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Autore: LilithJow    12/03/2013    4 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 11
"Awaited"


Fino a qualche tempo prima, avevo desiderato dormire e vedere solo nero. Stare del tutto tranquillo, rilassato, senza pensieri, per poche ore che alla mia testa sarebbero sembrate eterne.
Non ero mai stato propenso ai sogni, l'avevo ripetuto chissà quante volte; ma, quella notte, non avrei voluto fare altro.
Sognai: cose belle, sorrisi, il sole lieve della primavera, il freddo piacevole della neve a fiocchi, il rumore delle onde del mare che si infrangevano sul bagnasciuga. Tutto questo, tutto insieme, in un'unica sensazione che mi regalò pace e la parte migliore era che sapevo benissimo chi ringraziare per ciò.

Quando riaprii gli occhi, quella mattina, ogni cosa era diversa; io per primo. Non ero più perennemente ricoperto di sudore, il mio respiro e il battito del mio cuore erano assolutamente regolari e non tremavo. Mi svegliai con un lieve sorriso stampato in faccia, sfregando lieve una guancia contro il cuscino.
Ero felice, sebbene il pericolo non fosse ancora svanito. Anzi, qualcosa, dentro di me, suggeriva che ciò che era successo la sera precedente era solo l'inizio. Ero pressapoco sicuro che Sebastian fosse un tipo orgoglioso, che sarebbe tornato o per vendicarsi su Johanna o per completare l'omicidio – potevo chiamarlo così? - del sottoscritto.
Nonostante questo, tuttavia, non permisi a me stesso di sprofondare nel panico; il fatto che Johanna fosse ancora lì con me semplificava le cose.
La vidi entrare nella stanza con in mano un bicchiere di caffè di Starbucks e un sacchetto bianco evidentemente pieno di muffin o qualcosa del genere, mentre mi mettevo seduto sul materasso, sfregandomi gli occhi.

«Sono andata a prenderti la colazione» sussurrò, poggiando il tutto sul comodino accanto al letto e prese posto al mio fianco. «Grazie» mormorai, in risposta.

«Figurati, è solo una ciambella».

«Non per... La colazione. Per stanotte. I sogni e tutto il resto».

Sorrise, annuendo appena, ma subito dopo cambiò palesemente discorso: «Ho chiamato anche tua madre, che mi ha ringraziato per... Diciamo averti accompagnato a casa. Lei ha avuto un imprevisto e probabilmente sarà fuori casa per qualche giorno, quindi non avrebbe potuto passare a prenderti ieri sera».

«Uh, sono stato fortunato ad essere aggredito, allora».

Lei abbozzò una risata. Il mio senso dell'umorismo – che in realtà niente aveva a che fare con il vero umorismo, anzi, tutto il contrario – fu fuori luogo, ma nessuno dei due ci diede molto peso. O forse lo fece il mio cervello per qualche secondo, che bastò a farmi mancare la salivazione e mi costrinse a deglutire più volte per ritrovarla.
Tossii falsamente, passandomi ancora una volta la mano sul volto. «C'è una cosa che ancora non ti ho chiesto» dissi, poco dopo.

«Cosa?».

«Il tuo vero nome».

«Perché ti importa?».

«Perché... Ora so tutta la verità... Beh, quasi tutta e... E vorrei saperla fino in fondo. Il tuo nome è uno dei tasselli mancanti».

La vidi scuotere appena la testa ed alzarsi di scatto in piedi. Fece qualche passo confuso nella stanza, sotto il mio sguardo perso ad analizzare ogni minimo movimento del suo corpo. Poi si fermò, proprio davanti a me, stringendo i pugni contro il petto. «Chiamami solo... Johanna» mormorò.
Mi alzai anche io, solo ed unicamente per essere alla sua stessa altezza e poterla guardare negli occhi. «Johanna è morta» dissi, con un tono stranamente sicuro – forse fin troppo. Ma ero davvero io a parlare?
«Io non l'ho mai conosciuta» continuai «non ci ho mai parlato, non... Non ci ho mai passato del tempo insieme. Tutte queste cose, però, le ho fatte con te e... E so che voglio conoscerti ancora di più, partendo dal tuo vero nome».
Lei fece una smorfia e, sinceramente, non seppi bene cosa pensare. Per me, Johanna – o in qualunque modo in realtà si chiamasse – sarebbe sempre rimasta un enigma.

