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Autore: MelodramaticFool_    09/03/2013    2 recensioni
Andrea e Viola.
Marco e Viola.
Andrea, Marco, Viola, Silvio, Giulia, Gabriele.
Sei Freaks!, una storia.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La strada era deserta.
Giulia camminava affianco Gabriele, in silenzio.
Era strano girare così pacificamente insieme ad un persona che aveva ucciso a morsi.
Era quasi buffo, ironico.
Ironia della sorte, letteralmente.
Con un sorrisetto storto osservò la fiamma dell'accendino balenare davanti al viso stanco del ragazzo. Doveva essere un vizio profondamente radicato in lui, quello del fumo. I movimenti delle mani che accompagnavano i semplici gesti di accendere, scrollare la cenere e portare le labbra al filtro erano resi fluidi dall'esperienza, ed era abituato, evidentemente, a fumare molto, poiché era già alla terza sigaretta, da quando si erano incontrati. Non pareva però che il suo fisico ne risentisse particolarmente; i denti, dritti e perfetti, non erano ingialliti per la nicotina, e nemmeno le unghie, e, inoltre, non sembrava gli mancasse molto il fiato. Sapeva che lui era un Puro, poichè lo aveva letto nel diario che aveva trafugato dalla VEX poco prima di scappare, e che quindi aveva un sistema immunitario molto resistente, praticamente inattaccabile. Però era strano. Giulia non era una fumatrice, si concedeva al massimo una sigaretta ogni tanto, eppure non potè fare a meno di notare che questa strana resistenza di Gabriele le ricordava la sua stessa tempra fisica. I suoi amici, alla prima sigaretta, avevano quasi vomitato, e lei, invece, non aveva risentito di alcun effetto collaterale. Quasi senza accorgersene, stava veramente pensando ad un aspetto che li accumunava. Ma era impossibile; lei non poteva essere una Pura.
Per scacciare questi ragionamenti contorti dalla mente, interruppe quel silenzio ostinato che si era rapidamente insinuato tra loro due e prese la parola.
-Stanno.. Stanno bene, gli altri?- chiese timidamente.
L'altro la guardò per un istante, sorpreso da quella domanda.
-Dipende da cosa intendi per 'bene'.- rispose, fingendo una calma che non aveva e che Giulia smascherò all'istante, guardandolo in viso e scorgendovi un'ombra di spossatezza e di vergogna, forse, che non prometteva nulla di buono.
-Beh.. Con i poteri come gli va?- insistette con delicatezza la giovane.
Gabriele rifletté un secondo.
-Andrea può far fare agli altri quello che vuole, Silvio ha capito che il suo potere è la telecinesi, Viola si è, come dire, evoluta, e adesso riesce a vedere con gli occhi degli altri quando li tocca, ha capito come controllarlo.. L'unico senza speranza temo sia Marco.-
-Marco.. Che potere aveva, lui? Non ricordo che me l'abbia mai detto..-
-Se ne vergogna. Può muoversi nel tempo e nello spazio quando si eccita.-
-Eccita? Intendi sessualmente?- rise Giulia.
-Sì, più o meno.- fece l'altro ridacchiando, contagiato dalla ragazza.
-Bella merda.- considerò la giovane.
-Già.-
Un silenzio imbarazzato si insinuò di nuovo tra i due, e stavolta fu Gabriele a decidere di colmarlo.
-Tu.. Hai capito quale è il tuo..?- chiese guardandola negli occhi, di nuovo serio.
-Non ne sono sicura, ma un'idea ce l'ho..-
Gabriele la incitò con lo sguardo a continuare.
-Non so come spiegarlo.. In alcuni momenti mi sembra di essere un'animale, ne assumo alcune caratteristiche.. Ed è così da sempre. Una volta, da piccoli, io e mio fratello eravamo al mare, e lui.. lui ha rischiato di affogare, io non sapevo nuotare ma mi sono tuffata lo stesso, e..- prese un grosso respiro e disse, tutto d'un fiato -E mi sono trasformata in un pesce, avevo le branchie e le dita palmate, l'ho tirato fuori nuotando fino al fondo.-
Il silenzio che seguì la rivelazione della ragazza indicò che Gabriele stava riflettendo intensamente su ciò che aveva appena detto.
-Non ne avevo mai parlato con nessuno, lo sappiamo solo noi due, io, mio fratello.. E tu, adesso.- aggiunse timidamente.
-I tuoi genitori?-
-Mia madre.. Mia madre sa che non sono del tutto normale, ma non ne abbiamo mai parlato esplicitamente.. E mio padre.. Non lo conosco.-
-Capisco.-
Ecco, di solito, a quel "capisco", che la gente le rivolgeva non appena veniva presa a parte della sua situazione familiare, Giulia si innervosiva e replicava "No, non capisci, non puoi capire.", e metteva in atto un litigio, inutile e rabbioso, che però riusciva ad aumentare sensibilmente il suo ego. Questa volta, però, qualcosa nella figura alta di Gabriele la trattenne dal cominciare con la sua tirata sulla falsa capacità di comprensione della gente. Perché in fondo sentiva che quel ragazzo strano forse era l'unico capace di capirla veramente.
-Il tuo potere è di dare vita alla tua immaginazione, se non ricordo male.- cambiò argomento, puntando su di lui.
-Sì, ma non ricordo di averne mai parlato con te.- fece l'altro, sospettoso.
-Ho tirato a indovinare sulla base di quello che sapevo di te.- cercò di giustificarsi, senza riuscirci particolarmente visto lo sguardo indagatore con cui la stava valutando Gabriele.
-Sicura?- la bloccò, con un'espressione ironica e, allo stesso tempo, turbata.
-Sì.. E poi ho origliato una conversazione di quelli della VEX.-
-Ah sì?-
-Dicevano qualcosa riguardo alla tua memoria, e al fatto che non riuscivi più a star dietro ai mondi paralleli che creavi.-
Era una mezza verità; Giulia aveva veramente origliato una discussione tra alcuni di loro, ma questi non avevano fatto parola di Gabriele o del suo ruolo nell'organizzazione. Le informazione che aveva le erano giunte attraverso il diario che aveva rubato nel laboratorio, e che aveva mostrato al ragazzo poco prima, chiedendogli dell'Uruboro. Gabriele sapeva del furto, ma probabilmente non aveva capito che su quelle pagine erano stati annotati, nero su bianco, tutti i procedimenti dei vari esperimenti, e, soprattutto, decine e decine di osservazioni sul suo potere. Sentì il quadernetto, nascosto in una tasca, e il suo peso parve centuplicarsi sulla sua coscienza. Leggendolo era stata animata da una certa curiosità, ma non poteva fare a meno di sentirsi in colpa per quell'intromissione nel passato del giovane, considerando soprattutto la sua evidente voglia di venir a conoscenza degli eventi che lo avevano portato fin lì.
-E' quasi l'alba.- osservò, lo sguardo al cielo, perso nei suoi pensieri.
-Già.- commentò Giulia, con un sorriso amaro che nemmeno lei sarebbe stata capace di spiegarsi.
-Casa tua è lontana?-
-No, è qui dietro.- rispose -Faccio il caffé.- aggiunse.
 
