Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: LilithJow    18/03/2013    4 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 12
"Violent delights"



Chicago è la città del perenne inverno. Me ne hanno parlato, più di una volta, ma non ci ho mai creduto troppo. Eppure, siamo quasi alle porte della primavera e nevica da tre giorni. Se continua così, molto probabilmente chiuderanno le scuole, anche perché è praticamente impossibile spostarsi in tempi brevi. Di solito, mi sarebbe dispiaciuto; credo di essere uno dei pochi che adora andare a scuola, ma stare lontano dalla Hills High... Beh, non potrei chiedere di meglio. 
Nell'ultimo periodo, lo studio non occupa molto i miei pensieri. Nemmeno la scrittura, in realtà, e penso di saperne il motivo. Quando ho dichiarato di volere una nuova vita, non immaginavo potesse cambiare così tanto. Mi sono abituato, comunque, e penso di averlo fatto in modo abbastanza veloce. Tralasciando il mio quasi crollo psicologico, me la sono cavata anche piuttosto bene.
Ci sono ancora alcune mie domande irrisolte e molto probabilmente rimarranno tali. Hazel è molto propensa a raccontarmi ogni cosa riguardo la sua natura, ma sembra sempre esserci qualcosa di nuovo.
Passo molto tempo con lei, ma questa – a parte per quel mio periodo di pazzia – non è proprio una novità. O meglio, dipende dai punti di vista. Ogni volta che siamo insieme, finiamo per parlare del soprannaturale, dei Divoratori, di altri leggende e di Sebastian. Soprattutto di Sebastian. Non importa da che parte iniziamo, andiamo sempre a capitolare su argomenti circoscritti. E' come una sorta di ossessione, il mio domandare perennemente e il suo rispondermi a tono, e non so quanto questo sia positivo.
Non so se ammetterlo apertamente o meno, ma mi mancano quei giorni in cui ero ignaro di tutto e l'unica cosa magica erano i suoi occhi che riuscivano a incantarmi in pochi secondi. Mi manca il nostro rapporto iniziale, mi mancano le mie palpitazioni per un nostro bacio, mi mancano le nostre intime carezze. Adesso è tutto diverso. Il nostro unico contatto è quando ci stringiamo le mani e per un po' mi è bastato. Vorrei che tutto tornasse come prima, ma non è possibile. Non potrebbe mai farlo, non con ciò che mi vaga per la testa, non con ciò che lei, di fatto, è. Non p...



«Hey, ragazzo carino!». La voce di Hazel mi distrasse dallo scrivere il mio diario. Chiusi distrattamente il quaderno rosso, lasciando la penna in mezzo e mi girai con la sedia, abbozzando un sorriso. «Hey» replicai, picchiettando due dita sulla scrivania. Lei era proprio accanto a me, che mi fissava sbattendo lentamente le palpebre. «Ho interrotto qualcosa?» domandò, gentilmente. Scossi appena la testa. «No, non hai... Interrotto niente».

«Sicuro? Hai... Tutta l'aria di essere troppo pensieroso».

«Forse un po' lo sono».

Mi alzai in piedi, in modo lento, e passai una mano sul mio viso. Mettere su carta le cose che mi vagavano in testa era molto più semplice che dire tutto ad alta voce. «Voglio fare una cosa oggi, con te» sussurrai. Hazel accennò un sorriso, mordendosi piano il labbro inferiore. «Cosa?» chiese.
Sospirai. Sì, davvero difficile. «Tu dici sempre che ti faccio sentire umana» esclamai «ma io, in realtà, non faccio niente. Non.... Non credo di fare niente per farti sentire così».

«Succede e basta, Simon, senza che tu te ne renda conto».

«E' questo il punto. Magari faccio qualcosa inconsciamente, ma io voglio esserne consapevole. Perché, Hazel, se io ti faccio sentire umana, tu mi fai sentire bene. Cerchi sempre di proteggermi, ti preoccupi persino di farmi fare bei sogni la notte e lo fai per tua volontà. Vorrei solamente fare qualcosa di attivo per te e... E per un giorno, almeno uno, lasciare da parte il soprannaturale, Sebastian, persino Martha. Vorrei farti trascorrere una giornata normale, da umana, con me».
Lei non ebbe nessuna reazione, inizialmente, il che mi portò a trattenere il respiro per dei secondi che mi parvero infiniti. Quando finalmente parlò, sussurrando un «Che hai in mente?», ripresi fiato.
«E' una sorpresa» replicai, sebbene, in realtà, non avessi ancora minimamente pensato a nulla. Era stato qualcosa basato sull'istinto, parole che mi erano uscite di bocca senza che io potessi controllarle, ma fui lieto per l'accaduto: se ci avessi rimuginato su per più di qualche istante, molto probabilmente avremmo finito per passare un altro pomeriggio chiusi in camera, a parlare di cose soprannaturali.

