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Autore: La sposa di Ade    17/03/2013    3 recensioni
Una ragazza che scopre di non essere quello che ha sempre creduto; una fanciulla dal cuore tenero si rivela essere un’ arma di sterminio vivente per una guerra già terminata, senza veri genitori e senza più nulla in cui credere viene protetta da un salvatore che incarna la morte. La loro sarà una profonda caduta nell’ inferno che è dentro ognuno di noi.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gears'
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Autore: La sposa di Ade (sia su EFP che sul forum)
Titolo storia: Frozen Wood
Introduzione: Una ragazza che scopre di non essere quello che ha sempre creduto; una fanciulla dal cuore tenero si rivela essere un’ arma di sterminio vivente per una guerra già terminata, senza veri genitori e senza più nulla in cui credere viene protetta da un salvatore che incarna la morte. La loro sarà una profonda caduta nell’ inferno che è dentro ognuno di noi.
Genere: Fantasy (Angst)
Rating: Arancione
Avvertimenti: /
Coppia: /
Canzone:
The Pretty Reckless - Under The Water
Immagine:
http://i50.tinypic.com/2j4raww.jpg
Citazione: “
Scopriamo un fascino nelle cose ripugnanti, ogni giorno d'un passo, nel fetore delle tenebre, scendiamo verso l'inferno, senza orrore.”
-- Charles Baudelaire dal libro "I fiori del male"
Note: Qualche cosina da dire riguardo tutto. Innanzitutto; la citazione di Baudelaire non ‘appare’ nella storia come alcune parti della canzone che ho scelto (fantastica tra l’ altro, mi fa venire voglia di vedere il mondo bruciare *-*), funge più che altro da sfondo; un po’ come un riassunto di tutto quello che accade che può essere rappresentato, più o meno, come una discesa nell’inferno, una serie di eventi che peggiora di volta in volta, senza possibilità di salvezza, oppure fare una scelta terribile a cuor leggero. Qualcosa di simile insomma.
Inizialmente ero molto indecisa sulla scelta dell’ immagine; o quella della ragazza in cui si mostra per quello che è, oppure in una foto che rimane sempre come punto di riferimento, di inizio e di fine (link sopra). Solo alla fine sono riuscita a decidermi e riguardo a questo; forse averi potuto trovare altre immagini con lo stesso tema piuttosto facilmente, però il modo in cui è così poco nitida rende l’ immagine simile a quella poco chiara di un sogno, e me ne sono innamorata praticamente subito, vedendola come parte della storia. (questa è l’ altra
http://i47.tinypic.com/2gwg8oz.jpg ).
Questa storia farà parte di una serie di storie tutte collegate, con personaggi strani (alcuni magari un po’ Steampunk oltre che estremamente Fantasy) ma dalle vite intrecciate. E ovviamente la mia originalità nei nomi non viene a mancare; uno che apparirà verso la fine di questo primo capitolo ha il nome di una band trash-metal che sto tentando di farmi piacere…
Non so quanto mi ci potrà volere per portare a termine questo progetto, visto che non è l’ unico, ma almeno questo storia è pronta.
La finisco qui, che altrimenti scrivo un papiro. Grazie a Dominil B per la pazienza; sono riuscita a consegnare all’ ultimo momento ^^”

 

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1.      Il sole dell’ inverno e la figlia di Belial. 

“Excuse me sir, am I your daughter?
Won't you take me back, take me back and see?
There's not a time, for being younger
And all my friends, are enemies
And if I cried unto my mother
No she wasn't there, she wasn't there for me”

 
Il sole splendeva alto nel cielo invernale, attraversando le fronde degli alberi e raggiungendo la piccola casa di legno in cui una coppia di anziani stava riposando.
“Il legno sta finendo.”
“Me ne sono accorto.”
“Allora dovresti andare a spaccare la legna prima che mi venga voglia di usare quello della casa.” La voce della vecchia era calda come il foco che ardeva nel caminetto, aveva ancora quella traccia di gioventù alla quale tentava sempre di non rinunciare, eppure la vecchiaia la costringeva troppo spesso a passare la giornata intera sulla consunta sedia a dondolo davanti al fuoco.
“Ho capito, ho capito.” L’anziano si alzò, raccogliendo il giaccone pesante e l’ascia, uscì sbuffando e s’incamminò nella foresta. La schiena gli doleva a ogni passo e si chiese quanta legna sarebbe riuscito a tagliare e a riportare a casa; difficilmente sarebbe riuscito a portarne più della volta scorsa, e difficilmente sarebbe riuscito a fare più di un viaggio.
Raggiunse il ceppo su cui era solito tagliare i pezzi di legna e si accorse che su quella superficie liscia c’era già qualcosa che emetteva un flebile suono, un lamento. Si avvicinò lentamente, socchiudendo gli occhi stanchi a causa della forte, seppur fredda, luce del sole. Lasciò cadere l’ascia e allungò le mani verso quel fagotto di stoffa scura, due manine piccole e paffute si allungarono verso di lui come un invito che lui accettò. Prese il fagotto tra le braccia osservando rapito il volto tondo della piccola, non gli importava delle piccole ciocche di capelli blu che spuntavano dalla sua nuca, o dell’ intenso rosso delle sue pupille, quella era la figlia che non avevano mai avuto.

