Look your Falling Star :: One Chap (It’s Time)
Otto
anni dopo...
Le
palpebre ancora incollate dal sonno,
annaspo alla ricerca di un barlume di lucidità, mentre
strizzo gli occhi con il
dorso della mano e mi lascio andare a uno sbadiglio profondo, che
assume le
sembianze di un ruggito rauco, degno di un re della savana. I miei
capelli
devono rassomigliare a una rossiccia criniera crespa. Quando ho passato
una
mano tra la “chioma” –se è
lecito definirla in questo modo- è rimasta
impigliata e c’è voluto un bel po’ prima
di scrollarla da lì, non senza
strapparmi una ciocca o due di capelli.
Maledetta umidità, maledetta pioggia,
maledetto freddo, maledetto tutto.
Forse farei meglio a serrare di nuovo gli
occhi e sparire con la testa sotto le coperte, tappandomi le orecchie
con il
cuscino.
Mi chiedo che ore possano essere prima
di individuare un debole cono di luce che entra dalla finestra e si
riflette
sulla parete di un blu elettrico.
Il sole sta sorgendo.
Come ha sempre fatto: sorge a Est per poi
congedarsi alla vista sparendo a Ovest.
Il sole sorge sempre.
E’ una sterile sicurezza da accantonare e
custodire come una preziosa e rara reliquia;
un’illuminazione, ecco cosa mi
servirebbe davvero, nel
black-out che si fa sempre più fitto nel mio cervello. Con
nervosismo scalcio
le coperte ai miei piedi e porto su il busto rigidamente come un automa
privo
di sinapsi, manco fossi Frankenstein con un bullone che mi perfora il
cranio.
Poggio i piedi contemporaneamente al pavimento
–l’ho detto che sono una persona
previdente- e quando avverto le piastrelle come ghiaccio sulla mia
pelle mi
piego in avanti, aggrappandomi al materasso, e sparisco con la testa
sotto il
letto per recuperare le pantofole. Mi lascio andare a manovre da
contorsionista
pur di ispezionare tutto il perimetro del pavimento, senza
però lasciare andar
via il confortante e avviluppante calore del mio corpo, imprigionato
nel
materasso, nelle lenzuola e nel cuscino.
Delle mie pantofole, neanche a dirlo, non
c’è traccia.
Maledico mentalmente il mio disordine
cronico e faccio appello a tutte le mie forze per raccogliere il
coraggio
necessario ad abbandonare il mio dolce letto. Saltellando sul posto
raggiungo
la finestra, spalanco la tenda illuminando a giorno tutta la camera e,
infine
–solo dopo aver recuperato e indossato la vestaglia- spalanco
le imposte e
lascio che la brezza mattutina mi soffi sul viso.
Un profumo di pane appena sfornato arriva
dall’angolo che divide First High Street da Mapper Street, e
il mio stomaco fa
le capriole dalla fame.
Mentre il pallido sole autunnale irradia
giochi di luce sui tetti dei primi edifici del piccolo quartiere
residenziale
First High Street, l’ambiente si riempie di una piacevole e
carezzevole sensazione
di tepore. Dall’alto scruto i profili delle abitazioni, che
riflettono la loro
ombra obliquamente sul selciato.
Perché con il tempo ho scoperto che
Powerell Town è un città davvero bizzarra in cui
vivere, e ancora di più lo sono
i suoi abitanti ma, dopotutto, anche questa è casa.
Che poi bizzarri è solo il primo di una
serie di sinonimi: pazzoidi, schizzati, psicotici, scriteriati... e via
dicendo.
Mi chiedevo spesso, i primi tempi di
permanenza forzata qui, perché Dio avesse dimenticato questo
posto sperduto quando
distribuiva intelligenza e buonsenso nel mondo.
Allo stesso modo, mi chiedo tuttora
perché abbia voluto rimediare in qualche modo -rendendosi
conto troppo tardi
della sua madornale mancanza- dispensando eccentricità in
quantità
spropositate, giusto per compensare a una sua precedente falla
d’attenzione.
Perché è così che vedevo i miei vicini
attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni, seppur cresciuta
troppo in
fretta, ma pur sempre bambina dentro, nel profondo.
