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Autore: _FrenkieFaye_    06/03/2013    1 recensioni
In guerra, Marie Howell dà alla luce una bambina, mentre attorno la terra trema e le vite si accartocciano su se stesse, rotolando placide verso la morte; è proprio dagli occhi della loro bambina, Aria, che la storia viene raccontata, anni dopo.
Ignara delle sue origini, del suo passato. Diciott'anni dopo Wondlake è di nuovo in pericolo, minacciata da una seconda guerra che si prospetta più dolente e feroce della precedente.
Fazioni opposte pronte a contendersi il potere per intenti diversi.
E tra tutto l'orrore, sconcerto, dolore e disprezzo, dei germogli timorosi crescono: amicizie pronte a cambiare tutto, a riscrivere la storia. Un amore impossibile. Delle perdite incolmabili.
Gideon, Lewis, Green e Trendolf ancora insieme, come l’ultima volta.
Questa è la storia di Aria Faith Lewis: la bambina nata in guerra, tornata alla guerra per vivere.
Genere: Fantasy, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Look your Falling Star :: One Chap (It’s Time)

Otto anni dopo...

Le palpebre ancora incollate dal sonno, annaspo alla ricerca di un barlume di lucidità, mentre strizzo gli occhi con il dorso della mano e mi lascio andare a uno sbadiglio profondo, che assume le sembianze di un ruggito rauco, degno di un re della savana. I miei capelli devono rassomigliare a una rossiccia criniera crespa. Quando ho passato una mano tra la “chioma” –se è lecito definirla in questo modo- è rimasta impigliata e c’è voluto un bel po’ prima di scrollarla da lì, non senza strapparmi una ciocca o due di capelli.
Maledetta umidità, maledetta pioggia, maledetto freddo, maledetto tutto.

Se è vero che il “buongiorno” si vede dal mattino, allora farei meglio a non azzardami neanche a mettere un piede fuori dal letto, non sia mai possa essere quello sbagliato -peggiorando la mia già precaria dose quotidiana di fortuna, da centellinare in microscopiche dosi per le ore che mi divideranno di nuovo dal sonno.
Forse farei meglio a serrare di nuovo gli occhi e sparire con la testa sotto le coperte, tappandomi le orecchie con il cuscino.
Mi chiedo che ore possano essere prima di individuare un debole cono di luce che entra dalla finestra e si riflette sulla parete di un blu elettrico.
Il sole sta sorgendo.
Come ha sempre fatto: sorge a Est per poi congedarsi alla vista sparendo a Ovest.
Il sole sorge sempre.
E’ una sterile sicurezza da accantonare e custodire come una preziosa e rara reliquia;

un’illuminazione, ecco cosa mi servirebbe davvero, nel black-out che si fa sempre più fitto nel mio cervello. Con nervosismo scalcio le coperte ai miei piedi e porto su il busto rigidamente come un automa privo di sinapsi, manco fossi Frankenstein con un bullone che mi perfora il cranio. Poggio i piedi contemporaneamente al pavimento –l’ho detto che sono una persona previdente- e quando avverto le piastrelle come ghiaccio sulla mia pelle mi piego in avanti, aggrappandomi al materasso, e sparisco con la testa sotto il letto per recuperare le pantofole. Mi lascio andare a manovre da contorsionista pur di ispezionare tutto il perimetro del pavimento, senza però lasciare andar via il confortante e avviluppante calore del mio corpo, imprigionato nel materasso, nelle lenzuola e nel cuscino.
Delle mie pantofole, neanche a dirlo, non c’è traccia.
Maledico mentalmente il mio disordine cronico e faccio appello a tutte le mie forze per raccogliere il coraggio necessario ad abbandonare il mio dolce letto. Saltellando sul posto raggiungo la finestra, spalanco la tenda illuminando a giorno tutta la camera e, infine –solo dopo aver recuperato e indossato la vestaglia- spalanco le imposte e lascio che la brezza mattutina mi soffi sul viso.
Un profumo di pane appena sfornato arriva dall’angolo che divide First High Street da Mapper Street, e il mio stomaco fa le capriole dalla fame.
Mentre il pallido sole autunnale irradia giochi di luce sui tetti dei primi edifici del piccolo quartiere residenziale First High Street, l’ambiente si riempie di una piacevole e carezzevole sensazione di tepore. Dall’alto scruto i profili delle abitazioni, che riflettono la loro ombra obliquamente sul selciato.

