III.
Existence
«Dove
stiamo andando?»
«Te
l’ho già detto: andiamo alla Prova.»
Due
voci distinte riecheggiavano tra le mura
marmoree di un lungo corridoio luminoso, sul quale un ampio soffitto
vetrato
lasciava passare i raggi tiepidi del cielo. Una aveva un accento
ansioso ed
incuriosito e l’altra gli rispondeva in modo atono ed
impersonale, un po’
seccato.
«Ma
io…»
«Vuoi
sapere come ti chiami o preferisci essere
etichettato come “marmocchio” per tutta la tua
“esistenza”? Ci siamo passati
tutti quanti prima di te: la fase della Prova è fondamentale
per entrare a far
parte dell’Organizzazione.»
Zexion
camminava risoluto al fianco del ragazzino
biondo che quasi arrancava alla sua sinistra, faticando nel seguirlo;
continuava
ad impartirgli un silenzio indiretto che il piccolo pareva proprio non
afferrare, incalzando la conversazione a monosillabi e con domande che
il suo
compagno interrompeva e a cui rispondeva con riluttanza.
«Organizzazione?
Ma veramente…»
«E’
come ci facciamo chiamare. Apprenderai presto
cosa voglio dire.»
«Ma…»
la voce del piccolo sollecitò nuovamente
«Dove ci troviamo, Zexion?»
«Nella
nostra fortezza; Appartiene a noi
dell’Organizzazione ed è l’unico posto
in cui ci è permesso stare.»
Zexion
svoltò a sinistra, mentre il ragazzino lo
seguiva stanco.
«Perché…tu
non usi…quell’apertura…?»
chiese ancora,
affannando; riusciva appena a stare al passo « Axel mi ha
detto che…» La
risposta di Zexion si confuse con un leggero sospiro, irritato da tutte
quelle
domande incessanti e anche in gran parte inasprito dall’aver
udito ancora il
nome di Axel.
«Forse
intendi dire il Portale…?» disse, d’un
botto,
per poi soffocare una risatina «Se cercassi di spiegartelo in
maniera che tu
possa capirne almeno il cinque per cento, allora ti direi che
è una alterazione
della materia che comprime l’aria e distorce la
realtà, estraendone le ombre.
Inoltre,» mosse una mano «solo noi siamo in grado
di servircene.» lo guardò «
Ti è chiaro?»
Il
biondino aggrottò la fronte,
limitandosi a balbettare
«Voi…cosa…siete?»
Zexion
lo fulminò bieco, senza accennare però a
fermarsi per rimproverarlo, sentenziando:
«Nobody.»
«Nobody?»
Il
giovane dai capelli azzurri rallentò il passo,
lasciando che il ragazzino lo raggiungesse «Si.
Esseri costituiti da carne e intelletto, capaci di intendere, di
volere, di
parlare e di creare...»
sul suo volto si dipinse un’espressione ambigua che
accompagnò il suo freddo
tono di voce «…non ti ha affatto stupito il fatto
di aver perso il tuo Altro, eh?
Allora ti sei quasi…»
«C-che
cosa?» lo interruppe bruscamente il
ragazzino al suo fianco, cercando di trattenerlo afferrandolo per una
manica
«Io…Io non ho perso nulla! E non so che cosa siano
i Nobody e gli Altri
e…insomma, perché non dici come stanno
chiaramente le cose? Io non mi fido di
te!» al piccolo mancò il respiro, poi
bloccò Zexion per le braccia mettendoglisi
di fronte e continuando a gridargli in faccia, arrabbiato «Io
voglio sapere
dove sono e perché mi trovo in questa strano posto! Voglio
sapere dov’è Axel!
Perché mi sono sentito male? Perché non ho potuto
piangere alla sensazione di
dolore forte che stavo provando? Rispondimi!»
Zexion
lo fissò gelido dall’alto, scansandolo
bruscamente alla sua destra. Il biondino barcollò,
aggrappandosi al muro: la
spinta di Zexion non era molto forte, ma essendo ancora leggermente
provato
dalla sera prima, nonostante Axel gli avesse offerto un abbondante
pasto, gli
venne difficile reggersi in piedi.
«Semplicemente,»
sbottò Zexion, riprendendo a
camminare e lasciando indietro il compagno «non ho motivo di
dilungarmi in
queste spiegazioni, dato che molto presto capirai da solo tutte queste
cose e
allora…»
«Io…Io
non c’entro nulla in questa storia!»
gridò
il bambino, sostenendosi al muro con i palmi «Io sono me
stesso e basta!»