Oggi,
dopo lungo tempo, posso affermare
di aver sviluppato un discreto autocontrollo a tutto questo e, anzi,
sono grata
a quel Dio tanto indaffarato per avermi condotta qui, ben otto anni fa,
e non altrove.
Perché, grazie al Cielo, crescere in questo modo mi ha fatto
tornare un po’
bambina, anche se a tarda età, e mi ha restituito indietro
con l’interesse un
pizzico di ciò che è stato strappato via alla mia
infanzia fin troppo presto.
Ho compreso che la pazzia è
inevitabilmente all’ordine del giorno se abiti a Powerell
Town e, una volta
assimilato questo concetto, tutto è tornato alla
normalità nella mia personalissima ottica.
Poi
qualcosa è cambiato.
Io sono cambiata.
Il buco nero che avvertivo al centro del
petto ha incominciato a rimpicciolirsi.
Non
nascondo che ci sono ancora giorni in
cui mi sento persa, quasi privata dall’anima, perfino
impassibile e distaccata
di fronte alle ingiustizie e alle sofferenze altrui; penso a come ho
sempre patito
il dolore io: in silenzio, la testa china, lo sguardo basso, e poi
agguerrita,
disperata, recalcitrante e testarda. Mi sento vicina a quel batuffolo
di
piccola donna qual’ero, risento il dolore come se non fosse
passato neanche un
giorno da allora, lo stesso di sempre; quello da cui nessun medico
può curarti.
Come si può, dopotutto, liberarsi dalla prigione dei
ricordi?
Essi
si fanno spazio dentro di te
distorcendosi in volute di fumo nero, imprigionandoti nelle tue stesse
membra,
facendoti sentire meno che niente. Inquinando anche quel barlume di
speranza
che ancora ansima alla ricerca di ossigeno, per bruciare
silenziosamente e
donare calore, nei momenti in cui i fantasmi del passato tornano a
farti visita
come ombre inquiete.
Il male ricevuto non si può mai dimenticare,
lascia tracce invisibili molto diverse dalle cicatrici; squarci che non
smetteranno mai di grondare sangue, dentro. Ferite che non si
cicatrizzeranno
mai. E forse crederai anche di esserci riuscito, di aver perfino
dimenticato
tutto quel dolore, ma basterà un solo passo falso, solo uno,
a riportarti
indietro.
A
ricordarti che non hai perdonato.
Solo uno ti farà voltare, e allora
capirai quanto hai provato a ignorare, serrandoti in una prigione dalle
mura
alte, inutilmente.
Per proteggerti.
Per
proteggermi.
Perchè proprio a me, tra tanti, perché
proprio io. Un pensiero egoista ma ragionevole, da fallibile e
miserabile
essere umano, con molte certezze e poco coraggio.
Poi ho capito, almeno in parte: la
sofferenza non va compresa, neanche volendo, ma compatita.
Puoi convivere con il dolore, giorno dopo
giorno.
Accoglierlo come un vecchio amico dentro
di te, lasciare che ti racconti le vecchie avvenute passate insieme,
sopportare
le urla nella tua testa... sperare che tutto ciò ti renda
coriaceo, pronto a
ciò che verrà –che non potrà
mai essere peggio di ciò che già è
stato-,
sorreggendoti su altrettanti fallibili scudi di molle, ma confortante,
creta; e
abituarti all’idea che non ti resta niente se non
la rassegnazione, ricucire i lembi di una ferita dopotutto sembrava
facile, ma
risanare una fiducia vacillante e stanca è un impresa ben
più ardua.
Una parte di me presumo avesse
semplicemente fede. Continuava a sperare e a pregare
affinché un giorno, guardandomi
allo specchio, vedessi nei miei occhi il perdono: per me stessa, per
ogni
singola persona che mi aveva ferito, per chi non aveva capito che
dietro
l’aggressività si nascondeva qualcosa di
più.
Per chi non c’era mai stato, e la cui
mancanza pesava, come solo le lacrime di una bambina sanno pesare.
Quanto il
peso di tutto il mondo.