Ripenso a come sia naturale adesso, per me, chiamare questo posto “casa”.
Perché con il tempo ho scoperto che Powerell Town è un città davvero bizzarra in cui vivere, e ancora di più lo sono i suoi abitanti ma, dopotutto, anche questa è casa.
Che poi bizzarri è solo il primo di una serie di sinonimi: pazzoidi, schizzati, psicotici, scriteriati... e via dicendo.
Mi chiedevo spesso, i primi tempi di permanenza forzata qui, perché Dio avesse dimenticato questo posto sperduto quando distribuiva intelligenza e buonsenso nel mondo.
Allo stesso modo, mi chiedo tuttora perché abbia voluto rimediare in qualche modo -rendendosi conto troppo tardi della sua madornale mancanza- dispensando eccentricità in quantità spropositate, giusto per compensare a una sua precedente falla d’attenzione.
I primi tempi è stata davvero dura ambientarmi, soprattutto fare appello a tutta la mia ragionevole pazienza, di fronte alla copia storpiata e malriuscita, sotto effetto degli LSD, dell’allegra compagnia di merende di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Perché è così che vedevo i miei vicini attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni, seppur cresciuta troppo in fretta, ma pur sempre bambina dentro, nel profondo.

Oggi, dopo lungo tempo, posso affermare di aver sviluppato un discreto autocontrollo a tutto questo e, anzi, sono grata a quel Dio tanto indaffarato per avermi condotta qui, ben otto anni fa, e non altrove. Perché, grazie al Cielo, crescere in questo modo mi ha fatto tornare un po’ bambina, anche se a tarda età, e mi ha restituito indietro con l’interesse un pizzico di ciò che è stato strappato via alla mia infanzia fin troppo presto.
Ho compreso che la pazzia è inevitabilmente all’ordine del giorno se abiti a Powerell Town e, una volta assimilato questo concetto, tutto è tornato alla normalità nella mia personalissima ottica.
Ho un ricordo molto nitido della sera in cui arrivai qui: avevo promesso a me stessa orgogliosamente che sarei scappata il prima possibile, magari mettendo alle strette Penny, costringendola così a rispedirmi in orfanotrofio, o anche calandomi da una finestra con un lenzuolo e scappando, come avevo già fatto in precedenza. Scappare era una mia abitudine, non mi spaventava.

Poi qualcosa è cambiato.
Io sono cambiata.
Il buco nero che avvertivo al centro del petto ha incominciato a rimpicciolirsi.

Non nascondo che ci sono ancora giorni in cui mi sento persa, quasi privata dall’anima, perfino impassibile e distaccata di fronte alle ingiustizie e alle sofferenze altrui; penso a come ho sempre patito il dolore io: in silenzio, la testa china, lo sguardo basso, e poi agguerrita, disperata, recalcitrante e testarda. Mi sento vicina a quel batuffolo di piccola donna qual’ero, risento il dolore come se non fosse passato neanche un giorno da allora, lo stesso di sempre; quello da cui nessun medico può curarti. Come si può, dopotutto, liberarsi dalla prigione dei ricordi?

Essi si fanno spazio dentro di te distorcendosi in volute di fumo nero, imprigionandoti nelle tue stesse membra, facendoti sentire meno che niente. Inquinando anche quel barlume di speranza che ancora ansima alla ricerca di ossigeno, per bruciare silenziosamente e donare calore, nei momenti in cui i fantasmi del passato tornano a farti visita come ombre inquiete.
Il male ricevuto non si può mai dimenticare, lascia tracce invisibili molto diverse dalle cicatrici; squarci che non smetteranno mai di grondare sangue, dentro. Ferite che non si cicatrizzeranno mai. E forse crederai anche di esserci riuscito, di aver perfino dimenticato tutto quel dolore, ma basterà un solo passo falso, solo uno, a riportarti indietro.

A ricordarti che non hai perdonato.
Solo uno ti farà voltare, e allora capirai quanto hai provato a ignorare, serrandoti in una prigione dalle mura alte, inutilmente.
Per proteggerti.
Per proteggermi.

Non finirò mai di chiedermi il perché.
Perchè proprio a me, tra tanti, perché proprio io. Un pensiero egoista ma ragionevole, da fallibile e miserabile essere umano, con molte certezze e poco coraggio.
Poi ho capito, almeno in parte: la sofferenza non va compresa, neanche volendo, ma compatita.
Puoi convivere con il dolore, giorno dopo giorno.
Accoglierlo come un vecchio amico dentro di te, lasciare che ti racconti le vecchie avvenute passate insieme, sopportare le urla nella tua testa... sperare che tutto ciò ti renda coriaceo, pronto a ciò che verrà –che non potrà mai essere peggio di ciò che già è stato-, sorreggendoti su altrettanti fallibili scudi di molle, ma confortante, creta; e abituarti all’idea che non ti resta niente se non la rassegnazione, ricucire i lembi di una ferita dopotutto sembrava facile, ma risanare una fiducia vacillante e stanca è un impresa ben più ardua.