Odiava gli ospedali.
Odiava tutti quei corridoi di quel bianco malato, l'odore di malattia che perversava ovunque nel reparto lungo degenti, mal mascherato dall'odore acido dei disinfettanti e della candeggina.
Quel bianco che imperversava, sui pavimenti, sui soffitti e sulle pareti spoglie, sui mobili e sulle lenzuola dei malati, dei camici dei medici e nelle vesti dei pazienti. 
Bianco ovunque, che gli annebbiava la vista e che gli faceva venir la nausea, e che gli dava sempre quella sensazione di vuoto mentale, di perdita di speranza; un bianco così inadatto, forse, ad un ospedale.
Andrea uscì dalla clinica tremando, sbattendo le palpebre a scatti per rimuovere ogni ombra di bianco, ancora stampato sulla sua retina.
C'era un motivo per cui non metteva piede in quel luogo da oltre due anni.
La paura.
Riflettendoci sopra, non riusciva a comprendere lo sciocco impulso di andare a trovare la madre. Forse vedendo gli altri così interessati alle loro famiglie, oppure la voglia, semplicemente, di vederla per una volta cosciente, approfittando infaltilmente del suo potere. Stava male all'idea di aver trascurato tanto l'autrice dei suoi giorni; una trascuratezza fisica, a dirla tutta, perché, nonostante cercasse quotidianamente di allontanare dalla mente l'immagine di quella donna esile, magra e malata dalla sua mente, questa finiva ugualmente per occupare i suoi pensieri ogni singolo giorno. La sua visita, in realtà, non aveva fatto altro che turbarlo ancor di più.
Vederla parlare, muoversi, era stato un vero e proprio colpo al cuore.
Perché l'aveva resa coscente con il suo potere, era stato solo uno sprazzo momentaneo.
Andrea si sentiva egoista; l'aveva fatto solo per se stesso, a lei quei pochi minuti non avevano giovato, non avevano contribuito in una eventuale guarigione. L'aveva fatto solo per sentirsi a casa, tra le sue braccia, cullato dalla sua voce dolce, speranzosa e determinata. Per una manciata di fottuti minuti.
Era solo e unicamente un dannato egoista.
Si allontanò rapidamente dall'ospedale, con un macigno sul cuore appesantito a dismisura.
 
