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Autore: LilithJow    04/03/2013    4 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 10
"Rescuer"


Il tragitto dall'Istituto fino a casa mia necessitava di almeno trenta minuti di macchina – non considerando il traffico – per essere completato. Il fatto che riuscii ad essere nella mia camera nella metà del tempo la diceva lunga su quanto fossi scosso e sconvolto. Il cuore mi batteva così forte che di lì a poco sarebbe balzato fuori dal petto e avrebbe rotolato a terra.

Non appena entrai nella stanza, chiusi a chiave la porta e, continuando a correre da una parte all'altra, in preda a spasmi e singhiozzi, serrai anche tutte e tre le finestre presenti.
Purtroppo, quella difesa che tentai di costruirmi attorno fu più che vana. Quando barricai l'ultima delle finestre, la più grande, mi voltai e vidi Johanna in piedi, proprio davanti alla porta, con le mani lungo i fianchi e i pugni chiusi. Sobbalzai, portandomi d'istinto una mano sul petto, forse a controllare che il mio battito non accelerasse più di quanto stesse facendo.

«Tu!» esclamai – o meglio, urlai. «Tu cosa... Come diavolo hai fatto ad entrare?».

«Sono... Abbastanza veloce» rispose lei.

Scoppiai a ridere, ma, come da un po' di tempo a quella parte, fu qualcosa dettato dal puro isterismo. Infilai le mani tra i capelli, facendo fatica a respirare. Non mi ci volle molto per capire che si trattava di un attacco di panico: battiti accelerati, iperventilazione, sudorazione fredda.
Mi piegai sulle ginocchia, fissando il pavimento e cercando di riprendere il più in fretta possibile il controllo del mio corpo. Dannazione, perché doveva essere così difficile?
Johanna, intanto, mi aveva raggiunto e si era inginocchiata al mio fianco. Sollevai appena il viso, incontrando il suo sguardo spento, nonostante il rosso ancor ben evidente nei suoi iridi.

«Mi dispiace così tanto, Simon» sussurrò. Tentennai per un attimo, tremando e stringendo i pugni sulle cosce. «Ti dispiace per... Per cosa?» biascicai, in maniera pressoché incomprensibile.

«Per tutto» rispose, mordendosi appena il labbro inferiore. «So quel che provi e...».

«No, non... Non lo sai. Non puoi saperlo».

«Certo che posso. Hai paura, stai totalmente uscendo di testa ed è... E' normale. Perché è questo che le persone fanno quando si trovano di fronte a qualcosa che non conoscono».

«Il problema è che... Io conosco le cose ed è questo a spaventarmi».

«Non conosci tutto e questo perché stai continuando a scappare». Fece una breve pausa. «Io voglio proteggerti, Simon» sussurrò, poco dopo «voglio proteggerti da tutto questo e tu devi permettermelo. Te l'ho già detto, io non... Non farei mai niente per farti male, non posso, perché il solo vederti così mi distrugge, per cui... Per favore, permettimi di starti vicino e aiutarti».
Mi porse una mano, tendendo il palmo all'insù. Di certo, si aspettava che io la afferrassi, ma passò parecchio tempo, qualche minuto, prima che mi decidessi sul serio a farlo. All'inizio, mi bloccai a fissare le sue dita affusolate, appena tremanti e mi concentrai sul suo respiro che si sforzava di essere regolare, a differenza del mio.
Quando finalmente il mio inconscio mi permise di muovermi, afferrai una sua mano e, senza ragionarci su troppo, mi buttai tra le sue braccia, appoggiando la tempia sul suo petto. Lei, di riflesso, mi strinse a sé, abbracciandomi e cullandomi, come avrebbe fatto mia madre, ma, ovviamente, l'effetto su di me fu diverso.
Mi sentii al sicuro, in un modo più che strano. Quanto poteva essere priva di ogni logica quella sensazione?
Fino a qualche minuto prima, la temevo e in quel momento, invece, era come se lei fosse la mia casa, il mio rifugio sicuro. Come se lo fosse sempre stata, senza che io me ne rendessi effettivamente conto.
Non seppi per quanto rimanemmo in quella posizione. Un'ora, forse, o di più, o di meno. Quando trovai il coraggio di distaccarmi, tutte le mie lacrime si erano asciugate.

«Dobbiamo medicare quella ferita» disse Johanna. Mi guardai distrattamente il petto. La maglietta azzurra che indossavo era sporca di rosso ormai opaco, di sangue non più fresco. «Non è niente» sussurrai. «Non mi fa nemmeno più...». La frase venne interrotta da lei, che mi diede un leggero colpo proprio sulla parte danneggiata del mio corpo, il che riuscì a farmi pulsare la ferita e mi provocò bruciore. «Ahi» mi lamentai.

«Scusa» replicò, abbozzando una risata che, molto probabilmente, era solo per infondermi un minimo d'entusiasmo che sembrava essersi disperso in me.