«Ne
sei davvero convinto?» Zexion si fermò
poggiandosi svogliatamente con la schiena contro la parete fredda, come
se
stesse aspettando che il ragazzino si decidesse a raggiungerlo
«E allora…come
riesci a spiegarti il fatto che non conosci la tua vera
identità e…che hai
anche paura di svelarla a te stesso?» alzò il capo
e abbozzò un sorriso,
lasciando che le ciocche disordinate gli scoprissero a tratti il viso
«Non
sei riuscito a piangere...perché non ne hai la
facoltà: è il prezzo da pagare
per chi perde il proprio Altro,
il vero sé stesso, e
diventa un Nodody. In superficie non cambia praticamente nulla,
poiché il vero
mutamento...avviene all’interno: un corpo dotato di
vita...senza un’essenza.»
fece una pausa, ritornando serio, prima di concludere «I
Nobody sono esseri che
non hanno...»
«…l’anima…»
Zexion
lo fissò per un istante, con le labbra
dischiuse, poi decretò, risollevandosi dal muro:
«Ti
facevo più stupido.» gli si avvicinò a
passo
svelto e prima di fargli segno di risollevarsi gli rivolse
un’occhiata fugace «Ma
dopotutto è normale che una parte di te ne sia
già consapevole.»
«…non
capisco…» il biondino si passò una mano
fra i
capelli, afferrando con forza alcune ciocche fra le dita
«…cosa significa…?»
«Ora
basta con le domande. Avrai tutte
le risposte che cerchi quando sarà il momento…ora
non servono ad altro che a
far sprecare fiato sia a me a che a te.» il tono di Zexion
era perentorio, non
ammetteva repliche, ed imponeva il silenzio.
Il
ragazzino lo osservò mentre gli dava le spalle e
riprendeva ad avanzare, dirigendosi con passo risoluto verso
un’imponente
portone che dominava sull’intero corridoio, dalla parete
più lontana.
Era
confuso, ed il ricordo della terribile mancanza
che aveva provato qualche attimo prima, nella “sua”
camera, se così poteva
chiamarla, lo infastidiva, e lo faceva sentire vulnerabile. Era in un
luogo che
non conosceva, assieme a gente di cui non capiva le
intenzioni…Organizzazione,
Nobody, Portali…erano tutte parole senza senso, e continuava
a chiedersi perché
cercasse ancora di dare loro un significato. Non c’era
più neanche quell’unica
sicurezza a cui si era disperatamente aggrappato un attimo prima di
prendere
sonno, e quella voce che gli diceva “Non ho alcuna intenzione
di farti del
male. Te lo giuro.”
Deglutì,
mentre con un grande sforzo si rimetteva
in piedi e raggiungeva Zexion, incespicando. Aveva ancora tantissime
domande da
porgergli, ma si sforzò di tenerle per sé.
Continuava
ad osservare il suo compagno
mentre procedeva per il largo androne illuminato da sei alte vetrate,
animato dal
ritmico incedere dei loro passi.
«In
cosa…» azzardò ancora il ragazzino, a
bassa
voce «…in cosa consiste…questa
Prova…?» il tono era incerto
«E’ qualcosa
di…impegnativo?»
A
questo punto Zexion non mostrò alcun
segno di irritazione, né di stanchezza; si limitò
a rispondere con voce piatta:
«Dipende
da cosa intendi per “impegnativo”»
diresse gli occhi verso la porta che si faceva sempre più
vicina «Se vuoi dire faticosa
al livello fisico, allora la risposta è no. Devi solo
imparare a parlare con te
stesso…e puoi riuscirci anche senza muovere un dito.»
Finalmente
entrambi si fermarono. Su di loro si
ergeva una maestosa porta su cui v’erano incise innumerevoli
croci, alcune in
rilevo e altre scavate, che si sovrapponevano andando a formare un
motivo
confuso ed allo stesso tempo affascinante. Il bambino ne
cercò l’estremità,
abbagliato, per poi
riportare gradualmente gli occhi verso il basso fissando quasi con aria
affranta la propria ombra sul pavimento lucido.