Se c'era una cosa che odiava di quel dannatissimo potere, era l'impossibilità, una volta capito come controllarlo, di farne a meno.
Non era come una dipendenza, perché non stava tutto nell'usarlo in sé; era, più che altro, quello di cui era capace, ad attirarla.
Una volta stabilito un certo contatto con qualcuno, Viola poteva decidere di "usare i suoi occhi" ogni qual volta che lo desiderava.
Poteva controllare tutti i movimenti di tutte le persone che aveva toccato.
Si sentiva una maniaca del controllo, ad usarlo.
Ma non poteva farne a meno.
In quel momento il suo potere lo odiava.
Avrebbe preferito non sapere cosa stava facendo Marco in quel momento.
Il solo ripensarci le fece venire un brivido di disgusto.
Cercò di scacciare dalla mente l'orrida immagine di lui assieme a quella donna - a quella vecchia, diciamocela tutta -, ma più provava a dimenticarla, più questa si faceva vivida, stampata a fuoco nei suoi occhi.
Si gettò sul divano con un tonfo. Raccolse i libri da dove li aveva lasciati prima di andare a correre e cercò di studiare, ma le riusciva totalmente impossibile. Dopo mezz'ora persa dietro a complessi algoritmi, si arrese; appoggiò il quaderno, fitto degli appunti annotati con la sua scrittura tutta rotonda, e si sdraiò sul divanetto per il lungo, affondando la testa nei cuscini vecchi che sapevano del fumo delle sigarette fumate nervosamente da Gabriele e Andrea in quegli ultimi giorni, e quell'odore le risultò tanto familiare da farle salire le lacrime agli occhi. Era lo stesso odore che aleggiava per l'officina di suo padre, quel padre che, per colpa del maledetto Simone, non vedeva da anni e anni. L'autore dei suoi giorni glielo aveva detto fin da subito che non era il ragazzo adatto a lei, ma Viola si era intestardita e aveva continuato a frequentarlo. Suo padre aveva capito tutto, fin da subito, e la ragazza si sentiva una morsa nel petto per non avergli dato retta. Pensare a Simone le fece pensare, di riflesso diretto, a Marco. 
Possibile che fosse tanto sfigata, con gli uomini? 
Affondò ancor di più la testa in mezzo alla stoffa scura e dalla gola le uscì un urlo gutturale, acuto e snervato, attutito dal cuscino.
Afferrò il cellulare dalla tasca e si girò sulla schiena. Trovò il contatto di Andrea e si mise a digitare, freneticamente.
"Vieni qui da me, ti prego."
Inviò il messaggio, abbandonò il cellulare e scoppiò a piangere. 
 