Si alzò, poco dopo, e aiutò me a fare lo stesso, facendomi sistemare seduto sul materasso. Si allontanò verso il bagno e, alla velocità della luce – letteralmente, mi bastò sbattere tre volte le palpebre – recuperò garze, cerotti e acqua ossigenata, e tornò da me, accomodandosi al mio fianco.
«Dovresti toglierti la maglietta» disse, sorridendomi in maniera del tutto rassicurante. Io stavo sfregando nervosamente le mani sulle mie cosce, che nemmeno avevo avuto modo di pensare di compiere un'azione del genere; anzi, non ero riuscito a pensare proprio a nulla che non fosse la situazione assurda in cui mi trovavo. Il mio cervello, poi, si rifiutò di collaborare, impedendomi di dire o fare qualsiasi cosa in risposta. Tutto ciò portò Johanna a credere che io stessi tentennando, per chissà quale assurdo motivo.
«Andiamo, non è niente che io non abbia mai visto» esclamò, allora. Risi anche io, a tal punto, e mi decisi a sfilarmi l'indumento sporco, accartocciandolo tra le mani e abbandonandolo distrattamente sul letto.
La ferita non era molto grave. Erano presenti cinque fori sul mio petto, grandi più o meno un centimetro, ed erano evidenti solamente a causa della mia carnagione eccessivamente pallida.
Johanna cominciò a tamponare la pelle con un pezzo di garza imbevuto d'acqua ossigenata, il che mi pizzicò e bruciò, non poco, ma strinsi i denti, evitando di urlare o fare cose peggiori.
“Andiamo, Simon, sopporta il dolore!” mi suggerì la mia coscienza, ma era più facile a dirsi che a farsi. Non ero mai stato il tipo tosto, immune ad ogni genere di calamità e pericolo, tutt'altro: ero abbastanza sorpreso del fatto di non essere svenuto alla vista del mio stesso sangue. Guardare il viso di Johanna, tuttavia, fu un'ottima distrazione. Aveva l'aria assorta, tranquilla, innocente e dolce.

Come avevo potuto pensare anche solo per un secondo che avesse voluto farmi del male?

“Perché non è quello il suo vero aspetto, idiota!” suggerì la parte più acida, ma anche realista di me.

Scossi appena la testa, cercando di scacciare quell'idea.

«Come... Facevi a sapere che ero in pericolo?» sussurrai.

«Credo di... Averlo percepito» rispose lei, continuando imperterrita la propria operazione.

«Quindi... Non mi stavi seguendo o...».

«Non sono una stalker, Simon».

«Oh, non era quello che intendevo». Feci una breve pausa, nella quale Johanna piazzò un cerotto sulla ferita e si alzò, buttando nel cestino accanto alla scrivania le garze sporche.

«Dovrei farti un lungo discorso col quale ti ringrazio per avermi salvato e un altro con cui ti chiedo scusa per come ti ho trattato e per averti evitato, ma...» sospirai, stringendo i pugni appoggiati sulle ginocchia. «Ma quando servono, le parole sembrano mancarmi».
Johanna accennò un sorriso, sentendo le mie frasi. Rimase in piedi di fronte a me, stringendosi nelle spalle. «Non fa niente» sussurrò. «Te l'ho detto, io... Ti capisco».
Stranamente, mi convinsi del fatto che sarebbe stato del tutto inutile proseguire con quel discorso, con le mie scuse da una parte e i suoi rifiuti di esse dall'altra. A me bastava averglielo detto e che non ce l'avesse troppo con me.

«Quel ragazzo che mi ha attaccato» cambiai di nuovo discorso «è come te, no? Nel senso... E' un Divoratore. Lo conosci?».

«Diciamo di sì». Sospirò e tornò a sedersi al mio fianco, tenendo lo sguardo basso. «E' mio fratello» sussurrò e per un attimo mi parve – o sperai – di aver capito male.

«In realtà, i Divoratori sono tutti fratelli tra loro, ma... Noi siamo semplicemente stati vicini l'uno con l'altro fin dall'inizio dei tempi».

«Vicini... Quanto vicini?». Quella domanda risultò abbastanza stupida. Ero mica geloso?

Forse un po' sì.

Johanna abbozzò una risata, tornando a far scintillare i propri occhi – verdi e non più rossi – su di me. «Non così vicini» disse e la cosa mi rasserenò.

«E poi cosa è successo?» domandai.

«Poi lui è... Cambiato, ha iniziato a frequentare dei gruppi di Divoratori per niente benevoli, anzi, tutt'altro. Degli spietati killer che si muovevano in branco, uccidendo anche interi villaggi e... Io non l'ho seguito».

«Perché?».

«Non è ovvio? Te l'ho già detto, io non uccido. Ma questo lui sembra non accettarlo, così ogni volta che tento di vivere come un'umana, cerca di distruggere ogni cosa».

«Per questo motivo non tieni per molto lo stesso aspetto?».

«E' uno dei tanti». Si prese un ulteriore pausa, sbattendo piano le palpebre. Come non accadeva da un po', fui immediatamente catturato da quei due diamanti verdi che si ritrovava e, per un attimo, trattenni il respiro.

«Non gli permetterò di farti del male» sussurrò, allungando una mano, a raggiungere il dorso della mia, ancora appoggiata sulle gambe. «Non di nuovo».