Per questo non avrei mai pensato di riuscire a riprendere la mia vita in mano e a ridarle una forma concreta. A rimettere insieme i pezzi, seppur malamente, di un qualcosa che non tornerà mai come prima ma che combatterà per non crollare, di nuovo.
Una parte di me presumo avesse semplicemente fede. Continuava a sperare e a pregare affinché un giorno, guardandomi allo specchio, vedessi nei miei occhi il perdono: per me stessa, per ogni singola persona che mi aveva ferito, per chi non aveva capito che dietro l’aggressività si nascondeva qualcosa di più.
Per chi non c’era mai stato, e la cui mancanza pesava, come solo le lacrime di una bambina sanno pesare. Quanto il peso di tutto il mondo.
Il perdono non è mai arrivato, ma i miei occhi sono diventati più limpidi, a poco a poco, sereni, quieti; da quando ho cominciato a vedere senza filtri d’inibizione le bellezza della vita e ho capito quanto valga la pena di essere vissuta in tutta la sua meraviglia. In ogni sua traccia.

Avevo visto sempre il mondo scisso perfettamente in bianco e nero: amare o odiare, vivere o morire, buono o cattivo, giusto o sbagliato. Esasperavo ogni cosa fino alla nausea.
Poi ho incominciato a percepire le sfumature.
Il dolore immobile era grigio, come la triste tinta alla parete della camera in cui sono cresciuta fino agli otto anni, presso l’Istituto religioso delle Suore della Divina Provvidenza. Mura che mi si restringevano contro fino a soffocarmi, riempiendomi gli occhi di sconforto.
L’amore, invece, è blu, come gli occhi di Penelope. Gli stessi occhi che scintillano di luce su di me, quando incrocia i miei e ricorda quella bambina quasi selvatica, stretta ridicolamente nel suo vestitino azzurro. Lo sguardo sfuggente che scoccava occhiate intimidatorie, le labbra strette che non accennavano un sorriso neanche a pagarlo tutto l’oro del mondo.
“La bambina crucciata”, così mi chiamava.
Penny non perde mai occasione di dirmi quanto io sia cambiata e quanto sia orgogliosa di me,
e io continuo a pensare di non essere cambiata poi molto.

Sono solo più in pace con me stessa, da quando ho trovato la forza di racchiudere tutto il dolore nei recessi del cervello e combatterlo. Qualcuno mi ha stretto la mano, mi ha saziato di abbracci e carezze a cui non ero abituata, mi ha aiutato a esorcizzare il dolore.
Qualcuno che pur non conoscendomi ha imparato fin da subito a capirmi.
Penelope Tyler.
Il mio porto sicuro in un mare in tempesta, l’ancora che mi ha permesso di non andare al largo, trascinata dai flussi delle correnti ostili.
Lei ha fatto qualcosa d’incredibile: mi ha voluto bene, semplicemente.
Senza egoismo, senza fini reconditi.
Un amore puro a cui non ero abituata, ma che sognavo da sempre.
Ha riempito la mia sfiducia negli altri di amore, attenzioni, comprensione, voglia di vivere, entusiasmo. Un miracolo è dir poco, insomma.
Allora ho capito che niente è etereo.
Tutto cambia e si evolve.
Anche un’idea, per quanto può essere radicata nella tua testa, prima o poi verrà deformata dal peso del tempo e da come esso ti attraversa.
E, si sa, il tempo è una questione di percezione.
Può scorrerti addosso senza che tu te ne accorga, o può farsi sentire come un macigno, una zavorra che sei costretto a trascinarti dietro con l’entusiasmo di un condannato a morte.

Otto anni per me sono passati in un battito di ciglia, forse fin troppo velocemente…  ma quando la vita ti sorprende hai ben pochi attimi per rimuginare su ciò che sta accadendo proprio a te.
Vivi e basta, con la consapevolezza che un giorno o l’altro tutto possa sparire in una bolla di sapone.
Puff, e rovini ancora una volta al suolo, ferendoti dell’ennesimo squarcio che non si cicatrizzerà. Per mia fortuna, per miracolo o per una strana influenza astrale, questa tremolante ma resistente bolla mi avvolge da otto anni come una calda coperta e non accenna a lasciarmi. Per una volta nella mia vita, posso dirmi di sentirmi al sicuro, a casa.

Mi trascino stancamente verso il bagno. Prima di fiondarmi sotto la doccia do uno sguardo allo specchio. I capelli sono meno peggio di quel che mi aspettavo, niente che un codino ben stretto non possa risolvere. Dopo essermi data una ripulita, e vestita alla meno peggio, scendo al piano inferiore e do uno sguardo veloce all’orologio sulla parete della cucina. La lancetta punta le ore sei e quindici minuti precisi, e il rumoroso ticchettare che proviene dal quadrante sembra incitarmi a darmi una mossa. Il tempo vola e io sono sempre in ritardo per questo mondo in frenetica corsa.
Bevo un bicchiere di latte quasi strozzandomi e macino velocemente qualche cucchiaiata di cereali al cioccolato. Su un vassoio poi adagio una tazza in cui verso il caffè con latte bianco a parte, uno yogurt scremato ai cinque cereali e i biscotti al mais e riso soffiato. Salgo le scale lentamente, facendo ben attenzione a bilanciare il peso e a non rovesciarmi niente addosso. Arrivo alla porta di Penelope e busso lentamente, prima di abbassare la maniglia ed entrare. L’intera camera è già invasa dalla luce -segno che le tende sono scostate- e il sole è così forte che sono costretta a strizzare per un attimo gli occhi in due fessure. Un cerchio alla testa rischia di farmi sbandare, ma mi mantengo con la schiena allo stipite della porta e, quando riacquisto una visuale decente, poggio il vassoio sul comodino.

