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Autore: ladyBrooke    07/03/2013    0 recensioni
morte, lotta, amore, amicizia, paura, ma soprattutto voglia di vivere.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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In quel luogo maledetto, esattamente 16 anni fa mia madre perse la vita.

Di quell’ ospedale ormai non è rimasta più traccia, era stato praticamente raso al suolo, era rimasta solo quella piccola chiesetta sconsacrata dove un tempo i pazienti andavano a pregare, intorno ad essa era cresciuta una folta vegetazione.
Un luogo desolato, era quello che in quel momento mi serviva.
Scrissi a suor Clelia che rimanevo a casa di Cecilia a festeggiare e che sarei ritornata per l’ora di cena.
Mentii, ma non avevo altra scelta, loro non sopportavano l’idea che andassi ogni volta in questo luogo, da loro ritenuto pericoloso.
Infatti, essendo abbandonato, verso sera si riempie di spacciatori e malintenzionati, quel posto è stato testimone di atroci delitti.
Mi arrivò sul cellulare una chiamata da parte della suora, ma io la rifiutai e spensi il cellulare, in quel momento avevo intenzione di parlare con solo una persona.


Entrai lì, era un luogo silenzioso, talmente silenzioso da sentire lo scroscio delle foglie dell’albero di pesco che era a fianco alla chiesa.
Delle piastrelle non rimaneva molto, il pavimento era ricoperto da uno strato spesso di polvere, in alcune parti delle pareti si potevano notare i frammenti dei dipinti che ornavano la chiesa.
L’elemento più particolare però era la luce, la maggior parte della chiesa era buia, tenebrosa, ma dalla grande finestra posta vicino a un vecchissimo organo entrava un bellissimo fascio di luce colorata che illuminava il crocifisso e la navata centrale.
Non c’era nessuno,mi misi in centro alla chiesa, mi distesi a pancia in su e guardai il soffitto.
Su di esso c’era un dipinto, rovinato come le pareti dal tempo, lo sfondo era di un azzurrino molto chiaro.
 A me piaceva pensare che un tempo quell’azzurrino fosse stato un blu notte e quel dipinto rappresentasse una notte stellata e che in centro ci fosse stata la stella più grande che mi guardava e mi proteggeva, mia madre.
Presi in mano, la collana che mi aveva donato prima di morire, era l’unico oggetto suo, l’unico che in un certo senso mi riconducesse da lei, era il più prezioso che avessi.
Lo strinsi in mano, lo stringevo come se con quell’azione riuscissi ad abbracciare mia madre, lo appoggia sul mio petto e il cuore inizio a battere all’impazzata, come se si fosse risvegliata in me una nuova emozione, gioia, affetto, malinconia, solitudine si univano per creare una bellissima ma dolorosa sensazione.

Iniziai a parlare con lei.

Fin da piccola, quando vedevo le altre bambine con i loro genitori, chiedevo a suor Carlottina dove fosse la mia mamma, lei rispondeva che era nel cielo, per osservarmi meglio e che se avessi avuto bisogno di lei l’avrei trovata nella casa del signore.
La prima volta che mi misi a pancia all’aria per parlare con lei fu quando avevo tre anni, dovevo consegnarle il regalo per la festa della mamma,da allora ogni volta che dovevo parlare con qualcuno per qualunque cosa andavo da lei.

“Mamma” sussurrai “e da 16 anni che vivo senza di te, e da 16 anni che non ricevo un tuo sorriso, o una tua carezza, o un tuo abbraccio.
Nessuno può capire come mi sento. Sola.
Mamma, vorrei svegliarmi un giorno e vederti a fianco a me, vorrei che mi preparassi la colazione, vorrei che mi consolassi, vorrei che mi sgridassi, vorrei che tu sia orgogliosa di me.
Mamma, non riuscirò mai ad essere felice, perché tu non ci sei, ho paura di prendere una strada sbagliata perché non ci sei tu a guidarmi, ho paura di perdermi, ho paura di perderti.
Mamma, ti prego, stammi vicino, non abbandonarmi.
Sii orgogliosa di me.”

Restai là non so quanto, per minuti o forse ore, quando sentii un rumore di passi, sembravano di un uomo e per un attimo ebbi paura, uno spacciatore, un drogato? Brividi freddi cominciarono a formarsi sulla mia pelle, gocce di sudore iniziarono a scivolare dalla mia fronte e dalle mie mani, sentivo i polmoni contorcesi su se stessi, come se volessero trattenere tutta l’aria possibile.
Strinsi più forte il ciondolo tanto da farmi male, gocce di sangue iniziarono a uscire dalla mia mano.
Lacrime calde iniziarono a bagnare il mio viso, in quel momento tutta la malinconia che avevo si era trasformata in puro terrore.