«Ora
ti aprirò la porta, e tu entrerai.»
spiegò
Zexion, liberando le braccia dal loro intreccio
«Rimarrò qui fuori ad aspettarti,
e quando avrai terminato verrò a riprenderti.»
poggiò una mano su di un
battente «Non preoccuparti di nient’altro che della
Prova. Dentro di me sentirò
quando sarà il momento di
aprirti nuovamente le
porte.»
Il
biondino annuì impercettibilmente,
senza spostare lo sguardo da terra. Una
mano volò quasi istintivamente al petto, con lentezza,
mentre dalle sue labbra
sibilavano alcune fioche parole:
«Cosa
mi sta…succedendo…?»
Zexion
lo guardò per un istante, poi la sua
attenzione tornò all’enorme portone; un attimo
prima di spalancare i battenti,
spingendoli con un ampio movimento di entrambe le mani,
sussurrò in risposta:
«La
verità… » fece una pausa
«… è che né tu,
né io
saremmo mai dovuti esistere.»
Non
appena il ragazzino mise piede nella stanza,
mentre l’eco delle porte che si chiudevano alle sue spalle
gli invadeva ancora
le orecchie, si sentì inizialmente pervaso da una fastidiosa
sensazione di
claustrofobia, ma già dopo pochi istanti il suo respiro
tornò regolare ed i
suoi occhi presero a studiare l’ambiente, curiosi ed inquieti.
La
sala era di dimensioni
ridotte, tanto
piccola che per un attimo
si chiese come fosse possibile che le enormi porte che aveva appena
attraversato le facessero da ingresso; i muri convessi si curvavano
verso
l’alto in maniera così
fluida da sembrare vivi, e andavano a formare un soffitto
bombato,
animato dai
bagliori dei neon che mandavano
scintille da alcune fessure ai margini delle pareti.
Al
centro di un lucido pavimento in pendenza
sorgeva una lunga ed ampia scalinata, delimitata in entrambi i lati da
tre
larghi gradini, su ognuno dei quali erano posizionate alcune lastre di
marmo. Il
ragazzino mosse un passo, avvicinandosi maggiormente a quello strano
monumento,
cercando di ignorare
l’insistente brivido che gli
pervadeva i palmi delle mani,
non ancora
cessato dalla discussione che aveva appena tenuto con Zexion.
Ognuna
di quelle lapidi sembrava essere
posizionata secondo un preciso ordine
che non gli riusciva di comprendere. Si avvicinò ad una di
esse, e prese ad
esaminarla in maniera più approfondita. Sulla cima era
inciso un numero, gli
parve di scorgere un dieci stilizzato, sopra il quale risplendeva la
stessa
croce di metallo che aveva già visto sull’ingresso
e su alcune pareti di quell’assurda
fortezza.
Salì
di alcuni gradini e raggiunse la seconda serie
di lastre, fermandosi davanti ad un sette inciso nella stessa identica
maniera,
e sbirciando oltre, verso l’ultimo ripiano, riconobbe altri
due piccoli
monoliti marmorei che troneggiavano sugli altri vestigi, su cui erano
incisi un
due ed un tre.
In
tutto erano undici. Il biondino si accovacciò
davanti alla settima lapide, lasciando ricadere la testa di lato per
studiarla
meglio. Guardandola con più attenzione, la sua superficie
non sembrava
solida…era diafana, ed emanava un sottile riflesso del color
dell’acqua. Rimase
ancora un po’ fermo ad esaminarla, seguendo con gli occhi
ogni suo minimo
fremito, poi avvicinò titubante le dita vibranti,
incuriosito.
Il
contatto con la sua pelle fu leggero e delicato,
un po’ esitante, e il ragazzino ritirò subito la
mano, sentendosi percosso da
una sferzata fredda lungo tutto il braccio. La superficie della lapide
si
increspò, mentre tutt’intorno si allargavano in
movimenti fluidi innumerevoli
cerchi concentrici.
Il
numero XIII si sentì mozzare il respiro, mentre
stringeva le dita raggelate nell’altra mano.
Saïx.
Quella
parola gli salì in gola improvvisamente.
«Saïx.»
la
pronunciò a voce bassa, come a volerla rendere viva. Senza
volere continuò a
ripeterselo mentalmente, quasi all’infinito; non sapeva
perché, ma più la
udiva, più gli suonava familiare…quasi come se
l’avesse sempre avuta fra le
labbra, immobile senza che riuscisse in nessun modo a liberarla.