Portandomi le mani sulle ginocchia mi piego in avanti per arrivare all’altezza del letto e arriccio il naso in una smorfia, mentre la fisso. Lei è già presa dai suoi esercizi di yoga mattutini, la schiena incollata al materasso, i piedi e la testa sollevati di una ventina di centimetri, le mani e i piedi che scattano verso il soffitto, gli occhi chiusi e le palpebre distese; respira profondamente, quasi russasse, e per un momento mi viene il dubbio che sia sonnambula.
La prendo alla sprovvista così, baciandole velocemente una guancia, e lei sorride prima di aprire un occhio - uno solo- e lasciarsi andare sul materasso, con un gran sorriso e un’espressione serafica sul volto.

«Lo sai che prima o poi finirai per spezzarti la schiena, vero?» le dico,  mescolando con il cucchiaino lo zucchero sul fondo del caffè, prima di allungarlo con il latte e porgerglielo.
«Oh, gioia mia, buongiorno anche a te!» risponde, mettendosi seduta a gambe incrociate come un indiano d’America.
«Mi hai preparato la colazione, Dio… che razza di rimbambita sono! Non dovevi... almeno oggi che… »
«E’ tutto apposto», la rassicuro con un sorriso. « Non ti preoccupare, lo sai che mi rilassa prendermi cura di te. Solo… per piacere… stai attenta quando fai queste cose...»
«Suvvia, quante storie. Fa un gran bene alla salute, davvero. Fa convergere tutte le energie del corpo al centro dell’ombelico, generando forza di volontà... che poi è proprio quella che mi serve per affrontare quelle pesti all’asilo».
«Sarà perché non lo faccio, allora, il motivo per cui non trovo mai né la forza, né la volontà di alzarmi dal letto ogni santissimo giorno?» chiedo, aggrottando la fronte e scuotendo la testa.
«No, tesoro… quella si chiama vecchiaia precoce!» squittisce, portandosi la tazzina alle labbra e sorseggiando a occhi chiusi.
Spalanco la bocca a formare una perfetta “O” prima di ribattere: «E la tua sicuramente è giovinezza isterica, o terza età disturbata». Penny riempie le guance come una bambina dispettosa e sbuffa.

«Solo una parola, piccola mia: invidia. Tu agogni la mia longevità e il fatto che io sia nel fiore della mia età e non m’abissi nella decadenza che tocca gli over 70!»
«Oh già… dimenticavo… come posso non invidiarti dal fiore dei miei diciotto anni? Come?»
«A proposito di questo, stasera abusa della libertà di invitare chi vuoi da noi. Si festeggia alla grande. Fragole, champagne, cascate di panna e cioccolato fuso».
«Penny?»
«Si?»
«Attenta al diabete!»

La vedo riaprire gli occhi di botto e sgranarli colpita nel segno.
Così me la do a gambe levate.
Scendo le scale di corsa, afferro il trench e la borsa dall’attaccapanni, quando sono sull’uscio della porta una voce mi arriva strozzata alle spalle: «Ma chi ti dice queste cose? Non ho mica il diabete io?»
Sorrido. Questo è davvero negare l’evidenza.
Abbottono il trench e affondo le mani nei guanti, mentre mi incammino per le strade della First High Street in direzione di Mapper Street. Lo spazzino al marciapiede apposto, con la lunga e sfilacciata scopa di paglia, raccoglie le colorate foglie autunnali, grattando il manto stradale e ammucchiandole in un angolo.

La grassoccia signora Brown, proprio in quel momento, varca la soglia della sua abitazione. Una tutina striminzita fascia appena -e non con poca fatica- il suo corpo grondante di rotoletti di ciccia. Indossa scarpe da ginnastica fosforescenti ai piedi, sul capo pompose cuffie da cui ascolta la musica a palla, una fascia rosa a fermare gli ispidi capelli rovinati da tinte e permanenti. E’ truccata con maestria come se la stessero aspettando per qualche serata di Gala, il Red Carpet della notte degli Oscar o qualche altro evento mondano immancabile. Mi chiedo come faccia a correre e a sudare, con quintali di trucco sul viso che presto coleranno a macchiare la sua “bella” mise sportiva. E’ seguita dal suo cane, Mr. Munks, grosso quanto un cavallo, grasso quanto un maiale.
Ogni mattina è sempre la stessa storia: la signora Brown caccia dalla tasca una succulenta salsiccia e la passa sotto al muso della povera bestia, affamata chissà da quanti giorni.
Poi se la rificca in tasca e incomincia a correre.
Mr. Munks si agita e abbaia, mentre rincorre la sua padrona allo scopo di azzannarle il sederone grosso e tondo, scambiandolo per un prosciutto. Due volte su tre non riesce nemmeno ad evitare di schiantarsi nel mucchio di foglie, facendole così volare via nella brezza mattutina in una scia colorata.