Il perdono non è mai arrivato, ma i miei
occhi sono diventati più limpidi, a poco a poco, sereni,
quieti; da quando ho
cominciato a vedere senza filtri d’inibizione le bellezza
della vita e ho
capito quanto valga la pena di essere vissuta in
tutta la sua meraviglia. In ogni sua traccia.
Poi ho incominciato a percepire le
sfumature.
Il dolore immobile era grigio, come la
triste tinta alla parete della camera in cui sono cresciuta fino agli
otto
anni, presso l’Istituto religioso delle Suore della Divina
Provvidenza. Mura
che mi si restringevano contro fino a soffocarmi, riempiendomi gli
occhi di
sconforto.
L’amore, invece, è blu, come gli occhi di
Penelope. Gli stessi occhi che scintillano di luce su di me, quando
incrocia i miei e ricorda quella
bambina quasi
selvatica, stretta ridicolamente nel suo vestitino azzurro. Lo sguardo
sfuggente che scoccava occhiate intimidatorie, le labbra strette che
non
accennavano un sorriso neanche a pagarlo tutto l’oro del
mondo.
“La bambina crucciata”, così mi
chiamava.
Penny non perde mai occasione di dirmi quanto
io sia cambiata e quanto sia orgogliosa di me,
e io continuo a pensare di non essere
cambiata poi molto.
Sono
solo più in pace con me stessa, da
quando ho trovato la forza di racchiudere tutto il dolore nei recessi
del
cervello e combatterlo. Qualcuno mi ha stretto la mano, mi ha saziato
di
abbracci e carezze a cui non ero abituata, mi ha aiutato a esorcizzare
il
dolore.
Qualcuno che pur non conoscendomi ha
imparato fin da subito a capirmi.
Penelope Tyler.
Il mio porto sicuro in un mare in
tempesta, l’ancora che mi ha permesso di non andare al largo,
trascinata dai
flussi delle correnti ostili.
Lei ha fatto qualcosa d’incredibile: mi
ha voluto bene, semplicemente.
Senza egoismo, senza fini reconditi.
Un amore puro a cui non ero abituata, ma
che sognavo da sempre.
Ha riempito la mia sfiducia negli altri
di amore, attenzioni, comprensione, voglia di vivere, entusiasmo. Un
miracolo è
dir poco, insomma.
Allora ho capito che niente è etereo.
Tutto cambia e si evolve.
Anche un’idea, per quanto può essere
radicata nella tua testa, prima o poi verrà deformata dal
peso del tempo e da
come esso ti attraversa.
E, si sa, il tempo è una questione di
percezione.
Può scorrerti addosso senza che tu te ne
accorga, o può farsi sentire come un macigno, una zavorra
che sei costretto a
trascinarti dietro con l’entusiasmo di un condannato a morte.
Otto
anni per me sono passati in un
battito di ciglia, forse fin troppo velocemente… ma quando la vita ti
sorprende hai ben pochi
attimi per rimuginare su ciò che sta accadendo proprio a te.
Vivi e basta, con la consapevolezza che
un giorno o l’altro tutto possa sparire in una bolla di
sapone.
Puff, e rovini ancora una volta al
suolo, ferendoti
dell’ennesimo squarcio che non si cicatrizzerà.
Per mia fortuna, per miracolo o
per una strana influenza astrale, questa tremolante ma resistente bolla
mi
avvolge da otto anni come una calda coperta e non accenna a lasciarmi.
Per una
volta nella mia vita, posso dirmi di sentirmi al sicuro, a casa.
Portandomi
le mani sulle ginocchia mi
piego in avanti per arrivare all’altezza del letto e arriccio
il naso in una
smorfia, mentre la fisso. Lei è già presa dai
suoi esercizi di yoga mattutini,
la schiena incollata al materasso, i piedi e la testa sollevati di una
ventina
di centimetri, le mani e i piedi che scattano verso il soffitto, gli
occhi
chiusi e le palpebre distese; respira profondamente, quasi russasse, e
per un momento
mi viene il dubbio che sia sonnambula.
La prendo alla sprovvista così,
baciandole velocemente una guancia, e lei sorride prima di aprire un
occhio -
uno solo- e lasciarsi andare sul materasso, con un gran sorriso e
un’espressione serafica sul volto.