«Prima di tutto» continuai «devi metterti qualcosa addosso».

Hazel fece una smorfia e guardò distrattamente i jeans neri e la maglia blu a maniche lunghe che indossava. «Intendo un cappotto» precisai «e anche una sciarpa e un cappello, se ce l'hai. Usciamo, saranno utili».

«Sai che non posso prendere l'influenza, vero?».

«Uhm, sì, ma puoi comunque sentire freddo, no?».

«Sì, ma...».

«Nevica da giorni e fa... Parecchio freddo. Dobbiamo vivere un giorno normale, il che implica un cappotto e una sciarpa, perché è così che la gente normale si protegge dal freddo quando nevica. Perciò, per favore, metti queste cose addosso e basta».

Lei sorrise appena, inclinando di poco il capo di lato. «D'accordo» mormorò «vado a... Recuperare un cappotto e una sciarpa. Torno subito».

Feci solo in tempo ad annuire e a passarmi una mano sul viso, prima del suo ritorno. Il “torno subito” di Hazel equivaleva a dieci secondi, come tempo massimo. Aveva in mano una sciarpa turchese e già addosso un soprabito nero e pesante, lungo fino alle ginocchia.

«Oh, e anche questo» esclamai.

«Questo cosa?».

«Lo... Smaterializzarti da una parte e l'altra in qualche istante: oggi non esiste».

Trattenne a stento una risata. Evidentemente, nel dare ordini non ero così convincente e mi stavo pure sforzando nel sembrare almeno lontanamente credibile. Lei, tuttavia, decise di accordarmi, annuendo ripetutamente ad ogni cosa che dissi da lì in poi. Probabilmente la stavo facendo divertire con la mia goffaggine persino nel formulare qualche frase dal tono categorico.
Mi morsi nervosamente il labbro inferiore, mentre in modo distratto indossavo il mio cappotto grigio. Uscimmo di casa dopo qualche minuto, passando – rigorosamente – dalla porta e usando – per forza – l'ascensore e camminando – obbligatoriamente – a passo moderato.

***
 

Uno di fianco all'altro, per strada, tra la gente che correva un po' ovunque, chissà verso quale meta.
Io ogni tanto guardavo il viso di Hazel e i suoi occhi impegnati a scrutare ogni angolo della città, quasi vedesse tutto ciò per la prima volta, sebbene non fosse - e non potesse essere - effettivamente così.

Ero pressapoco sicuro che lei facesse lo stesso quando io non la fissavo, ma i nostri sguardi non riuscirono mai ad incrociarsi. 
I fiocchi di neve cadevano radi sulla città. La bufera era in procinto di cessare o, molto probabilmente, sarebbe solo stata in pausa per qualche ora.
Strada facendo, mi venne in mente il posto preciso nel quale mi sarebbe piaciuto portarla. Distava un po' da Chicago: dovemmo prendere il treno e sottoporci ad un mini-viaggio di un'ora e mezza per arrivare a destinazione. Quasi rimpiansi il fatto di aver vietato la smaterializzazione da un posto all'altro; ma non sarebbe stato un giorno normale, dopo tutto.

Durante quel non breve tragitto, non ci furono molte parole. Lei continuò a chiedermi dove avevo intenzione di portarla e io raggiravo una possibile risposta come potevo, per quanto ne fossi effettivamente capace.

Il tempo calcolato fu esatto; il treno non fece nemmeno un minuto di ritardo e ci ritrovammo alle porte di Bellwood, un piccolo paesino di campagna, circondato da prati ricoperti di neve e albi spogli e grigi.

«Dove siamo?» mi chiese Hazel, mentre la conducevo lungo l'unico sentiero libero dal manto bianco. «Bellwood» replicai, guardandomi distrattamente attorno. «Quando ero piccolo, venivo qui con i miei genitori a trascorrere le vacanze di Natale. Ci abitavano i miei nonni paterni, per cui...».