Bob è così costretto a incominciare ancora una volta il suo lavoro, livido dalla rabbia, mentre urla «Stia più attentaaaa!», alle spalle della signora Brown, inutilmente.
La maggior parte delle luci, dalle finestre delle abitazioni, si accendono una dopo l’altra, come sotto la magia di un effetto a catena. Come mille luci intermittenti su un festoso albero di Natale.

Gli abitanti dell’High Street si sono rassegnati, ormai, all’idea che la signora Brown abbia bisogno del suo footing mattutino per cercare, invano, di smaltire la ciccia. A niente sono servite le riunioni  cittadine in piazza. Secondo la signora Brown, Powerell Town è una città dall’aria fin troppo sonnolenta e fiabesca, era quindi ora di darle una svegliata, così ci aveva pensato lei.
Mr. Munks era diventato la sveglia personale dell’intero quartiere. Quando lui abbaiava, voleva dire che sicuro erano le sei e quindici passate. Era ora di raccogliere il coraggio, scostare le coperte, alzarsi dal letto e prepararsi ad affrontare una nuova, lunga, interminabile ed estenuante giornata. Da un po’ di tempo Mr. Munks non è più la mia “sveglia quotidiana”. Mi sveglio molto prima, ridestata da un sogno ricorrente.
Sogno. Non incubo.
Niente mostri o fantasmi, ufo o insetti giganti.
Niente signora Brown in vasca da bagno, immersa tra bolle di sapone colorate, schiuma soffice, e oli profumati; né Mr. Munks avvolto in un morbido accappatoio rosa shocking, con grossi bigodini avvolti attorno al pelo lungo e disordinato.
Sogno una strada, niente di più, niente di meno.
Un silenzio assordante mi tappa le orecchie, fino a quando non sento dei passi solcare il terreno e dei respiri profondi, affannati. E mi rendo conto che appartengono a me.
Niente di che, direte voi. Non c’è bisogno di agitarsi per così poco!

Si dice che i sogni siano il modo in cui l’inconscio cerca di mettersi in contatto con la parte raziocinante del cervello, trasmettendo dei messaggi, segnali criptici e incomprensibili.
La mia vita effettivamente assomiglia a una strada, interminabile e deserta, con scenari sempre uguali che si ripetono giorno dopo giorno.
Io continuo a camminare, alla cieca, senza punti di riferimento.
Certe volte mi sembra di essere imprigionata nella mia testa, di vivere in un corpo estraneo, un involucro di carne anonimo. Tutto ciò che faccio non è mai realmente quello che desidero. E quello che desidero rimane solo, appunto, un desiderio. Scuoto la testa e affondo le mani nelle tasche del trench mentre la schiena della signora Brown sparisce oltre l’angolo, in direzione del Powerell Park.

«’Giorno Bob, ancora non l’hai invitata a cena, presumo?»
«Buongiorno, Aria» mi saluta, alzando il viso dall’asfalto e aprendosi in un sorriso cordiale.
«No. Niente invito a cena. Non mi vede neanche, sono trasparente per lei... come potrebbe accettare... non se ne parla».
«Io rimango sempre dello stesso parere. Tu le piaci... la signora Brown muore per te... e ogni santissimo giorno esce da quella porta allo stesso orario solo per vederti. Per stuzzicarti.... aspettando che tu le dica che non c’è bisogno che lei si affanni in questo modo, è bellissima proprio così com’è. Tonda e sana!»
Bob affonda il viso dietro la visiera del berretto, per nascondere le guance.
«Forse... dovrei... ecco... dovrei chiederglielo, sì. Un invito a cena... ufficiale. Un appuntamento».
«Per quel che mangia ti converrebbe più estinguere un mutuo che pagarle una cena... ma... l’idea non è male».
«Una pizza, allora... una pizza, sì. Potrebbe andare. Da Don Giro, a Mapper Street».
«Facciamo anche un po’ di frittura. Sai com’è... lo stomaco per alcuni è un buco nero mooolto profondo! E del vino, ottimo vino. E prendile dei fiori, alle donne come lei piace essere lusingate!»

Bob serra le mani sudate convulsamente attorno al manico della scopa e respira trafelato, pressato dall’ansia.

«Perché dovrebbe accettare? Insomma... guardami!».
«Ti sto guardando».
«Una donna come lei... sono all’altezza?» borbotta, roteando gli occhi e riprendendo a raccogliere le foglie nervosamente.