«Oh, gioia mia, buongiorno anche a te!»
risponde, mettendosi seduta a gambe incrociate come un indiano
d’America.
«Mi hai preparato la colazione, Dio… che
razza di rimbambita sono! Non dovevi... almeno oggi che…
»
«E’ tutto apposto», la rassicuro con un
sorriso. « Non ti preoccupare, lo sai che mi rilassa
prendermi cura di te. Solo…
per piacere… stai attenta quando fai queste
cose...»
«No, tesoro… quella si chiama vecchiaia
precoce!» squittisce, portandosi la tazzina alle labbra e
sorseggiando a occhi
chiusi.
Spalanco la bocca a formare una perfetta
“O” prima di ribattere: «E la tua
sicuramente è giovinezza isterica, o terza
età disturbata». Penny riempie le guance come una
bambina dispettosa e sbuffa.
«Penny?»
«Si?»
«Attenta al diabete!»
Così me la do a gambe levate.
Scendo le scale di corsa, afferro il
trench e la borsa dall’attaccapanni, quando sono
sull’uscio della porta una
voce mi arriva strozzata alle spalle: «Ma chi ti dice queste
cose? Non ho mica
il diabete io?»
Sorrido. Questo è davvero negare l’evidenza.
Abbottono il trench e affondo le mani nei
guanti, mentre mi incammino per le strade della First High Street in
direzione
di Mapper Street. Lo spazzino al marciapiede apposto, con la lunga e
sfilacciata scopa di paglia, raccoglie le colorate foglie autunnali,
grattando
il manto stradale e ammucchiandole in un angolo.
La
grassoccia signora Brown, proprio in
quel momento, varca la soglia della sua abitazione. Una tutina
striminzita
fascia appena -e non con poca fatica- il suo corpo grondante di
rotoletti di
ciccia. Indossa scarpe da ginnastica fosforescenti ai piedi, sul capo
pompose
cuffie da cui ascolta la musica a palla, una fascia rosa a fermare gli
ispidi
capelli rovinati da tinte e permanenti. E’ truccata con
maestria come se la
stessero aspettando per qualche serata di Gala, il Red Carpet della
notte degli
Oscar o qualche altro evento mondano immancabile. Mi chiedo come faccia
a
correre e a sudare, con quintali di trucco sul viso che presto
coleranno a
macchiare la sua “bella” mise sportiva.
E’ seguita dal suo cane, Mr. Munks,
grosso quanto un cavallo, grasso quanto un maiale.
Ogni mattina è sempre la stessa storia:
la signora Brown caccia dalla tasca una succulenta salsiccia e la passa
sotto
al muso della povera bestia, affamata chissà da quanti
giorni.
Poi se la rificca in tasca e incomincia a
correre.
Mr. Munks si agita e abbaia, mentre
rincorre la sua padrona allo scopo di azzannarle il sederone grosso e
tondo,
scambiandolo per un prosciutto. Due volte su tre non riesce nemmeno ad
evitare
di schiantarsi nel mucchio di foglie, facendole così volare
via nella brezza
mattutina in una scia colorata.
Bob
è così costretto a incominciare
ancora una volta il suo lavoro, livido dalla rabbia, mentre urla
«Stia più
attentaaaa!», alle spalle della signora Brown, inutilmente.
La maggior parte delle luci, dalle
finestre delle abitazioni, si accendono una dopo l’altra,
come sotto la magia
di un effetto a catena. Come mille luci intermittenti su un festoso
albero di
Natale.
Mr. Munks era diventato la sveglia
personale dell’intero quartiere. Quando lui abbaiava, voleva
dire che sicuro
erano le sei e quindici passate. Era ora di raccogliere il coraggio,
scostare
le coperte, alzarsi dal letto e prepararsi ad affrontare una nuova,
lunga,
interminabile ed estenuante giornata. Da un po’ di tempo Mr.
Munks non è più la
mia “sveglia quotidiana”. Mi sveglio molto prima,
ridestata da un sogno
ricorrente.
Sogno. Non incubo.
Niente mostri o fantasmi, ufo o insetti
giganti.
Niente signora Brown in vasca da bagno,
immersa tra bolle di sapone colorate, schiuma soffice, e oli profumati;
né Mr.