«Perché sei così?» sussurrò.

«Così come?».

«Così... Terribilmente dolce in tutto quello che dici o fai».

Sorrisi, e un leggero rossore mi apparve sulle guance. «Non lo so» mormorai «credo sia un dono di natura». La feci ridere e la vidi mordersi piano il labbro inferiore, mentre con le dita si portava una ciocca di capelli dietro ad un orecchio.

«Il mio vero nome è Hazel» disse, poco dopo.

«Hazel è... Un bel nome».

«Non così bello».

«No, lo è davvero. Posso... Posso chiamarti Hazel?».

«Se vuoi».

«Certo che sì».

Mi sarebbe occorso tempo prima di abituarmi a riconoscere Johanna come Hazel; probabilmente qualche volta avrei finito col confondermi, ma ero abbastanza certo che per lei sarebbe andato bene qualsiasi nome con cui l'avessi chiamata. Lo leggevo nei suoi occhi, che avevano ripreso la loro normale funzione, ossia quella di incatenarmi a loro e rendermi totalmente schiavo.
Non mi ero ancora chiesto se ciò fosse un potere comune a tutti divoratori; tuttavia, la risposta sembrava essere piuttosto semplice: con Sebastian – era quello il suo vero nome? - non mi era capitato; quindi, gli occhi incantati – dovevo pur definirli in qualche modo – li possedeva solo lei, un po' come le ninne nanne speciali che mi avevano cullato quella notte.

«Voglio farti conoscere una persona oggi» disse lei, ad un tratto.

«Chi?».

«Un'amica».

«Anche lei è... Insomma...».

«E' anche lei una Divoratrice, sì. Ma è buona, non uccide, proprio come faccio io ed è... Molto forte. Potrebbe aiutarci con mio fratello, se dovesse tornare».

«Questo vuol dire che tornerà...».

«Lo conosco e so che lo farà. Per il momento, sei al sicuro, ma... Dobbiamo pensare a cosa fare nel caso accada, nel caso in cui lui ritorni e...».

«Okay».

Hazel sospirò e prese il mio viso tra le mani, sfiorandomi le guance con i pollici. «Io ti proteggerò sempre, d'accordo?» sussurrò. Posai le dita sulle sue braccia, accarezzandogliele delicatamente. Non dissi nulla in risposta: un po' perché non sapevo cosa effettivamente dire, un po' perché non ero del tutto convinto della sua affermazione. Sapevo che lo avrebbe fatto, che ci avrebbe provato per davvero, ma ero certo del fatto che non si può proteggere una persona per sempre.
Avrei dovuto essere spaventato, allora, ripiombare in quel baratro nero di panico e ansia; ma non lo feci, poiché ormai avevo la mia ancora, che mi teneva ben stretto, impedendomi di andare ancora fuori di testa.

«Sarai... Una sorta di mio angelo custode?» sussurrai, sforzando un sorriso.

«Una specie, sì. Anche se il bianco non mi dona».

Accennai una risata e lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi. «Vestiti» disse lei. «Io ti aspetto di là». Si staccò piano da me e fece qualche passo indietro, verso la porta. «Perché?» esclamai, allargando le braccia, con fare ironico. «Credevo non ci fosse nulla che tu avessi già visto».
Hazel rise e si passò le dita tra i capelli. «Ti aspetto di là» ripeté, cantilendando. Dopo di che, uscì dalla stanza, lasciandomi solo.
 

***

Non badai molto a ciò che misi addosso. Infilai le prime cose che trovai nell'armadio, ossia un paio di jeans blu e una maglia nera e rossa, a maniche lunghe.
Inciampai nelle scarpe da ginnastica e rischiai di cadere più volte a terra per metterle, ma alla fine riuscii a portare a termine quella piccola impresa e raggiunsi Hazel in cucina.
Lei era ferma accanto al tavolo, giocherellando con il cesto di frutta - che fungeva più che altro da decorazione - che mia madre si era preoccupata di sistemare minuziosamente – era fissata per quel genere di cose.
«Sei pronto» esclamò, senza voltarsi. «Già» dissi, avvicinandomi. Ficcai distrattamente le mani in tasca e solo quando le fui a meno di un metro di distanza, lei si girò, abbozzando un sorriso. «Dove abita la tua amica?» domandai.