«Primo: sei un uomo apposto, maturo, indipendente. Secondo: per voi è diverso dalle donne, gli anni che passano e i capelli brizzolati vi donano un certo fascino, un vissuto da scoprire», Bob abbassa la testa e sorride di nascosto, compiaciuto.
«Terzo: perché diamine non dovresti piacerle? Piuttosto, perché a te piace lei? Questo è ancora un mistero per me...» gli chiedo, sistemandomi la borsa in spalla.

 «E’... qualcosa... qualcosa che non provavo da tempo. Insomma, all’inizio m’infastidiva solo, era un’antipatica donna con un cane ridicolo. Giorno dopo giorno mi dicevo che avrei dovuto parlarle, dirle di cambiare atteggiamento, di rispettare il lavoro degli altri. Non l’ho mai fatto...»
Per un attimo Bob mi sembra in uno stato di catalessi mentre mi parla della signora Brown.
Mi chiedo come faccia l’amore a rendere la gente così cieca.
Poi mi rendo conto che non è carino lasciarlo parlare da solo e riafferro il discorso faticosamente.

«... sei mesi fa per una settimana è stata a letto, ho saputo che era malata... febbre, dicevano. Ecco, io l’aspettavo sempre, ogni mattina. E non vederla mi rendeva inquieto. Dopo una settimana finalmente l’ho rivista... e ho sentito lo stomaco accartocciarsi». Me lo racconta deviando il mio sguardo, imbarazzato. Guarda l’orizzonte che si illumina sempre più. Sono certa che i suoi occhi, così scuri, adesso siano brillanti come la punta di un diamante.

Sorrido e gli do una pacca su una spalla.

«Quarto motivo: sei romantico. Raccontale questo a cena, proprio come hai fatto con me. Ti salterà addosso».
Immagino di essere camuffata dietro a un menù, mentre spio il loro appuntamento romantico, prima di aggiungere: «Oddio, magari salta tu addosso a lei che è meglio... lo so che sarebbe un dolce peso, ma data la stazza meglio non rischiare di compromettere una vertebra o due».
Bob mi dice che l’ho convinto, vuole provarci, ma vuole organizzare le cose in grande.
Io gli dico che, se vuole, per qualunque cosa, sono a sua disposizione.
Si sfila il berretto e mi saluta agitandolo energicamente.
Ricambio il saluto, allontanandomi, agitando anch’io la mano e urlando: «Ricorda... S.P.N.L.»
«Sempre» risponde lui, scuotendo un pugno al cielo. «Si persevera nella lotta!»

 Dopo l’incontro con Bob il mio umore cambia vertiginosamente e allora capisco: basta un niente a dare la svolta a una giornata particolarmente uggiosa; un incontro giusto, un’occasione all’ultimo minuto, un sorriso spontaneo da un passante cordiale. Insomma, semplicemente qualcosa che vada a rompere i banali schemi della quotidianità.
Gli alti marciapiedi di mattoni dell’High Street lasciano il posto a quelli asfaltati e lisci di Mapper Street. Proprio tra il negozio di fiori di Madama Lily e la pizzeria italiana “Da Don Giro”, una piccola e modesta insegna recita:

“Da Joshua Gideon. Wake up Brain. Libreria-Biblioteca cittadina dal 1903”

Sono arrivata a destinazione... ma mi sento ancora in alto mare, disgustata.
Mi tengo occupata, come sempre, per non pensare.
Eppure mi ritrovo a rincorrere quei pensieri sfilacciati come se ne dipendesse della mia vita.
Mi accontento, è questa la realtà.
Mi sto accontentando della mia vita, e cerco di convincere me stessa che mi sta bene così.
Che forse è destino... e che prima o poi tutto avrà un senso.
Perché anche se Powerell Town è la mia casa ormai, preferirei non essere qui.
Preferirei inseguire i miei sogni altrove.

La borsa di studio non è arrivata. In compenso ho ricevuto lettere di ammissione pompose ed eleganti da università in Transilvania, Polonia e perfino Alaska.  Adesso non mi resta che aspettare l’arrivo di altre buste diligentemente affrancate, con annesse e connesse borse di studio, dal Circolo Polare Artico, Timbuctù e, per finire in bellezza, dal Triangolo delle Bermuda.
Mi rendo conto che il mio senso dell’umorismo sia fin troppo tagliente, e vorrei davvero infischiarmene... ma quando ansimi alla conquista spasmodica di un obiettivo e te lo vedi negato su due piedi, con una semplice scrollata di spalle, inevitabilmente qualcosa muore dentro di te.
Io affronto tutto con il mio pessimo e scadente senso dell’umorismo.