«E' un posto un po' desolato».

«Lo è. Ma... Quando venivamo qui, tutto sembrava essere magico. La mia famiglia era più unita che mai e io riuscivo a passare del tempo con mio padre. Si prendeva una pausa dal lavoro solo a Natale ed era... La parte migliore dell'anno».

Sentii una sua mano raggiungere la mia, come accadeva praticamente sempre, il che mi portò a fermarmi, per guardarla negli occhi. Mi stava fissando, sbattendo piano le palpebre, in quel modo incantevole che solo lei riusciva a fare. E io, sì, davo terribilmente importanza e rilevanza ad un gesto che al parere degli altri sarebbe risultato superfluo e del tutto irrilevante.

«Ti manca?» sussurrò. «Tuo padre».

Sospirai. «Un po'» risposi, a bassa voce. «Ma se ne è andato, ha scelto lui di farlo e va bene così». Tagliai corto. Parlare di mio padre poteva solamente distruggere e atterrare il mio umore, che si sforzava di essere euforico. «Non è per questo che ti ho portata qui» continuai, allora.

«E perché lo hai fatto?».

«Per questo».

Indicai con lo sguardo ciò che si estendeva poco distante da noi: un'immensa lastra di ghiaccio; bianco, candido e pulito, circondato da una schiera di alberi tutto attorno, quasi fungessero da guardie a quello specchio d'acqua solida.

«Che cos'è?» domandò Hazel. «Un lago» replicai «quando fa caldo. D'inverno è solamente ghiaccio. Ci venivo a pattinare con mio padre ed era... Piuttosto divertente».

«Vuoi pattinare?».

«Quella era l'idea».

«Non abbiamo portato i pattini».

«Oh, non ci servono».

«Non...».

Non le feci terminare la frase, non gliene diedi il tempo. Riuscii a sollevarla da terra, caricandomela in spalla, tra le sue e mie risate. Avanzai – senza correre, altrimenti saremmo capitolati a terra nel giro di pochi secondi – verso il lago ghiacciato e solo lì, dopo un giro fatto su me stesso, le permisi di reggersi in piedi da sola.

Beh, forse “reggersi” era una parola troppo grossa in quel momento. Stare in piedi sul ghiaccio con le scarpe da ginnastica era più che un'impresa, ma era anche la parte più divertente.
Ero ben consapevole che non era nulla di così speciale, tuttavia era ciò che per me si avvicinava di più all'essere normale e allo stare bene; quello era lo scopo della giornata.

Per di più, ridere con lei fu... Magico e incantevole.
Non importò il fatto che ci ritrovammo a terra un sacco di volte, che non riuscimmo a percorrere più di cinque metri sul ghiaccio. L'importante era stare insieme, sentirci quasi come una coppia di ragazzi, di adolescenti che cercavano il divertimento ovunque e per un po' fu davvero così.
Fu più di così. Ci fu un momento, uno dei pochi in cui riuscimmo a restare fermi, in piedi, l'uno di fronte all'altro, in cui i nostri sguardi si fusero. Diamanti verdi dentro diamanti azzurri. Mi mancò il fiato, complice il freddo dell'aria e il calore del suo corpo.
Le sue labbra furono un richiamo, come non accadeva da parecchio; un richiamo dolce e soave, quasi come una canzone di una sirena, quelle voci lievi che incantavano i marinai, secondo varie leggende.

Per me, in quel momento, Hazel era così: era la mia sirena, che mi richiamava e mi incantava, e io, come sempre, ne ero succube.

Appoggiai una mano sul suo collo sottile e sfiorai la punta del suo naso con la mia.

Le nostre bocche si sarebbero toccate, mancava così poco, ma, prima che potesse accadere, vidi il suo sguardo abbassarsi. Di riflesso, compii il medesimo gesto, che mi portò a fissare l'amuleto che avevo al collo.

Una strana luce lo illuminava e voleva dire – purtroppo per noi – una sola cosa.

Non feci nemmeno in tempo a metabolizzare l'idea che un Divoratore di anime fosse nei paraggi, che il suono di una voce, chiara e limpida, mi fece rabbrividire.

«Oh, ma che cosa romantica».