“Perché? Perché ero venuta in quel posto? Perché sono stata così incosciente?”. Mentre mi facevo tutte quelle domande, delle immagini iniziarono ad affiorare nella mia mente, titoli di giornali che parlavano di ragazzine stuprate e poi uccise, immagini di funerali con le bare bianche, immagini di persone a me care piangere dal dolore; ma la cosa che in quel momento non riuscivo a sopportare era che non vedevo.
Non vedevo più i miei sogni, le mie aspirazioni, non riuscivo più a vedere il mio futuro e questo mi bruciava il cuore.
Sedici anni. Se quella mattina mi sentivo un’adulta in quel momento capivo di essere solo una bambina. “ sono troppo giovane per morire” pensai “ho ancora tutta la vita davanti, io voglio vivere, io devo vivere”.

Intanto lo sconosciuto era entrato in chiesa, sentivo i passi avvicinarsi sempre più, ed io, ero sempre là, nella stessa posizione, immobile.
L’unica cosa che riuscii a fare fu chiudere gli occhi, anche se la mia curiosità mi imponeva di guardarlo in faccia, la mia paura bloccava ogni mio tentativo di aprirli.
Si fermò proprio affianco a me, si inginocchiò e iniziò a ridere, senti il suo alito addosso al mio, puzzava, un odore nauseabondo, un mix di alcool, droga e fumo.

Cosa fare adesso? Solo ora mi rendevo conto di quanto fosse stato sciocco da parte mia non avere accettato di fare quei corsi di arti marziali che mi avevano offerto un po’ di anni fa.
La mia mano si strinse a pugno, aprì gli occhi immediatamente e gli tirai un pugno in faccia, poi mi alzai in piedi, mentre lui era steso a terra.
Sembrava morto.

Era un uomo verso la cinquantina, magro e alto, aveva i capelli lunghi e un po’ di barba scura, che circondava le labbra tutte screpolate, dalla bocca usciva molto sangue e ad un certo punto un senso di colpa mi assalì.
In mano aveva una mela marcia morsicata.

Mi avvicinai lentamente al corpo disteso a terra, lo scossi con i piedi, ma non si mosse.
Mi allontanai, mi sedetti a terra, e stetti là a guardarlo.
Dopo un po’ di tempo, iniziò a muoversi, mugugnò qualcosa, si cercò di alzare fece qualche passo e poi cadde a terra.
Continuava a parlare, ma io non capivo cosa diceva, poi si accorse della mia presenza.
Prima mi sorrise, ma poi ebbe un ghigno di dolore e si ricordò probabilmente del pugno che gli avevo dato e per un attimo sembrò quasi che avesse paura di me, ma subito si ricompose e mi ringhiò in faccia.

Non mi fece paura, semmai un po’ pena.

“Chi sei?”gli domandai esitante, ma non ricevetti risposta.
Mi alzai, stavo per andarmene quando finalmente lui mi rispose:” Sono il tuo peggiore incubo baby, sono la persona che nessuno vorrebbe incontrare per strada, la gente si allontana da me, ha paura. Io sono il dolore, l’invidia, la cattiveria. Io sono il male, piccola”.
Si stava alzando, pensava di avermi impaurito, ovviamente si sbagliava. Corsi da lui e gli diedi un calcio là, dove il sole non batte, lui dolorante si accasciò a terra dal dolore, la sua faccia aveva preso un colorito bluastro.
”Chi sei?” chiesi ancora, lui mi guardò,mi fissò, probabilmente mi odiava, mi temeva, probabilmente in questo momento aveva voglia di prendere un coltello e di uccidermi, ma a me non importava.
“Garred” ansimò “mi chiamo Garred”.

Stavo per rispondergli ma, guardando fuori, mi accorsi che il sole stava tramontando e, in un attimo, corsi fuori dalla chiesa e mi avviai verso la casa famiglia.
Ripensai allo sconosciuto che avevo incontrato, ma ripensai soprattutto alla chiesetta, mi dispiaceva abbandonare quel posto, forse perché ritenevo quella la mia vera casa.

La casa è dove c’è la famiglia, dove ci si sente al sicuro,dove si è realmente felice, e là, mi sentivo realmente felice.

Arrivata davanti al portone d’ ingresso, non volevo entrare, sapevo cosa sarebbe successo se avessi varcato la soglia, ma non avevo altra scelta.
Dovevo proprio rompere quella sensazione di tranquillità che mi si era creata nel pomeriggio? La risposta era sì.

Dovevo affrontare la realtà.
  
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