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Autore: Sophie_Lager    18/03/2013    2 recensioni
**AVVISO AI LETTORI:
MI SCUSO IN ANTICIPO PER IL RITARDO CON CUI POSTERO' IL PROSSIMO CAPITOLO.
Una ragazza normale, con una vita normale.
Non esiste la magia, non esistono i licantropi, non esistono i vampiri.
Eppure, la sua vita cambia inaspettatamente. E forse sarà in peggio.
***
Se cercate qualcosa che abbia a che fare una ragazza con dei superpoteri, alle prese con le preoccupazioni di tutti i giorni, allora avete scelto la fanfiction giusta ^^
Genere: Commedia, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1.

Fai un respiro, Sophie. Un respiro profondo. Andrà tutto bene. Non ti mangiano mica.

E invece si, potevano mangiarmi. E io lo sapevo bene. C'ero già passata, e lo sapevo.

Ma cosa potevo fare? Tornare indietro? Impossibile. Il cancello si era appena chiuso con un rumore metallico. Non avevo via di uscita. Dovevo andare.

Con tutto il coraggio che avevo, percorsi quella breve distanza che mi separava dalla porta di ingresso, ed entrai nella mia nuova scuola.

Nuova scuola. Nuovi professori. Nuovi orari. Nuovi compagni. 

L'ultimo punto era quello che mi preoccupava di più. Gli sguardi indagatori del primo giorno, le occhiate di critica nei giorni successivi.

Se fossi stata almeno una top-model, o una campionessa sportiva, o un tipo amichevole, sono sicura che le cose sarebbero state diverse. Ma io non ero così. Ero una ragazza normale, con un corpo normale, che amava disegnare, leggere e stare per conto suo nel suo mondo. Amavo più i libri che le persone. Preferivo trascorrere una serata a casa, leggendo o guardando un film da sola, anzi che uscire per andare a ballare, a ubriacarmi e magari a farmi di qualche cosa.

Ero quel tipo di ragazza che, insomma, passa invisibile tra gli altri, senza lasciare traccia. Ero quel tipo di ragazza che non pensavi di invitare a casa tua per passare una serata in compagnia. Ero quel tipo di ragazza che non aveva amici, o almeno amici veri.

Era triste dirlo, ma era la verità. E sinceramente, non me ne importava molto. Ero io che mi comportavo così, non mi stava obbligando nessuno a farlo. Semplicemente, quello era il mio carattere. Punto. Probabilmente, questo non era quello che gli altri cercavano. Ma, altrettanto probabilmente, questa era la mia autodifesa al giudizio degli altri.

Attraversai velocemente il corridoio, pur sapendo che avrei dovuto aspettare qualche momento prima di entrare. Il preside mi aveva avvertito, mi avrebbero presentato alla classe. Magnifico. Mi ci volevano proprio un po' di prese in giro, il primo giorno.

Mi avvicinai alla porta della mia classe, ed ascoltai. Dentro, l'insegnante -una donna- stava facendo l'appello. Ma erano sempre alla D, avevo del tempo per stare con me. Mi voltai verso le grandi finestre, e osservai gli alberi infuocati di metà ottobre. Non era un bel momento per cambiare scuola: i programmi erano già iniziati, e tra poco ci sarebbero stati gli esami del primo trimestre. Ma non avevo scelta, neanche qui. 

Dopo la morte di mia madre, mi ero trasferita con mio padre. La città dove vivevo prima era poco distante da quella di papà, ma non era possibile continuare a frequentare la scuola di prima. Così ero andata a vivere con lui, l'uomo che mi aveva messa al mondo ma che avevo visto si e no 50 volte in 16 anni. Non c'erano sentimenti particolari che ci legavano. Diciamo che lui era per me una specie di vicino di casa, ma della casa delle vacanze, quella che vedi qualche mese all'anno. I sentimenti che provavo per lui erano gratitudine, per avermi accolto in casa sua nonostante tutto, e disprezzo, perché proprio nello stesso modo in cui mi aveva accolto, come si accoglierebbe un povero gattino bagnato dalla strada, così mi aveva abbandonato 16 anni prima, come un animale indesiderato, lasciando me e mia madre a noi stesse. Non che lei facesse un lavoro poco pagato. Il suo stipendio era abbastanza da poter mantenerci entrambe, ma non ci eravamo mai concesse grandi lussi. Mio padre invece, avvocato, poteva permettersi quello che voleva. E nonostante dovesse tenere a me proprio come ad un animale, mi trattava nel migliore dei modi: camera lussuosa; auto personale; scuola privata. E questa era solo una parte.

Proprio in quel momento, la professoressa terminò l'appello. Potei sentirla chiaramente annunciare agli studenti che da quel giorno ci sarebbe stato un banco in più, in classe. E potei sentire altrettanto chiaramente le risatine e il chiacchiericcio che si era alzato tra i ragazzi. L'insegnante si alzò e si avvicinò alla porta. Ormai era una questione di secondi: la porta si sarebbe aperta e io sarei entrata. Mi lisciai nervosamente la gonna dell'uniforme scolastica, e mi sistemai con mani tremanti i capelli.

Il panico mi assalì di nuovo. 

Dai Sophie! Ancora un respiro. Ancora uno.

E la porta si aprì.

La donna che mi si avvicinò con un sorriso era di carnagione scura, vestita elegante in tailleur pantalone beige. Mi sorrise incoraggiante e si presentò. Io le rivolsi un sorriso timido, ma il più possibile sincero. 