Sebastian stava in piedi, fermo e stabile, con le mani nelle tasche dei pantaloni scuri che indossava, a poca distanza da noi. Non appena terminò la frase, Hazel, prontamente, si parò davanti a me, tenendo una mano sul mio braccio, a mia protezione.
Nonostante si sforzasse in tutti modi di farmi da scudo con il proprio corpo, non avrebbe mai potuto coprirmi completamente la visuale. Riuscii chiaramente a scorgere il sorriso sarcastico di Sebastian, il suo capo appena piegato di lato e la sua espressione divertita dai gesti della sorella.

«Andiamo, non serve essere così protettiva, Haz» esclamò il biondo e, per quanto mi riguardava, avrei voluto solamente prenderlo a pugni in faccia; ovviamente, non ci provai neanche, perché sarei morto solo compiendo un passo nella sua direzione. «Se avessi voluto ucciderlo, lo avrei già fatto» continuò.

Era quello che credevo anche io, non contando il fatto che ci avesse già provato.

«Vuoi davvero andare avanti con questa cosa per l'eternità, Sebastian?» esclamò Hazel e sentii le sue dita premere sulla mia pelle.

«No, non lo voglio» replicò lui «ecco perché sono qui: per mettere fine a tutto questo una volta per tutte».

Deglutii rumorosamente: in qualsiasi piano fosse stata messa tale affermazione, non avrebbe mai portato a qualcosa di buono, specialmente se detta da qualcuno del suo malvagio calibro.

«Tu prova solo a sfiorarlo e io...». Le parole di Hazel vennero brutalmente interrotte dal fratello: «Non ho alcuna intenzione di annientare il tuo giocattolino per l'ennesima volta, perché, parliamoci chiaro, ce ne sarà sempre un altro come rimpiazzo e dopo un po', diventa una cosa noiosa». Fece una breve pausa e, nel frattempo, avanzò di un passo. «Sai che quel che fai è sbagliato, sorellina» continuò «ma lo fai lo stesso, lo fai da secoli ed è giunta l'ora che tutto questo trovi il suo epilogo».

Fu del tutto impossibile per me comprendere il suo discorso e, dall'espressione che Hazel assunse, capii che quanto anche lei fosse confusa.
Se era davvero così facile metter la parola fine alla loro faida, perché non lo aveva mai fatto?
Non presi in considerazione l'ipotesi che, per Sebastian, la fine di qualunque cosa era nel sangue. Poco dopo, infatti, lo vidi estrarre da sotto la giacca di pelle quel che sembrava essere un pugnale, lungo, argentato e affilato, con degli strani simboli sul manico: spirali e croci, per la maggiore.
Quando Hazel se ne accorse, irrigidì e mi tirò di più a sé, in modo che la sua schiena aderisse al mio petto.

«Che succede?» osai domandare, sebbene ciò che mi uscì di bocca suonò più che altro come un lamento.

«Paura, sorellina?» sibilò Sebastian. Lei non rispose, né a me, né tanto meno al fratello, e mi parve di sentirla tremare. «Il pugnale di Eleksha, l'unica arma in grado di uccidere un Divoratore di anime». Lui andò avanti e a quel punto tremai anche io.

«Stai mentendo» disse Hazel, tra i denti. «E' solo una leggenda. I Divoratori non possono essere uccisi da niente».

«Ah, sì? Vogliamo provare?». Sebastian,accarezzò la lama del pugnale con disinvoltura e sorrise; un sorriso del tutto diabolico, malvagio, che fece calare un silenzio assordante.
Io avevo una tremenda paura e non per me stesso, anche se ero pressapoco sicuro che se lui avesse deciso di uccidere la sorella, quasi certamente avrebbe fatto lo stesso con me. Ma, per la prima volta, temetti per Hazel, solo ed esclusivamente per lei, sebbene il mortale, il più vulnerabile, per logica, fossi io.
Tuttavia, Hazel non era mai propensa a preoccuparsi della propria incolumità. Anche in un momento del genere, quando era lei ad essere in pericolo, pensò a me. La vidi voltarsi appena, scorsi i suoi occhi verdi diventare rossi in una frazione di secondo e farsi lucidi, colmi di lacrime che si sforzava di non versare.
«Mi dispiace» mormorò, in maniera a malapena percettibile. «Cosa?» biascicai, scuotendo nervosamente la testa. Non ottenni nessuna replica. Lei mi spinse via, con forza e, in un battito solo di ciglia, non mi trovavo più sul lago di Bellwood, ma a terra, sul pavimento di casa di Martha.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: LilithJow