Andrea parcheggiò a cento metri da casa di Viola.
"Vieni qui da me, ti prego."
In quel breve messaggino aveva letto un profondo turbamento, e aveva preferito non indagare oltre. 
Si era limitato a rispondere con un semplice "OK", e a prendere il culo e portarlo fin là.
Il ché, vista la sua burrasca emotiva interna, era già stato un grande sforzo.
Aprì il portone del condominio con la chiave di scorta che gli aveva dato Viola quella mattina, e già se ne stava pentendo, di esser venuto, perché quel messaggio non poteva voler dire niente di buono, e sinceramente non gli andava di farsi carico anche dei problemi di qualcun altro; in quel momento gli bastavano di gran lunga i propri.
Questo e altro per Viola, si ritrovò a pensare, stupendosi di se stesso. Da quand'è che era diventato così romantico? Se avesse sentito quella frase in uno di quei film rosa vomitevoli, avrebbe inviato di scatto una lettera alla casa produttrice, anzi, gli avrebbe mandato direttamente una torta di cane, tutta impacchettata e pure con il fiocchetto sopra, e poi sarebbe corso in bagno a vomitare. Però non riusciva a fare a meno di essere così, con Viola, nonostante di disgustasse da solo quando se ne usciva con quei pensieri e quegli atteggiamenti da liceale da serie TV americana in piena crisi ormonale.
Accompagnato da questi pensieri poco, diciamo, convenzionali, salì le scale.
Giunse davanti alla porta dell'appartamento, prese un grosso respiro e bussò forte.
Viola gli aprì dopo pochi attimi interminabili. Dall'alto del suo metro e ottanta e passa, gli parve microscopica e indifesa; aveva gli occhi pesti e i capelli scomposti, doveva aver pianto. Non appena lo vide, ritto sullo zerbino, la ragazza lo abbracciò di slancio, affondando il viso nella felpa pesante. Questi, preso di sprovvista, le accarezzò la testa, quasi con fare imbarazzato, per poi ricomporsi nel giro di qualche secondo. Ricambiò l'abbraccio, stringendola forte, come se il dolore fisico provocato dalla sua stretta potesse rendere più leggero quello morale che la attanagliava. 
Dopo una manciata di minuti passati così, davanti alla porta, abbracciati, Andrea la staccò con delicatezza da sé, tenendola comunque per le spalle, come se stesse per cadere. La giovane lo guardò con gli occhi lucidi, e una lacrima le sfuggì dalle ciglia, scivolando giù per la guancia. Il ragazzo le prese il viso tra le mani e asciugò quella sottile lacrima con il pollice, maldestramente, sforzandosi per assumere un'espressione in grado di rassicurare Viola, in modo che si aprisse con lui. 
Missione compiuta: la ragazza gli prese una mano e lo guidò all'interno dell'appartamento, chiudendosi la porta alle spalle.
Andrea si tolse la giacca, la gettò su una sedia e si gettò sul divano accanto a Viola, seduta a braccia incrociate, rigida.
-Andre.. Scusa se ti ho fatto venir qui di fretta, mi sento così stupida..- cominciò, con fare dispiaciuto.
-Ehi, tranquilla- la interruppe, prendendole le mani e costringendola a guardarlo -Che succede?-
La giovane, pensierosa, si mordicchò il labbro, con fare nervoso.
-Vuoi che ti distragga? Se non vuoi parlarne è okay, sul serio..- disse dolcemente Andrea.
-No, a questo punto..- fece l'altra -Prima ero fuori a correre.. Non so come, e deve essere qualcosa di strano del mio potere che proprio non riesco a spiegarmi.. Ho visto Marco, ho almeno, ho visto quello che vedevano i suoi occhi..-
Nella mente di Andrea iniziò a farsi più chiaro il motivo del turbamento della ragazza: Marco, sempre Marco, era arcistufo di consolarla per le sue cazzate. Non era la prima volta che lei si sfogava con lui, per le attenzioni e le mica attenzioni di quel cazzo di Marco, per i mille dubbi che affollavano la mente della ragazza. Si sentiva come uno sfogamico del cazzo, usato solo per aiutarla a dimenticare quel dannatissimo Marco.