C’è chi si piange addosso... chi non si sconforta e da un giorno all’altro si reinventa completamente una nuova vita, nuovi sogni, nuove aspirazioni. E poi c’è chi è bloccato, ha paura di guardare in faccia la realtà.
Ha paura di ferirsi di nuovo, desiderando qualcosa con la stessa energia, in modo disperato, per poi essere di nuovo deluso.
E poi ci sono io: quiete piatta all’esterno, tumulto all’interno.
Sono schiava dei miei pensieri, pretendo che tutto sia logico, e non c’è cosa più irrazionale dei sentimenti.
La rabbia, la delusione, l’insoddisfazione.
La gamma delle emozioni non può essere dissezionata con il bisturi della logica.

Allo stesso tempo, però, non posso chiudermi in casa, mummificarmi a letto; diventare un tutt’uno col materasso e la televisione, imbottirmi di cibo spazzatura per dissipare la collera
A detta di Penelope quello era solo un periodo che sarebbe passato presto.

«Esci, fai delle lunghe camminate. Pensa... pensa a ciò che veramente ti fa stare bene. Cerca te stessa e ritrovati. Perché questa non sei tu!»

Io sono uscita, ho camminato a lungo. Di giorno e di notte, col freddo e col caldo.
Con la pioggia, la neve e il sole.
Ho pensato. Tanto, troppo.
E ho capito che quello era il problema: non dovevo pensare. Dovevo... distrarmi.
Almeno tentare di distrarmi mi faceva stare bene, mi faceva di nuovo sperare.
Sperare di poter davvero non pensare più a niente.

Mettevo distanza tra me e il resto nel mondo, con lunghi passi.
La città era piccola e mi capitava di percorrerla a lungo anche per cinque o sei volte consecutive, non me ne accorgevo neanche.
E una sera ho capito il senso di “Cerca te stessa e ritrovati”.
Mi sono ritrovata di fronte a un’insegna, una libreria.
Sono entrata e un calore familiare mi ha imbottito di pace.
Mi sono fatta spazio tra gli scaffali. Ho accarezzato le copertine dei libri, ho annusato di nascosto le pagine, ho sentito con le dita la carta porosa.
E ho ritrovato me stessa.
In una storia. E in un’altra, e in un’altra ancora.
Ho viaggiato all’interno di quelle pagine e mi sono persa, e più perdevo me stessa e più mi ritrovavo.
Ho pianto, eccome se ho pianto, non mi capitava più in quel modo da tanto, troppo tempo.
Nemmeno da bambina mi concedevo il privilegio di quella debolezza troppo spesso.
Ancora una volta esorcizzavo i miei dolori attraverso un tramite: prima era stato l’amore di Penelope, poi erano stati quei libri.

“Wake up Brain” così si chiamava. Ed effettivamente la mia mente non era mai stata così vigile, attiva, bombardata da mille pensieri. Avevo ritrovato me stessa in quelle pagine e, allo stesso tempo, vivendo quelle avventure immaginarie, avevo dato al mio cervello il carburante giusto per traghettarmi verso la luce. Proprio così mi sentivo: a metà tra il buio e la luce.
In viaggio verso la salvezza.
Poi, proprio come nel migliore dei romanzi, una fatalità ha risvegliato totalmente la mia speranza, sopita nel fondo del cuore. Oggi lo chiamerei destino, allora la chiamai sfiga cronica.

Un giorno mi aggiravo tra i nuovi arrivi nella sezione grandi classici e... BAM! Fui travolta da vecchi tomi pesanti e polverosi, che si erano rovesciati da una libreria traballante, cui mancava un piede. Il signor Gideon, proprietario del Wake up Brain, rischiò un infarto fulminante. Dopo mi ha spiegato che, in cuor suo, aveva il terrore che fossi stata schiacciata dal “peso della cultura”, così l’aveva chiamata.

Quando riemersi da quel mare di pagine e pulviscolo lo sentii ringraziare tutte le divinità in cielo in almeno cinque lingue che io non conoscevo, una di queste doveva essere l’aramaico antico. Si scusò all’infinito, era davvero mortificato, e mortificante per me farlo sentire così in colpa. Qualche bernoccolo alla testa non era niente in confronto alla faticaccia che il poveretto avrebbe dovuto fare, per rialzare tutti i libri dal pavimento e riordinarli negli scaffali; decisi, quindi, di non piagnucolare per un probabile trauma cranico. Mi rimboccai le maniche e rimisi tutto a posto.
In seguito è arrivata la proposta di lavoro, e poi il contratto pronto per essere firmato.

Tenere occupati i pensieri.
Trovare qualcosa da fare.
Ci ero riuscita.

«Giuro a me stessa che appena compio diciotto anni faccio la valigia e me ne vado!»
Quella promessa fatta a me stessa si è annichilita nello stesso momento in cui le mie labbra ingenue l’hanno pronunciata.