 
Un nuovo inverno si abbatté su quel piccolo villaggio, neve e vento imperversavano contro case e abitanti che temerari tentavano di resistere al freddo. Una sola figura incappucciata e coperta da pesanti abiti sembrava riuscire a mantenere un passo veloce anche dentro i cumuli di neve. Aveva già visto la bancarella che doveva raggiungere per comprare la cena.
Quando la raggiunse, la grossa donna stava già mettendo via le verdure, decisa a tornare al caldo rassicurante della sua casa.
“Mi scusi.” Nonostante la sicurezza con cui avanzava nel freddo, la sua voce tremava.
La donna alza appena lo sguardo. “Se vuoi qualcosa lo metto a metà prezzo proprio perché me ne sto andando.” Disse la donna tornando al suo lavoro.
“Prendo due pomodori e alcune cipolle. Grazie.” Detto questo, prese gli ortaggi e infilò la mano in tasca estraendo poi alcune monete d’oro che porse subito alla donna che finalmente si degnò di osservare il suo viso; il suo sguardo ignorò il grande sorriso per posarsi rapito e spaventato sul colore delle pupille, di un rosso intenso come il sangue. Non allungò la mano per prendere le monete, semplicemente, fece dei passi indietro e si mise a urlare a quella giovane fanciulla di allontanarsi da lei e di non farsi più vedere, perché tutti, in quel villaggio, avevano paura di lei, dei suoi occhi e di ciò che era cresciuto sulla sua schiena. Le poche persone rimastre fuori si voltarono a osservare quella scena, sussurrando parole di scherno con tono spaventato e disgustato.
Corse a casa, con la neve che si attaccava ai vestiti e li rendeva gelidi, con il vento che ora trasportava pesanti fiocchi di neve e le faceva lacrimare gli occhi.
Entrò in casa sbattendo la porta e lasciando cadere a terra la spesa, rimase poi per qualche istante a fissarsi i piedi e gli ortaggi sparsi lì intorno, nel tentativo di calmare il respiro affannoso. Chiuse gli occhi scarlatti e si strinse nelle braccia, come se si trovasse ancora fuori al freddo. Arrivò a toccarsi la schiena, così come aveva fatto pochi anni prima, in quello stesso bosco, mentre tornava a casa con il suo cesto di frutti appena raccolti; aveva sentito un brezza ghiacciata, troppo fredda per quella stagione, accarezzarle le spalle e il gelo aumentare sempre di più, era diventato presto dolore che si amplificava di secondo in secondo fino a farle provare un senso di smarrimento e nausea che la fece urlare e piegare in due. Non ricordava quanto tempo aveva passato in quella condizione piangendo e urlando per il dolore della carne della sua schiena che si lacerava, ma quando i suoi genitori l’avevano trovata lei ormai era qualcosa di inumano. Qualcosa che la gente del villaggio aveva iniziato a chiamare Gear e che aveva imparato ad evitare.
Cos’erano i Gear? Semplici ingranaggi, armi di distruzione di massa vivente, soldati sul campo di battaglia di una guerra ormai finita, umani artificiali.
 