Munks avvolto in un morbido accappatoio rosa shocking, con grossi
bigodini
avvolti attorno al pelo lungo e disordinato.
Sogno una strada, niente di più, niente
di meno.
Un silenzio assordante mi tappa le
orecchie, fino a quando non sento dei passi solcare il terreno e dei
respiri
profondi, affannati. E mi rendo conto che appartengono a me.
Niente di che, direte voi. Non c’è bisogno
di agitarsi per così poco!
La mia vita effettivamente assomiglia a
una strada, interminabile e deserta, con scenari sempre uguali che si
ripetono
giorno dopo giorno.
Io continuo a camminare, alla cieca,
senza punti di riferimento.
Certe volte mi sembra di essere
imprigionata nella mia testa, di vivere in un corpo estraneo, un
involucro di
carne anonimo. Tutto ciò che faccio non è mai
realmente quello che desidero. E
quello che desidero rimane solo, appunto, un desiderio. Scuoto la testa
e affondo
le mani nelle tasche del trench mentre la schiena della signora Brown
sparisce
oltre l’angolo, in direzione del Powerell Park.
«Buongiorno, Aria»
mi saluta, alzando il viso dall’asfalto e
aprendosi in un sorriso
cordiale.
«No. Niente invito a cena. Non mi vede
neanche, sono trasparente per lei... come potrebbe accettare... non se
ne
parla».
«Io rimango sempre dello stesso parere.
Tu le piaci... la signora Brown muore per te... e ogni santissimo
giorno esce
da quella porta allo stesso orario solo per vederti. Per
stuzzicarti....
aspettando che tu le dica che non c’è bisogno che
lei si affanni in questo modo,
è bellissima proprio così
com’è. Tonda e sana!»
«Per quel che mangia ti converrebbe più estinguere
un mutuo che pagarle una cena... ma... l’idea non
è male».
«Una pizza, allora... una pizza, sì.
Potrebbe andare. Da Don Giro, a Mapper Street».
«Facciamo anche un po’ di frittura. Sai
com’è... lo stomaco per alcuni è un
buco nero mooolto profondo! E del vino,
ottimo vino. E prendile dei fiori, alle donne come lei piace essere
lusingate!»
Bob serra le mani sudate convulsamente attorno al manico della scopa e respira trafelato, pressato dall’ansia.
«Ti sto guardando».
«Una donna come lei... sono all’altezza?»
borbotta, roteando gli occhi e riprendendo a raccogliere le foglie
nervosamente.
«Primo:
sei un uomo apposto, maturo,
indipendente. Secondo: per voi è diverso dalle donne, gli
anni che passano e i
capelli brizzolati vi donano un certo fascino, un vissuto da
scoprire», Bob abbassa
la testa e sorride di nascosto, compiaciuto.
Per un attimo Bob mi sembra in uno stato
di catalessi mentre mi parla della signora Brown.
Mi chiedo come faccia l’amore a rendere
la gente così cieca.
Poi mi rendo conto che non è carino
lasciarlo parlare da solo e riafferro il discorso faticosamente.
Sorrido
e gli do una pacca su una spalla.
Immagino di essere camuffata dietro a un
menù, mentre spio il loro appuntamento romantico, prima di
aggiungere: «Oddio,
magari salta tu addosso a lei che è meglio... lo so che
sarebbe un dolce peso,
ma data la stazza meglio non rischiare di compromettere una vertebra o
due».
Bob mi dice che l’ho convinto, vuole provarci,
ma vuole organizzare le cose in grande.
Io gli dico che, se vuole, per qualunque
cosa, sono a sua disposizione.
Si sfila il berretto e mi saluta
agitandolo energicamente.
Ricambio il saluto, allontanandomi, agitando
anch’io la mano e urlando: «Ricorda...
S.P.N.L.»
«Sempre» risponde
lui, scuotendo un pugno al cielo. «Si persevera nella
lotta!»
Gli alti marciapiedi di mattoni dell’High
Street lasciano il posto a quelli asfaltati e lisci di Mapper Street.