Dentro Andrea iniziò ad accumularsi la rabbia, man mano che Viola continuava il suo racconto e che la consapevolezza della sua condizione lo soffocava.
-..era a casa di una donna, di una vecchia, e lei era lì con un bicchiere di vino, e posso immaginare cosa abbiano fatto dopo, l'atteggiamento era quello.. Andre, non è possibile, come faccio ancora a pensare che gli piaccia, che sia davvero interessato a me, dio, non è possibile..- e scoppiò a piangere, ignara dei sentimenti che si agitavano nella testa di Andrea. Il ragazzo non si avvicinò per consolarla, restò immobile, gli occhi fissi nel vuoto, a elaborare la sua rabbia; qualcosa, dentro di lui, lottava per impedigli di esplodere, di litigare con Viola. Lasciò che l'attacco di pianto le passasse.
-Non ho idea di come tu faccia, sinceramente.- disse freddamente, non appena vide che i singhiozzi della ragazza iniziavano a cessare.
Viola lo guardò stranita, sorpresa del suo tono gelido.
-Come faccia a fare cosa?-
-A chiedermi di correre qui, con un messaggino, facendomi preoccupare come un coglione, senza nemmeno spiegarmi perché, a pretendere che io sia qui a consolarti, a farmi usare come fottuto zerbino per le tue frustrazioni su Marco.- replicò, il tono che montava di ira. 
Era prossimo ad esplodere.
La ragazza lo fissò, inebetita.
-Non ti aspettavi una cosa simile, eh? Sono stufo di essere trattato come il tuo cazzo di sfogamico.-
Viola non aveva ancora spiccicato parola; Andrea continuò, come se la diga che tratteneva tutti quei pensieri lontani dalle labbra avesse iniziato ad incrinarsi, lasciando scorrere inesorabilmente quelle frasi gelide, taglienti, un rivolo d'acqua che andava ingrossandosi, man mano che andava avanti, fino ad arrivare alla potenza distruttiva di un fiume in piena.
-Spero davvero che tu non ti renda conto di quanto mi fa male sentirti dire queste cose, sentirti parlare solo ed esclusivamente di quel coglione di Marco, spero che tu non sia del tutto consapevole di quanto io ci tenga a te, di quanto cerchi di piacerti, perché, cazzo, mi piaci da impazzire, Viola, e davvero lo spero, che tu non sappia, che tu non te ne renda conto, perché altrimenti lo faresti apposta, ed è per questo che lo spero, perché altrimenti saresti solo una bastarda sadica, ti prego, ti impoloro..- disse, tutto d'un fiato, il tono di voce che diventava più empatico ad ogni parola, che passava dal freddo gelido al concitato e caldo, ma di un caldo che bruciava, che scottava.
Quelle frasi, sconnesse, ebbero la forza di uno schiaffo in pieno viso per Viola.
Lo guardò, incredula.
-Andre.. Ma cosa.. Cosa stai dicendo?- disse, balbettando, ma nei suoi occhi scuri Andrea vide passare chiaramente un lampo di comprensione. La diga cedette del tutto, e il ragazzo esplose definitivamente.
-Viola, sai che ti dico? Vaffanculo!- scattò in piedi, urlando -Per te sono solo uno sfogo, e sono arcistufo di essere trattato come l'amico di convenienza! Vai-a-farti-fottere!-
-And-Andrea,- balbettò lei, alzandosi e cercando di prendere il viso del ragazzo tra le sue mani, per guardarlo negli occhi -per me non sei un amico di convenienza, sei l'unica persona con cui riesco a parlare, ho bisogno di sentirti accanto a me, ti-ti voglio bene..-
Il giovane, furente, la guardò dritto negli occhi, la trapanò con il suo sguardo chiaro, per cinque, lunghissimi secondi.
Passati questi pochi attimi, scacciò di malo modo le mani della ragazza dal viso.
Raccolse la giacca e se la mise, seguito ovunque dallo sguardo catatonico di Viola.
Si avvicinò alla porta, abbassò la maniglia.
-Andre.. Ti prego, non te ne andare, ti prego, ti- cercò di bloccarlo lei.
Tutto inutile.
Senza aver il coraggio di guardarla negli occhi, il ragazzo si staccò dalla sua presa e si allontanò rapidamente per le scale.
Uscì in fretta dal condominio, come per mettere la maggiore distanza possibile tra lui e la ragazza.
Si infilò gli auricolari e accese la musica, cercando di distrarsi.
 
