungò una mano a sfiorare delicatamente la mia. «Le cose complicate possono diventare semplici» esclamò «basta solo volerlo. Ho capito che neanche sotto tortura mi dirai cosa è successo tra voi, non ora, perlomeno, ma... Tutto si risolverà, okay? Johanna sembra una ragazza a posto e tu sei... Beh, sono terribilmente di parte, ma tu sei un vero tesoro. Troverete un modo per raggiungere la semplicità e, guardandovi alle spalle, questa cosa complicata che vi ha fatto litigare sarà solo un brutto ricordo».
Alzai lo sguardo. Lei mi stava sorridendo amorevolmente, come faceva sempre. Incurvai anch'io le labbra all'insù, sebbene fu solo per farla contenta. Per quanto quelle parole avessero l'intento di rassicurarmi, non potevano davvero farlo.

Quella cosa era complicata e niente poteva sbrogliarla, nemmeno la più acuta razionalità.

***

A scuola, evitai Johanna per tutto il tempo. Incrociai il suo cammino più volte: prima nel cortile, poi nei corridoi e infine in mensa. Cambiai strada in ogni occasione, spesso in modo abbastanza palese.
Lei ci rimase male, ovviamente. O forse no. Non avevo ancora capito bene come funzionassero le sue emozioni, se le avesse, se potesse offendersi, se invece era del tutto indifferente. 
Era tutto confuso, io ero sul punto di esplodere, perché, d'improvviso, nulla aveva più senso. Nemmeno più il mondo in cui vivevo. Ogni cosa era stata catapultata in una dimensione dove esisteva il soprannaturale e io non riuscivo a sopportarlo.

Perché niente era più normale, a partire dalla mia esistenza.

  
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