Proprio
tra il negozio di fiori di Madama Lily e la pizzeria italiana
“Da Don Giro”,
una piccola e modesta insegna recita:
“Da Joshua Gideon. Wake up Brain. Libreria-Biblioteca
cittadina dal
Sono
arrivata a destinazione... ma mi
sento ancora in alto mare, disgustata.
Mi tengo occupata, come sempre, per non pensare.
Eppure mi ritrovo a rincorrere quei
pensieri sfilacciati come se ne dipendesse della mia vita.
Mi accontento, è questa la realtà.
Mi sto accontentando della mia vita, e
cerco di convincere me stessa che mi sta bene così.
Che forse è destino... e che prima o poi
tutto avrà un senso.
Perché anche se Powerell Town è la mia
casa ormai, preferirei non essere qui.
Preferirei inseguire i miei sogni
altrove.
La
borsa di studio non è arrivata. In
compenso ho ricevuto lettere di ammissione pompose ed eleganti da
università in
Transilvania, Polonia e perfino Alaska.
Adesso non mi resta che aspettare l’arrivo di
altre buste diligentemente
affrancate, con annesse e connesse borse di studio, dal Circolo Polare
Artico,
Timbuctù e, per finire in bellezza, dal Triangolo delle
Bermuda.
Mi rendo conto che il mio senso
dell’umorismo sia fin troppo tagliente, e vorrei davvero
infischiarmene... ma
quando ansimi alla conquista spasmodica di un obiettivo e te lo vedi
negato su
due piedi, con una semplice scrollata di spalle, inevitabilmente
qualcosa muore
dentro di te.
Io affronto tutto con il mio pessimo e
scadente senso dell’umorismo.
Ha paura di ferirsi di nuovo, desiderando
qualcosa con la stessa energia, in modo disperato, per poi essere di
nuovo
deluso.
E poi ci sono io: quiete piatta all’esterno,
tumulto all’interno.
Sono schiava dei miei pensieri, pretendo
che tutto sia logico, e non c’è cosa
più irrazionale dei sentimenti.
La rabbia, la delusione,
l’insoddisfazione.
La gamma delle emozioni non può essere dissezionata
con il bisturi della logica.
Allo
stesso tempo, però, non posso
chiudermi in casa, mummificarmi a letto; diventare un
tutt’uno col materasso e
la televisione, imbottirmi di cibo spazzatura per dissipare la collera
Con la pioggia, la neve e il sole.
Ho pensato. Tanto, troppo.
E ho capito che quello era il problema:
non dovevo pensare. Dovevo... distrarmi.
Almeno tentare di distrarmi mi faceva
stare bene, mi faceva di nuovo sperare.
Sperare
di poter davvero non pensare più a niente.
La città era piccola e mi capitava di
percorrerla a lungo anche per cinque o sei volte consecutive, non me ne
accorgevo neanche.
E una sera ho capito il senso di “Cerca
te stessa e ritrovati”.
Mi sono ritrovata di fronte a un’insegna,
una libreria.
Sono entrata e un calore familiare mi ha
imbottito di pace.
Mi sono fatta spazio tra gli scaffali. Ho
accarezzato le copertine dei libri, ho annusato di nascosto le pagine,
ho sentito
con le dita la carta porosa.
E ho ritrovato me stessa.
In una storia. E in un’altra, e in
un’altra ancora.
Ho viaggiato all’interno di quelle pagine
e mi sono persa, e più perdevo me stessa e più mi
ritrovavo.
Ho pianto, eccome se ho pianto, non mi
capitava più in quel modo da tanto, troppo tempo.
Nemmeno da bambina mi concedevo il
privilegio di quella debolezza troppo spesso.
Ancora una volta esorcizzavo i miei
dolori attraverso un tramite: prima era stato l’amore di
Penelope, poi erano
stati quei libri.
In viaggio verso la salvezza.
Poi, proprio come nel migliore
dei romanzi,
una fatalità ha risvegliato totalmente la mia speranza,
sopita nel fondo del
cuore. Oggi lo chiamerei destino, allora la chiamai sfiga cronica.
Tenere
occupati i pensieri.
Trovare qualcosa da fare.
Ci
ero riuscita.
Quella promessa fatta a me stessa si è
annichilita nello stesso momento in cui le mie labbra ingenue
l’hanno
pronunciata.