Le morti bianche
Le cravatte blu
Il tuo fuoco amico 
L'eyeliner per andare in guerra 
 
Partì una canzone che non ricordava nemmeno di avere, una di quelle canzoni bellissime e deprimenti.
Era di un gruppo italiano che conosceva appena, si chiamavano tipo Le luci elettriche, non ricordava bene, ma al momento non gli veniva in mente il nome giusto.
 
Partigiano portami via 
Saremo come dei dirigibili nei tuoi temporali inconsolabili 
Dammi 50 centesimi, dammi 50 centesimi 
 
Non l'ascoltava da tempi immemori; gli ricordava troppo il suo perido nero, quello di cui non parlava mai con nessuno. Ogni tanto gli capitava, nella riproduzione casuale, ma ogni volta si affrettava a cambiarla, per non lasciarsi sopraffare dai ricordi, per evitare di pensare a tutta la tristezza che aveva provato. Quella volta, invece, rimase ad ascoltarla; le parole del cantante gli rimasero impresse a fuoco nella mente, come marchiate da un ferro rovente.
 
Non mi ero accorto che i tuoi orecchini per i riflessi lanciavano dei piccoli lampi 
Non avevo capito la direzione dei tuoi sguardi 
Che siamo donne, siamo donne, oltre il burqa e le gonne 
 
E' così, pensò amaramente, semplicemente, non avevo capito la direzione dei tuoi sguardi.
Era tentato di cambiarla, ma decise di ascoltarla fino alla fine, quasi per farsi del male.
 
E sempre come un amuleto tengo i tuoi occhi nella tasca interna del giubbotto 
E tu tornerai dall'estero, forse tornerai dall'estero 
E tu tornerai dall'estero, forse tornerai dall'estero 
 
Quella cosa dell'amuleto gli parve quasi ironica, considerando che il potere di Viola consisteva, metaforicamente, nel portare sempre con sé, a portata di mano, gli occhi degli altri.
 
Adesso che quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole, che fanno piovere.
 
E la malinconia prese il sopravvento.




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Bene, merito di essere linciata.
Sono tre settimane che non pubblico niente, quindi, se volete fare qualcosa tipo prendermi a sprangate sulle gengive, siete i benvenuti.
A parte gli scherzi, finalmente ce l'ho fatta! Questo capitolo per me è stato mostruosamente difficile da scrivere. Mi è quasi dispiaciuto un po' farli litigare, e quella non era nemmeno la parte più ostica; più che altro non sapevo bene come riprendere il discorso da dopo le avventure dei ragazzi nelle loro vite private. Infatti, qui si parla dei momenti immediatamente successivi all'incontro di Andrea con sua madre e dell'incontro(scopata) di Marco con la vecchietta, che Viola scopre attraverso il potere. Di Silvio non parlo, e un po' mi è dispiaciuto, ma fare un parentesi su di lui sarebbe stato fuorviante, e inutile, quindi, purtroppo, di lui in questo capitolo non c'è traccia.
Questo è nientemeno che l'ultimo capitolo, il prossimo, gente, è l'epilogo. Mi mancherà scrivere di loro..
A presto,
MelodramaticFool_
  
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