«Saïx.»
il fiato si interruppe, poi, incerto,
aggiunse «…Numero VII.»
Per un
attimo la vista gli si annebbiò, e sentì un
flusso intenso di pensieri invadergli la testa, tanto impetuoso da
fargli
perdere l’equilibrio.
Erano
parole sussurrate a bassa voce nelle sue
orecchie, che si sovrapponevano e si sovrastavano, faticò a
comprenderle,
finché non le udì svanire gradualmente,
affievolendosi, lasciando nella sua
testa solo una scia di echi e brevi fischi.
«Non
spiare gli altri.» la bocca del biondino si
aprì da sola, a pronunciare quella frase, senza che lui
riuscisse a comprendere
pienamente ciò che stava accadendo.
“Non
spiare gli altri”. Sapeva di metallico, ed era
venata di un leggero tono d’ammonizione.
Il
ragazzino cercò di mettersi in piedi, confuso;
si sorresse la testa con una mano, mentre con l’altra cercava
un appiglio per
risollevarsi. In quei brevi istanti durante i quali aveva poggiato le
dita
sulla superficie liscia di quella lapide, si era sentito stranamente
fuori
posto...come un intruso. E anche tutti quei pensieri che gli avevano
affollato
la mente…sapeva benissimo che non gli appartenevano.
Si
massaggiò la testa, battendo le palpebre per
riprendersi, mentre a passi lenti cercava di allontanarsi dalla tenue
luce che
vedeva riflessa in ognuna di quelle spoglie lastre, ma quelle parevano
osservarlo
da ogni direzione, biasimandolo.
Per un
attimo aveva visto con gli occhi di un’altra
persona. Gli pareva assurdo, ma inciampando sulle scale si accorse che
era
proprio ciò che gli era appena successo. Era come se per
quell’istante avesse
toccato con mano l’essere
di qualcun
altro.
Il suo
sguardo volò da una lapide all’altra,
esterrefatto. Ciò significava che ognuna di quelle lastre
fosse collegata ad
altrettante persone?
D’un
tratto il biondino spalancò gli occhi, e balzò
in piedi. Possibile che tra quelle undici lapidi ce ne fosse almeno una
che
potesse condurlo ad Axel? Fece volare gli occhi da un numero
all’altro,
chiedendosi se fosse possibile. La sola idea di poterlo ritrovare lo
riempiva
di una strana speranza.
Mentre
ancora esaminava quasi febbrilmente ognuno
di quei freddi numeri, percepì un fastidioso formicolio
lungo tutta la spalla
destra, mentre con la coda dell’occhio intravedeva una tenue
luce espandersi
vicino alla lapide numero dodici.
Si
voltò, cercando di ignorare il braccio intorpidito;
una miriade di piccole luci apparivano e si spegnevano, dondolavano e
volteggiavano, poi si incontravano e si fondevano, quasi come attratte
da una
qualche insolita forza. Si posarono lentamente sul pavimento,
sovrapponendosi
l’una all’altra, fino ad andare a delineare le
forme abbozzate di una lastra
simile a quella che sorgeva lì vicino.
Il
numero XIII osservò le piccole luci, quasi
abbagliato. Continuarono a brillare, come polveri di piccoli cristalli,
risplendendo di riflessi e rifrazioni. La vide come
un’interferenza, una
distorsione in quell’ambiente immobile…e pareva
quasi che lo chiamasse.
E lo
chiamava per nome; il ragazzino se ne accorse all'istante.
Lo sentiva pronunciato da ogni parete, gli giungeva sussurrato da ogni
direzione, ma tuttavia non riusciva a coglierlo completamente.
Avanzò verso
quella lapide di luci, con passo lento ma deciso, finché non
l’ebbe davanti a
sé. Rimase immobile a fissarla, mentre
quell’irritante sensazione di
intorpidimento diventava più intensa e lentamente gli
penetrava in tutto il
corpo.
D’un
tratto sentì il bisogno di conoscere quel
nome, quasi come un assetato capisce che morirà se non
berrà abbastanza acqua.
Era quasi come se quel nome rappresentasse ormai l’unica
fonte di ogni certezza,
un punto fermo…l’unica prova che lui esistesse
ancora.
Si
inginocchiò di fronte alla lastra, e con gli
occhi che assorbivano senza battere ciglio tutti quei riflessi,
poggiò entrambe
le mani sulla superficie incolore, senza un’esitazione.