«Sulla trentesima strada, in un attico».

Strabuzzai gli occhi. «Trentesima? E' tipo... Dall'altra parte della città e io non ho una macchina e, in realtà, nemmeno la patente, quindi, se avessi la macchina, sarebbe piuttosto inutile, a meno che tu non sappia guidare, ma... Qui si torna al problema del non avere una macchina».
Hazel rise, sbattendo lentamente le palpebre. Il flusso eccessivo di parole che mi uscì di bocca non aveva molto senso e me ne resi conto soltanto quando ebbi finito la frase. «Non ci serve la macchina» disse lei «o un pullman o una bici o qualsiasi altro mezzo di trasporto».

«Ah, no? Hai intenzione di andarci a piedi? E' piuttosto... Lontano».

«No, nemmeno. Chiudi gli occhi».

«Cosa... Perché?».

«Fallo e basta. Fidati di me».

Esitai per qualche secondo: del resto, la fiducia non era più un grosso problema, sebbene continuassi a chiedermi come fossi passato da un estremo all'altro in maniera così repentina. Non sapevo spiegarlo, ma ero contento che fosse accaduto.
Feci come mi disse: chiusi gli occhi e inspirai profondamente. Percepii le sue dita sfiorare le mie e poi intrecciarsi, le une con le altre, quasi fossero due pezzi di puzzle finalmente congiunti.
«Ora puoi aprirli» sussurrò lei e io obbedii. Con mia enorme sorpresa, realizzai che non eravamo più nella cucina di casa mia, ma al centro di un lungo corridoio costeggiato da porte rosse tutte uguali, ad almeno cinque metri di distanza tra loro, o forse più.
Spalancai la bocca, stringendo d'istinto le sue mani più forte che potei, tanto che, se non fosse stata estremamente più resistente di me, avrei rischiato di spezzarle qualche osso.

«Dove... Dove siamo?» balbettai.

«Sulla trentesima strada, davanti alla porta dell'attico» rispose, ridacchiando.

«E come...».

«Te l'ho detto: sono piuttosto veloce».

«Già, ma non credevo così veloce».

Rise, inclinando appena la testa di lato e mi tirò lentamente verso una delle tante porte rosse, alla quale bussò, non distogliendo gli occhi verdi dal mio viso. Non aspettammo molto prima che qualcuno ci aprisse; fu una ragazza bionda, dagli occhi azzurri e piuttosto bassa. Sorrise largamente quando ci vide e batté le mani, come avrebbe fatto una bambina per festeggiare il proprio compleanno.

«Haz!» esclamò «Non ti aspettavo!».

Capii ben presto che tutta quella felicità era dovuta alla visione di Hazel e che io ero stato pressapoco ignorato.

«Ciao, Martha».

Hazel fu costretta a lasciarmi la mano, così che potessero abbracciarsi e salutarsi. Solo quando i loro corpi si distaccarono, Martha sembrò accorgersi della mia presenza. Mi guardò, strabuzzando gli occhi e spalancando la bocca. «Non mi dire che è lui!» quasi urlò. L'amica annuì e le sorrise.
«Oh, mio Dio!». Le mani di Martha raggiunsero tempestivamente il mio volto e non potei fare assolutamente nulla per scansarmi. Cominciò a tirarmi le guance, analizzando con i polpastrelli ogni angolo più remoto della mia faccia, tra la timida risata di Hazel e le mie smorfie. «Ma sei davvero tanto carino!» disse, poi.
Non era solo una prima impressione: quella ragazza – la definii così, per la mia sanità mentale – era l'opposto di Johanna, o Hazel, o... Insomma, lei. Era spigliata, estroversa e, a tratti – mi dispiacque pensarlo – irritante.

«Okay, credo sia sufficiente». Fu Hazel a salvarmi, staccando da me l'amica, che entrò in casa saltellando, dietro l'eco di «Entrate pure».

«Di solito non fa così» mi sussurrò, riprendendo la mia mano.

«Ah, no?».

«No, ma tu eserciti uno strano potere un po' su tutti».