Otto anni più tardi...
Diversi buoni propositi dopo...
Ecco svelato l’arcano motivo per il quale alle sei di mattina sono già in piedi, qui a Mapper Street. Tocca a me aprire serranda e sono in anticipo di... solo un’ora e mezza.
Mi sporgo oltre il marciapiede e da una macchia di cielo scorgo il quadrante tondo dell’orologio sul campanile. Segna le ore sei e quaranta. Mi sfilo i guanti, che butto malamente nella borsa, mentre afferro le chiavi e m’inginocchio per aprire i lucchetti della serranda.
Uno stralcio di luce mi permette di mettere a fuoco la scena, mentre un velo di sudore freddo incomincia a intorbidirmi la fronte.
I lucchetti sono già aperti e la serranda è leggermente scostata da terra.
LADRI!!!

Questo è il primo pensiero che mi colpisce, e il panico s’impossessa di me, mentre incomincio a mordermi le unghie nervosamente. Mi guardo intorno alla ricerca di un’arma.
Mai che ci sia una mazza da baseball o una spranga di ferro abbandonata sul selciato quando serve, in attesa di essere brandita come una spada.  Miseriaccia!
Inspira, espira... con calma. Inspirare, espirare.
Il signor Gideon mi ha chiamato ieri sera, chiedendomi cortesemente di aprire al suo posto, impegnato in commissioni improrogabili. E vuoi mettere in dubbio le parole di un vecchietto adorabile, per di più tuo datore di lavoro?
Era passato appositamente la sera prima da me per lasciarmi le chiavi, e scusarsi per il disturbo.
Quindi non è lui, Aria, puoi dire “ciao” alle tue speranze e farle correre via.

Ti ha lasciato le chiavi, Aria. Sei una sua dipendente, quando lui non c’è la responsabilità è nelle tue mani. Lui si fida di te. E’ compito tuo.
Inspiro per l’ennesima volta e tirò su la serranda con un piede, mentre a tentoni cerco l’interruttore sul muro. Non sapevo di possedere tutta questa dose d’istinto suicida.
Poi, finalmente, trovo l’interruttore e mente io sono pronta a farlo scattare qualcosa preme la mia mano. O meglio, qualcuno preme la mia mano.
O meglio ancora, qualcuno preme la mia mano con un’altra mano.
Afferrò il primo oggetto che riesco a trovare alla cieca, lo lancio di fronte a me, dove credo si trovi l’intruso. Sento il rumore di qualcosa che si frantuma in mille pezzi.

No, ti prego. Dio, fa che non abbia appena rotto il fermacarte preferito del signor Gideon, quello dalle sembianze di un elefante indiano, portatogli dal nipote Will dall’India, e che per lui deve possedere dei poteri mistici se si ostina a non buttarlo, nonostante sia un pugno in un occhio.
Perché da quello dipende il destino e l’andamento dell’intero negozio, secondo lui, e se davvero l’ho rotto andremo tutti col culo all’aria, e addio lavoro.
Ma che cavolo sto pensando in un momento del genere?

Un attimo... Will...
No, è impossibile.
E’ a Londra, o a Pechino, no... era Egitto!
O forse Bora Bora.
Ahhhh, insomma...

Cerco disperatamente di staccare la mano che adesso mi cinge il polso.
Un malvivente, un furfante di certo mi avrebbe già aggredita.
Non avrebbe indugiato tutto questo tempo a trattenermi il polso.
Ad accarezzarmi il polso...
Un ladro gentiluomo? Il nuovo Lupin III che ha trovato in me la sua nuova Margot?
Un pazzo evaso da un centro di recupero mentale, o magari da un manicomio criminale?
Avrei urlato volentieri a squarciagola, tanto a fondo da danneggiarmi le corde vocali, ma un sonoro e familiare “Sssshhhhhh” mi zittisce, e mi blocco.
Tutto mi è improvvisamente chiaro quando un respiro caldo mi arriva sul collo, una mano incomincia ad accarezzarmi i capelli e una voce impastata dal divertimento mi arriva alle orecchie.
«Che culo!!! Per poco non mi prendevi in piena faccia. Ah, quasi dimenticavo. Buon Compleanno!»

**

*SpazioAutrice*
Ok, siamo tornati. Sono felice, molto emozionata, spaventata (tutto insieme e giuro che non è uno spasso).
No, a parte gli scherzi, sono davvero felice di aver ripreso a raccontare le vicende di Aria, sono davvero felice di avere di nuovo il coraggio di introdurvi nel suo mondo, nel mondo che io ho creato per lei e adesso sento molto mio. Rispetto alla versione precedente qui c’è un lavoro sui personaggi diverso, ormai ho passato tanto tempo in loro compagnia, sento di conoscerli, parlano nella mia testa (e Aria è la più rumorosa di tutti, come avrete capito!)
Io ringrazio tutti quelli che hanno letto il prologo, ringrazio soprattutto chi mi seguiva prima e adesso continua a seguirmi (Giagiola, sto parlando di te!).
Grazie anche a chi legge in silenzio.
Alla prossima.

-Francesca.

   
 
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