Il
ragazzino non fu ostacolato da alcuna
resistenza, e le dita vennero lentamente avvolte da quei barbagli,
mentre
sentiva chiaramente di conoscere il perché di tutto
ciò che gli stava accadendo
Oo°*°oO
Giganteschi
scaffali ricolmi di
schedari invadevano le quattro pareti di una stanza dagli angoli
smussati come
se fossero carta da tappezzeria. Una sobria mobilia arredava
l’intera stanza,
ma uno sfarzoso soffitto, piastrellato come un mosaico, completava
l’opera,
dando un tocco di eleganza. L’unica fonte di luce, che come
un ombra aranciata
macchiava ogni cosa incontrasse, proveniva da una porta finestra
provvista di
balconata che dava su due paesaggi contrapposti: da una parte, delle
colline
verdeggianti incorniciavano il tramonto quasi fosse un quadro, e
dall’altra si
snodavano le anguste e buie strade della Città.
Due
pensierosi occhi color oro, spaziavano fra quei
due paesaggi opposti con fare flemmatico, soffermandosi a lungo in vari
punti,
cercando di coglierne i minimi particolari, quando
d’improvviso si sgranarono
leggermente. Due labbra sottili si dischiusero per un attimo, poi
tornarono
immobili, senza espressione, mentre le guance colorite si accesero di
un rosso
tenue, che si confondeva con le sfumature dei raggi del vespro.
«Che
seccatura.» disse, mentre con una mano si
massaggiava la nuca, lasciando che i suoi lunghi capelli violacei si
intrecciassero in ciocche alle sue dita «Detesto quando la
gente non sa farsi
gli affari propri.» sospirò, alzando gli occhi,
interrompendo il movimento
della mano poco al di sotto dell’attaccatura dei capelli.
«Abbi
un po’ di pazienza…» Xemnas stava
poco più in là, eretto davanti ad uno degli
scaffali, mentre sfogliava le
pagine di uno spesso fascicolo, tenendolo aperto sul palmo «I
nuovi fanno
sempre così, lo sai anche tu…»
Voltò impercettibilmente il capo di profilo,
cercando il compagno con la coda dell’occhio
«…È perciò inutile reagire a
questo modo per l’ennesima volta, Saïx.»
Poi fece una breve pausa, riprendendo
la lettura.
Il
sommesso frusciare delle pagine voltate
flemmaticamente dalle dita di Xemnas determinavano il tempo regolare di
un
pomeriggio silenzioso già da alcuni minuti. Rigido nel suo
soprabito, Saïx si
era fermato a guardare quell’insolito tramonto senza quasi
accorgersene, come
colto da una profonda nostalgia. Una nostalgia che sapeva di fittizio,
come una
rimembranza confusa che non gli riuscì di individuare
appieno.
Gli
capitava spesso. Erano piccoli frammenti, brevi
attimi di una vita che non gli apparteneva, che emergevano come
fantasmi in ogni
momento, vividi o sbiaditi, come macchie che si allargavano nella sua
mente e
che, per quanto tentasse, non riusciva a cancellare.
A
qualcuno piaceva guardare il tramonto, un tempo.
Gli piaceva farlo perché gli dava la sensazione di essere
libero. Saïx socchiuse
gli occhi.
Essere
libero, essere vivo, essere felice. Ormai
erano tutte cose che non gli erano più concesse. Eppure
c’era il ricordo, gli
era rimasta solo un’idea confusa di come ci si potesse
sentire.
Il
Numero VII scosse il capo, come a scacciare quei
pensieri scomodi, quindi lasciò che la mano ricadesse lungo
i fianchi. Voltò lo
sguardo verso Xemnas, rivolgendogli un leggero sorriso obliquo:
«Ti
sta a cuore il ragazzino?» fece, muovendo un
braccio in un gesto ampio «Ti vedo fin troppo
accondiscendente.»
«Uhm…Strano
modo di vederla.» stabilì l’altro, con
una risatina atona, rimanendo
poi in silenzio per un
attimo «Direi piuttosto che mi comporto in una certa maniera
solo perché
ce n’è la
necessità…» si interruppe, poi fece
cadere il discorso, con gli occhi
che seguivano le righe d’inchiostro sul fascicolo che aveva
fra le mani.
«Xigbar
sta davvero iniziando a scantonare.»
esordì, voltando pagina, dopo aver letto alcune parole
«Mai che riesca a
leggere un suo rapporto scritto per bene.»