Diversi buoni propositi dopo...
Ecco svelato l’arcano motivo per il quale
alle sei di mattina sono già in piedi, qui a Mapper Street.
Tocca a me aprire
serranda e sono in anticipo di... solo un’ora e mezza.
Mi sporgo oltre il marciapiede e da una
macchia di cielo scorgo il quadrante tondo dell’orologio sul
campanile. Segna le
ore sei e quaranta. Mi sfilo i guanti, che butto malamente nella borsa,
mentre
afferro le chiavi e m’inginocchio per aprire i lucchetti
della serranda.
Uno stralcio di luce mi permette di
mettere a fuoco la scena, mentre un velo di sudore freddo incomincia a
intorbidirmi la fronte.
I lucchetti sono già aperti e la serranda
è leggermente scostata da terra.
LADRI!!!
Questo
è il primo pensiero che mi
colpisce, e il panico s’impossessa di me, mentre incomincio a
mordermi le
unghie nervosamente. Mi guardo intorno alla ricerca di
un’arma.
Inspira, espira... con calma. Inspirare,
espirare.
Il signor Gideon mi ha chiamato ieri
sera, chiedendomi cortesemente di aprire al suo posto, impegnato in
commissioni
improrogabili. E vuoi mettere in dubbio le parole di un vecchietto
adorabile,
per di più tuo datore di lavoro?
Era passato appositamente la sera prima
da me per lasciarmi le chiavi, e scusarsi per il disturbo.
Quindi non è lui, Aria, puoi dire “ciao”
alle tue speranze e farle correre via.
Inspiro per l’ennesima volta e tirò su la
serranda con un piede, mentre a tentoni cerco l’interruttore
sul muro. Non
sapevo di possedere tutta questa dose d’istinto suicida.
O meglio ancora, qualcuno preme la mia
mano con un’altra mano.
Afferrò il primo oggetto che riesco a
trovare alla cieca, lo lancio di fronte a me, dove credo si trovi
l’intruso.
Sento il rumore di qualcosa che si frantuma in mille pezzi.
Perché da quello dipende il destino e
l’andamento dell’intero negozio, secondo lui, e se
davvero l’ho rotto andremo
tutti col culo all’aria, e addio lavoro.
Ma
che cavolo sto pensando in un momento del genere?
No, è impossibile.
E’ a Londra, o a Pechino, no... era
Egitto!
O forse Bora Bora.
Ahhhh, insomma...
Un malvivente, un furfante di certo mi
avrebbe già aggredita.
Non avrebbe indugiato tutto questo tempo
a trattenermi il polso.
Ad accarezzarmi il polso...
Un ladro gentiluomo? Il nuovo Lupin III
che ha trovato in me la sua nuova Margot?
Un pazzo evaso da un centro di recupero
mentale, o magari da un manicomio criminale?
Avrei urlato volentieri a squarciagola,
tanto a fondo da danneggiarmi le corde vocali, ma un sonoro e familiare
“Sssshhhhhh” mi
zittisce, e mi blocco.
Tutto mi è improvvisamente chiaro quando
un respiro caldo mi arriva sul collo, una mano incomincia ad
accarezzarmi i
capelli e una voce
impastata dal divertimento mi
arriva alle orecchie.
**
*SpazioAutrice*
Ok, siamo tornati. Sono felice,
molto emozionata, spaventata (tutto insieme e giuro che non
è uno spasso).
No, a parte gli scherzi, sono
davvero felice di aver ripreso a raccontare le vicende di Aria, sono
davvero
felice di avere di nuovo il coraggio di introdurvi nel suo mondo, nel
mondo che
io ho creato per lei e adesso sento molto mio. Rispetto alla versione
precedente qui c’è un lavoro sui personaggi
diverso, ormai ho passato tanto
tempo in loro compagnia, sento di conoscerli, parlano nella mia testa
(e Aria è
la più rumorosa di tutti, come avrete capito!)
Io ringrazio tutti quelli che
hanno letto il prologo, ringrazio soprattutto chi mi seguiva prima e
adesso
continua a seguirmi (Giagiola, sto parlando di te!).
Grazie anche a chi legge in
silenzio.
Alla prossima.
-Francesca.