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Autore: LilithJow    24/03/2013    6 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 13
"Figure 8"


«Simon?».

Riuscii a sollevare a stento lo sguardo e mi ritrovai davanti la faccia perplessa di Martha, che mi fissava con occhi spalancati. Poco distante da lei, scorsi un'altra figura, una ragazza dai capelli rossi, che non riconobbi. Non mi sforzai nemmeno di capire chi fosse, forse perché, in quel momento, poco mi importava.

«Hazel» biascicai, mettendomi goffamente in piedi. «Hazel cosa?» esclamò Martha, con fare isterico.

«Eravamo... Noi eravamo sul lago e... E Sebastian ci ha trovato e così lei...». Stavo balbettando ed era terribilmente frustrante. Succedeva ogni volta che venivo assalito dal panico e, in quell'ultimo periodo, esso sembrava esser diventato il mio nuovo migliore amico.
«Dove sono?» disse la bionda, serrando le labbra. Non riuscii a rispondere subito, o perlomeno, non nel breve tempo in cui durò la sua pazienza. Martha mi scosse vigorosamente, tenendomi per le spalle. «Dove, Simon?» ripeté, seria.

«Sul lago di Bellwood. E' ad un'ora di...».

Non mi lasciò finire. «Preparati, Tamara».

La ragazza dai capelli rossi annuì alle parole della Divoratrice. Io non ebbi il tempo di dire altro, che Martha scomparve.
Rimasi fermo e immobile al centro del salotto, lì dove ero - di fatto - apparso dal nulla. Vidi Tamara – a quanto pare quello era il suo nome – sfogliare freneticamente un grosso libro, dalle pagine gialle e più che consumate. Avrei voluto chiederle che stesse facendo, chi fosse, perché era in quel posto, ma, ovviamente, nessuna parola di senso compiuto uscì fuori dalla mia bocca. Restai, semplicemente, in silenzio, in attesa di chissà cosa, con il cuore che mi batteva a mille e che, molto probabilmente, era vicino all'uscirmi dal petto e rotolare sul pavimento.
Pensieri caotici mi vagarono nella testa, senza né logica né ordine e tutto divenne ulteriormente più confuso quando Martha riapparve, tenendo Hazel, scossa da tremori, tra le braccia.

«Ora!» urlò e Tamara prese a recitare dei versi di quello che mi sembrò essere latino. Non mi preoccupai molto di lei. Il mio sguardo andò subito a cercare i lineamenti di Hazel, che intanto era stata adagiata sopra ai cuscini del divano bianco.
Tentai di avvicinarmi, a passo lento, ma Martha mi urlò di stare indietro e, purtroppo, capii subito il perché. Voleva evitare che vedessi coi miei occhi ciò che Sebastian aveva fatto alla sorella e non era nulla di buono.
Ma non ebbe successo. 
Hazel stava sanguinando e non poco. Una ferita profonda si apriva sul suo addome e quel liquido rosso non sembrava cessare di fuoriuscire, copioso. Le mani di Martha cercavano di porre rimedio a tutto, invano.
A me mancava il fiato. Mi sentivo del tutto debole e impotente. Hazel sprofondava nell'agonia e io non potevo aiutarla in nessun modo.

«Dimmi cosa fare» supplicai. Fui pressapoco sicuro che le lacrime riuscirono a raggiungere i miei occhi. «Ti prego, dimmi... Dimmi cosa fare».

Non ottenni nessuna risposta, anzi, sembrai scomparire da quella stanza, perché nessuno mi diede più retta. Tamara continuò a recitare quelle strane – e alle mie orecchie, prive di senso – parole, in modo sempre più acuto.

Mi morsi forte il labbro inferiore e rischiai di sanguinare anche io. Strinsi i pugni lungo i fianchi e cercai di non farmi tremare troppo il petto.

La vista mi si annebbiò per qualche istante, sbattei più volte le palpebre.

All'improvviso, così come era iniziato, il caos finì.

Tamara tacque e il silenzio fu rotto solo da gemiti lievi di Hazel. Vidi Martha rimettersi in piedi e venirmi incontro.

«Ho bisogno che tu stia con lei» sussurrò.

«Sta... Sta bene?» biascicai.

«E' stata meglio, ma la ferita si sta rimarginando. Io devo parlare con Tamara e sistemare delle faccende. Puoi restare con lei, per favore?».

Mi limitai ad annuire. «Qui siete al sicuro» continuò. «Ho fatto sigillare un incantesimo di protezione su questa casa, perciò, finché rimarrete qui dentro, Sebastian non potrà trovarvi».

Feci nuovamente cenno di sì con la testa, ma non riuscii a replicare a parole. Martha, a quel punto, si spostò, raggiungendo l'amica dai capelli rossi e, insieme, abbandonarono il salotto.

Io ci misi più di qualche secondo a compiere un solo passo in direzione del divano. Mi fermai a meno di metro da esso, trattenendo il respiro. Hazel aveva gli occhi socchiusi e sollevò a stento le palpebre per guardarmi. Sforzai un sorriso, per nulla convincente, e mi inginocchiai al suo fianco, cercando di ignorare i cuscini sporchi di rosso e la sua maglietta impregnata di sangue.

«Sto bene, Simon» mormorò, con un filo di voce.

«Fino a poco fa, non sembrava affatto» replicai, con lo stesso tono.

«Non posso morire, ricordi?».