Lentamente, girai il palmo e feci in modo che le nostre dita si intrecciassero, in quel gesto complice e timido, come del resto era sempre stato.

«Lo so» mormorai, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «E direi che te la sei cavata benissimo oggi, contro di lui».

«E' stata solo fortuna. E' molto più forte di me». Tentennò per qualche secondo, sfiorando con il pollice la mia pelle. «Sono riuscita a recuperare una cosa per te» disse, poco dopo.

«Che cosa?».

La vidi tirar fuori dalla tasca qualcosa e solo quando me lo mise davanti agli occhi, realizzai cosa fosse. Era un ciondolo, una pietra semi-trasparente, a forma di rombo, azzurro e mi dondolava davanti, col rischio di ipnotizzarmi. Non che potesse farlo davvero: quel potere era riservato solo agli occhi di Johanna.
«E' un amuleto» disse lei «raro, molto raro. Questo ciondolo si illuminerà ogni qualvolta che un Divoratore è troppo vicino a dove sei tu. Se si illumina, scappa il più velocemente possibile, il più lontano che puoi».

«Tu sei una Divoratrice, ma... Non si è illuminato».

«Certo che no. Indosso anche io un amuleto, che mi isola dal potere del tuo».

«E se lo indossasse anche Sebastian?».

«E' impossibile. Ne esistono solo due copie in tutto il mondo e l'altra è tenuta dall'imperatore giapponese».

«L'imperatore giapponese è un Divoratore?!».

«Da qualche anno ormai».

Rimasi a bocca aperta, ma ormai niente avrebbe dovuto più sconvolgermi. Per quanto ne sapevo, ogni persona che mi circondava avrebbe potuto essere una creatura sovrannaturale; il punto era che, diversamente ai giorni precedenti o anche solo a quella mattina, tutto ciò non mi toccava più.
Era come se il panico e la paura si fosse spenti, acquietati, fermi, in attesa di tornare forse un giorno alla ribalta; ma, per il momento, io ero tranquillo, totalmente rilassato dal tocco lieve di Johanna, dalla sua pelle calda, ammaliato dai suoi movimenti, dal modo in cui si mordeva piano il labbro, allacciandomi l'amuleto al collo.

«Dovresti dormire un po' adesso» sussurrò Johanna, lievemente. «Non lo hai fatto molto in questi giorni, vero?».

«A dir la verità, per niente». Sorrisi appena, inclinando di poco il capo di lato e guardandola. «Hai percepito anche questo?».

«No, questo no, ma so che le uniche volte che hai dormito da quando sei arrivato a Chicago, sono state quando...».

«Quando?».

«Quando io ti ho... Aiutato a farlo».

Aggrottai le sopracciglia, perplesso. «E come avresti fatto?».

«Cantando». Pronunciò quella parola con estrema innocenza e mi parve di vederla arrossire, non sapendo nemmeno se ciò fosse effettivamente possibile. Sorrise, in imbarazzo e abbassò uno sguardo, quasi si vergognasse di fissare i miei occhi in quel momento. «Ho questo potere» sussurrò poi. «Se io canto, aiuto le persone a fare sonni tranquilli. A volte mi è capitato anche di creare dei sogni. Bei sogni. Non so se altri Divoratori hanno questo potere, ma... Spero di no. Mi piacerebbe essere unica almeno in questo».

«Lo sei» mormorai e mi venne da dirlo in maniera naturale, spontanea.

Johanna rise e si passò una mano tra i capelli. «Credevo mi odiassi e invece questo suona addirittura come un complimento».

«Non ti ho mai odiato».

Lei tornò seria e fece una smorfia, il che riuscì solamente a renderla adorabile ai miei occhi. Quel che avevo detto non era altro che l'assoluta verità: nonostante l'incondizionata paura e il terrore per quella che di fatto era la sua natura, non avevo mai covato odio nei suoi confronti; un po' perché non ce n'era motivo, un po' perché sarebbe stato impossibile per me farlo.

«Posso...» sussurrò «posso aiutarti a dormire anche ora... Se ti va».

Mi limitai ad annuire.

Quelle appena passate erano state le ore più travolgenti e caotiche della mia intera esistenza. Quel turbinio di emozioni e sensazioni mi aveva letteralmente sconvolto e stravolto, ma, perlomeno, non ero più confuso e atterrito. Anzi, tutto il contrario: stavo bene.
Stetti bene quando mi sdraiai sul letto, sotto le coperte, e Johanna fece lo stesso, accanto a me. Stetti bene quando lei cominciò ad accarezzarmi delicatamente il viso e cantò, una mia personale ninna nanna.
Non capii bene le parole che pronunciò; non mi sembravano nemmeno appartenenti ad una lingua esistente o non morta, ma fu comunque estremamente rilassante. Il suo potere aveva davvero effetti benefici.
Socchiusi gli occhi; l'ultima cosa che sentii fu un «Buonanotte, ragazzo carino» da Johanna mormorato e poi mi addormentai, sprofondando nel sonno.

  
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