Avrei potuto rispondere qualsiasi cosa, ma il rossore che mi assalì il volto fu abbastanza.
Entrammo dentro quell'appartamento enorme, con la vista su tutta Chicago, tramite finestre di dimensione titaniche, che costeggiavano ogni angolo di quell'attico. Roba assolutamente di lusso, tanto che casa mia, al confronto, mi parve estremamente piccola. Mi guardai attorno, distratto, mentre Hazel mi conduceva attraverso il grande salotto, fino a permettermi di accomodarmi sul grosso divano bianco ad angolo.

«Allora, a cosa devo l'onore di questa visita?». Sentii Martha squittire. Avevo perso di vista la sua figura, ma bastò sbattere una sola volta le palpebre e me la ritrovai seduta sulla poltrona chiara proprio davanti a noi.

«Riguarda quella faccenda di cui ti ho parlato tempo fa» rispose Hazel. Io stetti solamente ad ascoltare il loro dialogo.

«Oh, giusto, l'irritante Sebastian». A quanto pare era quello il suo vero nome.

«Già. Ha attaccato Simon la scorsa notte e temo possa rifarlo».

«E' certo che lo rifarà. Quel tipo non sa arrendersi di fronte a niente».

«Qualche idea su come fermarlo?».

«Cambiare aspetto e scappare, come fai sempre. Come, se no?».

«Sai che questa volta è diverso».

«Sì, perché questa volta c'è di mezzo il ragazzo dagli occhi oceano».

Capii che si stava riferendo a me e trattenni il respiro per un attimo, cercando di non diventare rosso. Che quello fosse o meno un complimento, il mio inconscio era solito reagire sempre in modo piuttosto strano.

«Sei tu l'esperta, Martha» continuò Hazel. «Lo sai, me la sono sempre cavata da sola, sono sempre fuggita. Se non fosse davvero importante, non sarei qui a chiederti aiuto».

La biondina arricciò le labbra e prese a giocherellare con una ciocca di capelli, passandosela numerose volte tra le dita. A giudicare dalle espressioni che il suo viso assunse nel giro di pochi secondi, stava progettando una risposta sulla quale era restia. Forse Sebastian spaventava anche lei, ma non voleva darlo a vedere. «Posso cercare qualcosa» disse, infine.
Hazel sospirò, quasi sollevata da quella affermazione. «Grazie» sussurrò.

«Potrebbe esistere qualche incantesimo che tenga a bada Sebastian per un po'».

«Sai fare incantesimi?».

«Certo che no. Sono le streghe a fare incantesimi, ma è facile contattarne una. Dammi del tempo».

«Quanto tempo? Non credo ne abbiamo molto, lui potrebbe...».

«Rilassati, Haz. Gli hai dato l'amuleto?».

«L'ho fatto».

«Bene, è già qualcosa. E poi, conosciamo Sebastian: se messo a tappeto, resterà in disparte per qualche tempo, che a noi sarà sufficiente per difenderci nel migliore dei modi. Fidati di me».

Sembrava quasi non fossi presente nella stanza, dalla piega che prese il discorso, tanto che alla fine ne persi addirittura il filo. Loro misero in mezzo altri nomi, a me ignoti, di persone o cose di cui nemmeno conoscevo l'esistenza. Dovetti tossire falsamente per rientrare nella loro realtà e solo a quel punto tacquero entrambe, puntando gli sguardi su di me. Tutte e due, all'unisono e io... Non avevo niente da dire.

“Potevi lasciarle parlare” mi rimproverò la mia coscienza e dovetti darle ragione.

«Tutto okay?» mi chiese Hazel.

«Sì, stavo solo...».

«Oddio».

«O... Oddio cosa?».

«Ti ho portato la colazione, ma non ti ho lasciato nemmeno il tempo di mangiarla. Ovvio che non sia tutto okay!».

«No, davvero, non ho...».

Non mi diede l'opportunità di finire la frase. Scomparve in un battito di ciglia, lasciando l'eco di un «Torno subito». Io rimasi da solo, con Martha che ancora mi fissava, con occhi vispi e un sorrisetto compiaciuto stampato in faccia.

«Che c'è?» domandai, sfregandomi nervosamente le mani.

«Nulla» sospirò lei «solo che non ho mai visto Hazel così premurosa. Deve essere vera quella cosa: che sei diverso».

«Questo è ciò che mi ha detto, anche se... Non capisco cosa io abbia di diverso».