Saïx
gli si avvicinò, sporgendosi oltre la sua spalla.
Il suo sguardo cadde immediatamente su di una pagina bianca su cui
spiccavano i
caratteri scomposti dell’inconfondibile frettolosa
calligrafia del numero II. Li lesse a fatica, strizzando
a tratti gli occhi.
Dopo
una lunga serie di resoconti accurati di
missioni concluse brillantemente, iniziava un elenco di messaggi privi
di alcun
tipo di formalità; a volte non si trattava altro che di
frasi incomplete, o
anche di poche parole isolate, o di commenti monosillabici che
esprimevano una
pesante insoddisfazione, mista ad una nota di sarcasmo che nessuno
aveva mai
visto sparire neppure per un attimo da qualsiasi suo gesto.
Rapporto
N°23
TOTALE
fallimento. Causa un’enorme palla al piede da cui il
“SUPERIORE” non si decide
a liberarmi.
Rapporto
N°24
Nota
per il
futuro: Se vuoi che mi riesca qualcosa, allora levami di torno Signor
Rose&Fiori.
Rapporto
N°25
No. La
prossima volta lo AMMAZZO. Prendo la mira e lo faccio secco.
Rapporto
N°26
Ti
pare che
io abbia mai sbagliato un colpo?
Rapporto
N°27
XI non
sa
fare un emerito cazzo.
Rapporto
N°28
Vedi
sopra.
Rapporto
N°29
Per
cominciare, la prossima volta che mi mandi XI nel poligono, Xem, non
potrò
assicurarti la sua incolumità. Secondo, affidalo ad VIII,
che fra incapaci ci
si intende.
Rapporto
N°30
Penso
che
smetterò di scrivere il rapporto. Ne va del mio orgoglio.
Rapporto
N°31
Si
smetto di
scriverlo, ho deciso.
Xem, o
mio
“SUPERIORE”, eliminiamo XI tutti insieme!
Saïx
distolse lo sguardo, interrompendo la lettura,
che proseguiva ancora per molte pagine:
«Marluxia
è solo inesperto.» si volse a Xemnas «
Xigbar
sta esagerando, a mio parere.»
«Se
fosse per lui,» fece Xemnas,
chiudendo il fascicolo e riponendolo
in uno degli scaffali «non farebbe altro che starsene nel suo
poligono, o a poltrire fra i
corridoi della Fortezza, e tutti noi
potremmo anche completamente dimenticarci dell’esistenza di
un Numero II.»
voltò le spalle a Saïx, dirigendosi verso un altro
schedario «Piuttosto, come
va con Larxen? Anche tu hai da farmi reclami dello stesso
genere?»
Saïx
scosse il capo:
«E’
abbastanza brava…penso che fra breve potresti
anche affidarle missioni individuali…» mosse
leggermente il capo «Non potrà
stare per sempre sotto la mia ala.»
Xemnas
annuì, osservando con aria assorta una lunga
serie di libri:
«Certo.
Dopotutto, ho già in mente un certo
servizio da affidare a XI e XII.» si toccò il
mento con due dita e non disse
nient’altro.
Saïx
rimase anch’egli in silenzio per qualche
istante, poi riprese, tornando quasi senza rendersene conto
sull’argomento di
poco prima:
«
E XIII? A chi hai intenzione di affidarlo?»
«Non
saprei.» Xemnas alzò lo sguardo e voltò
il
capo verso il compagno «Tu hai qualche idea?»
Sulle
labbra di Saïx apparve un
silenzioso sorriso,
e tutto il suo volto si colorò di un’inquietante
sfumatura di divertimento:
«Te
ne sei accorto, vero?» fece, a bassa voce «Ti
sei reso conto dell’aura incerta che circonda XIII?»
«…pensavo
di affidarlo a Zexion.»
proseguì Xemnas, interrompendolo
«Oppure…anche ad
Axel non farebbe
male avere una qualche tipo di
responsabilità…» alzò gli
occhi verso il suo interlocutore, continuando a
fissarlo con un cipiglio senza espressione, ma bastò quel
suo unico sguardo a
far capire a Saïx che quello non era né il momento
né il luogo adatto per
parlare di quell’argomento.
Il
Numero VII lasciò che i suoi lineamenti
tornassero immoti e, incrociando le braccia sul petto, annuì
con fare
rassegnato.