Un paio di mani callose e segnate da cicatrici strappò un manifesto appeso al muro, sogghignando appena alla vista della cifra da cinque zeri scritta sopra un accurato ritratto fatto a matita del volto di una ragazzina; capelli scuri e una tonalità particolare degli occhi. Nessun nome era scritto al di sotto, semplicemente ‘Gear’.
Entrò nella solita taverna, sicuro di trovarci i suoi compagni. Si sedette al solito tavolo e ordinò la solita birra dopo aver salutato gli altri cacciatori.
“Allora, qualcosa di nuovo?” Disse quello con una scura benda sull’occhio sinistro.
In risposta tirò fuori il manifesto lasciandolo a volteggiare dolcemente sul tavolo prima di posarsi sul legno umido.
“Una ragazzina?” Fece uno con la barba incolta e la testa rasata su cui era messa in bella mostra una grossa cicatrice. Il suo tono era indignato, era solito cacciare grossi ricercati e strappare dai muri i manifesti con il proprio volto sopra.
“Un Gear. Non sapevo ce ne fossero ancora in giro.” Inarcò le sopracciglia, tra le quali si formò una ruga di preoccupazione.
“Non scherzare, non può essere un Gear. La loro guerra è finita e con essa anche loro. Se non sono morti in battaglia sono stati eliminati dal loro stesso creatore.” Ribatté quello con la benda sull’occhio.
“Come fai a dirlo?” Quello con la cicatrice sulla nuca strinse con forza il manico del boccale di birra, per l’irritazione che tutte le volte gli faceva provare contraddicendolo.
“Ho le mie fonti, so che è stato fatto come un gesto di umanità verso di noi e verso loro stessi. Quelli che scappano o chissà come si ritrovano in rarissime situazioni come queste…” Indicò il manifesto. “Vengono braccati e vengono affisse taglie. O almeno, questo è quello che ne so io.”  Lo sfregiato rispose con uno sbuffo.
“Eppure gente, vi assicuro che questa graziosa donzella è quello che il manifesto dice. Dovreste vederla.” L’ultimo arrivato, sorrise osservando i suoi due compagni che ne stava studiando il candore di quel viso impresso sulla carta ingiallita.
“Allora, se è davvero quello che dici ci faremo solo ammazzare.” Sbatté sul tavolo il boccale vuoto per dare enfasi alla frase.
“Ehi, è solo una ragazzina, neanche lei sa di essere un Gear. E poi…” Si allungò sul tavolo per indicare una scritta più piccola a lato del manifesto. “Viva o morta.” Quella era sempre una buona cosa per i cacciatori.
 

La casa era fredda e terribilmente vuota. In un primo momento si era accorta di essere l’unica tra quelle quattro mura eppure in quegli istanti non era riuscita a preoccuparsene, né a farsi le giuste domande sul perché la coppia di anziani che si prendeva cura di lei da sempre non fosse in casa con un clima freddo come quello.
Si chinò e raccolse le verdure ancora a terra posandole distrattamente sul tavolo davanti a lei; poi iniziò a girare per la casa, irrigidendosi e guardando altrove quando passava davanti agli specchi. Aveva guardato in tutte le stanze eppure non erano da nessuna parte e all’improvviso dentro di lei riaffiorò la stessa sensazione che aveva provato pochi anni prima nella foresta; si sentiva smarrita, senza niente a cui aggrapparsi.
Un lamento, una porta che sbatte, una corrente fredda che le avvolse le caviglie.
La porta sul retro era ora aperta e lei si stava precipitando verso di essa e verso ciò che ne era appena uscito.
La neve la colpì in faccia, bruciandole la pelle per il freddo e lacrimare gli occhi per il vento. Abbassò lo sguardo, diverse paia di orme rompevano il manto altrimenti perfetto della neve, si mise a correre a testa bassa, senza distogliere mai lo sguardo dalla sua pista, affondava nella neve quasi fino a metà polpaccio, fino a che non iniziò a sentire delle voci sopra al ruggito del vento, allora si fermò, troppo tardi però, perché ormai il gruppo di cacciatori l’avevano vista.
Un coro di risate si sollevò e raggiunse le sue orecchie.
“È stato facile, visto?” Fece uno con una benda sull’occhio, stringendo la presa sul collo dell’anziana signora che quasi si appoggiava a lui, mentre gli occhi sembravano farsi sempre più pesanti e la coscienza sempre più lontana per via del freddo penetrante. La ragazza rimase paralizzata quando un coltello sporco di sangue fresco si avvicinò alla sua gola rugosa. L’altro, quello con la nuca pelata che metteva in risalto una grossa cicatrice, era assorto a osservare con sguardo lascivo il corpo della ragazza fasciato dal capotto pesante.
“Sonya!” La vecchia sembrò non accorgersi della sua voce. Il cacciatore sorrise, quasi ignorandola. “Che cosa volete? Lasciatela andare!” Fece alcuni passi avanti.
“Sono curioso di sapere cosa c’è sotto quel cappotto.” Fece quello sfregiato, sogghignando appena, spostando lo sguardo su qualcosa alle spalle della ragazza. Lei non fece in tempo a voltarsi che qualcosa di estremamente duro e pesante di abbatté sulla sua nuca, facendola cadere nella fredda neve. L’ultima immagine che vide fu quella del corpo di Sonya che crollava a terra, accanto ad un altro corpo accasciato a terra, lasciando nell’aria dietro di sé una scia rossa di sangue e macchiando il candore della neve.
Un corvo gracchiò in lontananza.

 

Belial, (Beliar, Bheliar): Nella religione ebraica e il Diavolo, senza padrone, viltà della terra, Signore dell'Orgoglio.
Ovviamente il riferimento è per puro sfizio.

  
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