«Qualcosa l'avrai. La conosco da centinaia di anni e per quanto si sia sforzata di essere umana, non ci è mai riuscita così tanto quanto ora. La stai cambiando. Forse, alla fine, potrei anche ringraziarti».

Abbozzai un sorriso. Dovevo prendere anche quello per un complimento?

«Posso chiederti una cosa?» dissi, poi.

«Chiedila».

«La ragazza di cui hai l'aspetto... Si è uccisa, giusto?».

«Esatto».

«E tu sai perché lo ha fatto? Oppure l'hai... Semplicemente trovata? Non so come funzioni...».

Martha portò per un attimo la testa all'indietro e tenne chiusi per qualche secondo gli occhi. «Quindi non ti ha raccontato proprio tutto» esclamò.

«Beh, ha detto che... Ci sarebbero voluti secoli per raccontarmi tutto».

«Già, e forse nemmeno basterebbero». Fece una breve pausa e si spostò sulla poltrona, in modo da poter piegare le gambe sopra uno dei braccioli. «Si chiamava Laurel» sussurrò «abitava in una piccola cittadina, vicino ad Atlanta. La sua vita era splendida a mio parere: genitori amorevoli, una grande e bella casa, bei voti a scuola. Io avevo l'aspetto della sua vicina di casa, una donna quarantenne che si era tolta la vita per problemi di gioco d'azzardo. E ci ho parlato con Laurel, diverse volte, tanto che ad un certo punto ero diventata la sua consulente personale o qualcosa del genere. Per questo sapevo tutto su di lei. Sapevo che era innamorata di un ragazzo, di nome Matthew. Era piuttosto popolare, giocava nella squadra di football. Lei passava ore al campo, solo per guardarlo allenarsi, sebbene quello sport nemmeno le piacesse. Lui la guardò, qualche volta e forse sbagliò a farlo, perché Laurel cominciò a viaggiare di fantasia e, soprattutto, si mise ad aspettare. Aspettò che Matthew facesse la prima mossa, che si accorgesse finalmente di lei e dei suoi sentimenti. Ma non accadde mai, anzi: lui andò avanti. Si mise insieme ad una cheerleader che aveva avuto più coraggio o... Più altro, non lo so. Laurel si è uccisa per aver aspettato. E' rimasta lì tutto il tempo, ad attendere che qualcosa cambiasse, senza fare niente. E' rimasta ferma, pretendendo che il proprio amore raggiungesse quel ragazzo per qualche sorta di magia, un po' come nei film. Il problema è che nel mondo reale questo non accade. Gli umani hanno numerosi pregi, Simon, ma il tempo non è dalla loro parte. Il tempo umano è breve ed effimero, e nessuno può prendersi il lusso di aspettare, per nessuna ragione. Sono le persone a creare il proprio destino, sono le persone a gestire nel modo giusto il tempo a loro disposizione. Se ami qualcuno, devi dirglielo. Non puoi semplicemente aspettare che qualcuno si accorga di te perché ci sono talmente tante persone al mondo, milioni di persone, la maggior parte delle quali sono cieche davanti a molte cose. Non puoi aspettare e non puoi esitare per paura della reazione dell'altro. Se aspetti, la vita ti si ritorce contro e... Finisci appeso con una corda al soffitto della tua camera».

Stetti ad ascoltare in silenzio le sue parole e mi suonarono strane dette da una Divoratrice: in fondo, da definizione, una creatura del genere non avrebbe dovuto provare alcun genere di sentimento. Invece, sia lei che Hazel sembravano possedere più compassione e buon animo rispetto ad umani che io conoscevo.
Era ciò possibile? Per quanto me lo fossi chiesto, non avrei mai trovato una risposta.
Io rimasi in silenzio subito dopo, anche perché non ebbi modo di replicare, a causa del ritorno di Hazel che, per la seconda volta quella mattina, mi portò la colazione; quella volta, potei consumarla – anzi, ne fui in pratica costretto.
Le due, mentre mangiavo, ripresero i loro discorsi, che io facevo fatica a comprendere per la maggior parte; ma non importava. Mi limitai ad osservare il viso di Hazel, il suo cercare la mia mano di continuo e i suoi sguardi furtivi per assicurarsi che buttassi giù ogni cosa che mi aveva portato.

Fu strano, perché ero in una grossa stanza con due Divoratrici di Anime e non mi ero mai sentito più al sicuro.

  
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