«Forza, cara. Piacere, sono la professoressa Gutembergh» Mi disse, cingendomi le spalle. Era molto più alta di me, con i tacchi. 

«So che è difficile il primo giorno, ma ti troverai bene, qui» Mi sorrise ancora, e anche io ricambiai il sorriso, riconoscente. 

Ma quella breve sensazione di coraggio svanì immediatamente, quando mi lasciò andare le spalle e mi precedette in classe. A quel punto, fui costretta a seguirla. Oltrepassai la soglia, e mi sentii già le guance bollenti.

Oh, perfetto Sophie! Magnifico, davvero! Adesso si che sembri sicura di te!

Avevo tutti gli sguardi puntati contro. Mi sento come un animale dello zoo.

Io credo che debbano abolire questo momento da qualsiasi scuola. Cos'hanno tutti da guardare? Ho due gambe, due braccia e una testa come loro. 

Ancora più rossa in viso, guardai speranzosa verso la cattedra, sperando che l'insegnate mi salvasse. Ma lei stava firmando con calma i fogli del mio trasferimento.

Ancora più nel panico, studiai con cura la copertina del mio libro di matematica che tenevo stretto in mano come se fosse la mia ancora di salvezza. Sentii le risatine provenire da una qualche parte della classe.

Finalmente, la professoressa Gutembergh alzò gli occhi su di me. Grazie al cielo. 

Si avvicinò e mi presentò alla classe.

«Allora ragazzi. Questa sarà la vostra nuova compagna, Sophie Howord. Si fermerà con noi per tutto l'anno scolastico» 

E poi mi guardò, sempre sorridente, per farmi capire di salutare i miei nuovi amici. Fantastico.

Alzai la mano, la scossi alcune volte da destra a sinistra, e la lasciai cadere di nuovo. Tutto questo con un realistico sorriso stampato sul viso. 

Poi mi indicò un banco, quasi alla fine della classe. 

Mi diressi velocemente in quella direzione, cercando senza farmi notare di contare quanti ragazzi c'erano nell'aula. Dalla breve occhiata che diedi, erano circa trenta persone. 

Capii immediatamente da chi erano arrivate le risatine. A destra, vicino alle grandi finestre, c'erano tre ragazze che avevano l'aria di essere le più snob della classe. Erano sicuramente le cheerleader della squadra di basket della scuola: fisico asciutto e atletico, forme bene in vista, gonna volontariamente corta. Capelli e unghie perfetti. 

Cercai di immaginare come apparivo agli altri in questo momento. Capelli biondi, si, ma spettinati per il vento. Occhi verdi, si, ma sicuramente contornati da stupende occhiaie post notte in bianco. Pelle chiara, si, ma troppo chiara per essere considerata una bellezza. Non osai neanche guardarmi le unghie: me le stavo mangiucchiando, come facevo sempre quando ero agitata. 

In conclusione: un disastro.

Cercai di non pensarci. La lezione iniziò senza indugio. Matematica era stata sempre la mia materia più odiata, ma notai con sollievo che ero avanti con il programma. La lezione successiva era di Inglese. Mi era sempre piaciuto inglese, perciò la ascoltai con interesse, prendendo appunti. Poi fu l'ora della lezione di chimica, e l'ora successiva di scienze, fino a tornare di nuovo ad inglese. 

E la mattinata si era conclusa. 

Raccolsi i miei libri, pronta ad andarmene il prima possibile da questo luogo. 

Ma quando alzai gli occhi dal mio quaderno, mi trovai davanti il terzetto. Le tre ragazze che avevano riso di me la mattina.

Le fissai, senza dire nulla, senza lasciar trasparire niente. Loro si scambiarono occhiate veloci, poi la bionda mi rivolse la parola.

«Ciao. Sono Jasmine. Piacere» E mi porse la mano. Indecisa sul da farsi, attesi qualche secondo, ma poi pensai: "Oh, insomma! Poteva anche aver sentito una barzelletta, stamattina. Perché avrebbe dovuto ridere di me? Che cosa avevo fatto di tanto divertente? E se adesso mi sta offrendo la mano…"

Così allungai la mia, e ricambiai la stretta. 

«Piacere» Risposi, accennando ad un sorriso.

Jasmine guardò le altre due, mentre mi accorsi che nella classe non era rimasto più nessuno, solo noi quattro. Si concessero un'altra insensata risata, che però fu breve, e tornarono a guardarmi, serie.

A quel punto la bionda mi si avvicinò. Io ero ancora seduta, mentre lei era davanti a me, in piedi. Fu costretta a piegarsi in avanti, sul banco. Dalla camicetta semi aperta vidi il suo seno. Lei mi prese un lembo della camicia con due dita, facendomi avvicinare a se ancora di più, finchè non fui a pochi centimetri dal suo viso. Non opposi resistenza: i suoi occhi azzurri mi congelavano come ghiaccio. 

«Se non hai ancora capito» Disse, quasi sibilando, «Qui comandiamo noi. Ti conviene non fare la furba, ne con noi ne con nessun altro. Se vuoi vivere felice, fai in modo di non farmi fastidio.» Poi mi lasciò andare, e dopo un'ultimo sguardo, si voltò e se ne andò, seguita a ruota dalle altre due.

Io rimasi immobile per alcuni secondi, ancora seduta al mio banco. Fuori stava per scoppiare un temporale, e la classe era buia e tetra. 

Senza pensarci due volte, raccolsi in fretta e furia i miei libri e me ne andai, senza passare dalla segreteria come avrei dovuto fare.

Volevo andarmene da quel posto, e da quelle persone strane e inquietanti. 

  
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