Risi, sarcastico e privo d'entusiasmo. Dovevo aspettarmi che lei non sarebbe rimasta per troppo quella debole o, perlomeno, non avrebbe voluto sentirsi tale per più di dieci minuti. «C'ero anche io sul quel lago, con Sebastian» dissi, riuscendo a non inciampare sulle mie stesse parole. «Ho sentito quel che ha detto e ho visto quel che ti ha fatto. Sei stata ferita in maniera piuttosto grave, per cui, per favore, non pretendere che io non sia scosso e soprattutto preoccupato per te».

«Non voglio che ti preoccupi, non... Io sto bene, davvero».

«Se Martha non fosse venuta a salvarti, lui ti avrebbe uccisa».

«Ma non è successo».

«Avrebbe potuto succedere, dannazione, tu non...». Mi stavo innervosendo e, soprattutto, arrabbiando. Ero arrabbiato, furioso con lei che continuava a far finta che nulla di grave fosse successo, quando in realtà era tutto il contrario. Lo faceva per proteggermi, ovviamente, per farmi stare bene, ma non riusciva a capire che, facendolo, ciò che otteneva era soltanto farmi sentire più che inutile.
Mi passai una mano sul viso, più volte, cercando di calmarmi, almeno un po'. «Tu non ti preoccupi di te stessa, Hazel» dissi, nervosamente. «Non lo fai nemmeno per un secondo, pensi sempre agli altri, pensi sempre a me e lo trovi dannatamente normale e allora perché... Perché non è normale che io sia terribilmente in ansia se la mia ragazza sta male?».
Lei mi fissò, con la bocca aperta e gli occhi socchiusi. La vidi abbozzare un sorriso, genuino e unico, mentre io mandavo giù a fatica la saliva.

«Vieni qui» mormorò, scostandosi appena sul divano, per farmi posto.

«Non... Non credo sia una buona idea» balbettai. «Sei ancora debole e...».

«Vieni qui e abbracciami, Simon. Per favore».

Esitai per qualche secondo, ma alla fine, come sempre, dovetti arrendermi ai suoi diamanti verdi, che mi supplicavano. Così mi alzai, lento, e la raggiunsi sui quei cuscini bianchi sporchi di rosso, ignorando con più facilità il sangue. Mi sdraiai al suo fianco, permettendole di poggiare la testa sulla mia spalla.

«Sono davvero la tua ragazza?» disse, a bassa voce e riuscii a percepire il suo respiro lieve sulla mia pelle. Abbozzai un sorriso e dopo poggiai le labbra sui suoi capelli scuri. «Già» sussurrai.
Sebbene lo avessi detto di getto, era quel che pensavo. Lo facevo prima di scoprire la sua natura e il mio inconscio aveva solo rimosso quell'idea nel mio periodo di crisi, ma non era mai scomparsa del tutto. Hazel – o Johanna – era la mia ragazza e non c'era nessun altro posto in cui avrei voluto stare, se non accanto a lei.
 

***

Aprii gli occhi a pomeriggio inoltrato. Il sole era appena tramontato e ogni cosa si era colorata di arancione, attendendo con pazienza il buio della notte.
Mi passai una mano sul viso, rigirandomi sui cuscini morbidi del divano. Ero rimasto solo lì. Probabilmente mi ero addormentato e Hazel ne aveva approfittato per sgattaiolare via. Non che fosse andata molto lontano; nemmeno poteva, del resto.
Mi alzai goffamente in piedi e tentai di rendere i miei vestiti meno stropicciati di quanto in realtà fossero. Udii dei rumori provenire dalla cucina. Doveva essere lei, per forza di cose, anche perché Martha sembrava trovare sempre delle scuse per stare fuori casa. Lo faceva da due giorni e non me ne spiegavo il motivo.
Quando raggiunsi la nuova stanza, vidi Hazel in piedi, di spalle, davanti alla finestra, con addosso una camicia da notte bianca con ornamenti di pizzo. Non era molto il suo stile; molto probabilmente le era stata prestata dall'amica.

«Avresti dovuto riposare, lo sai, vero?» esclamai, fermandomi sulla soglia della porta. La sentii ridere. «Sono rimasta ferma su quel divano per due giorni» replicò «con te che mi servivi e riverivi. Direi che è un tempo sufficiente». Si voltò, allora, sorridendomi dolcemente. «La ferita è scomparsa» continuò e, nel frattempo, avanzò verso di me. «Sto bene, ora, e non lo dico solo per farti contento».

«Questo è un bel passo in avanti».

Ormai mi era arrivata vicinissimo. I nostri volti distavano solo qualche centimetro e io riuscivo chiaramente a percepire il suo caldo respiro sulla mia pelle.

Nei due giorni passati, non avevamo avuto occasione di parlare del quasi bacio di riappacificazione sul lago; o meglio, nessuno dei due aveva avuto il coraggio di tirar fuori tale argomento, forse preso dalla preoccupazione reciproca e da tutta la situazione che si andava creando attorno a noi.
Non avevamo parlato e non avevamo agito. Eravamo semplicemente fermi, come all'interno di una bolla di sapone, con il timore di muoverci e farla scoppiare.

«Martha mi ha dato il permesso di farti vedere una cosa» sussurrò Hazel ad un tratto, quando ogni mio istinto represso in quei giorni per portarmi a baciarla era quasi del tutto incontenibile.

«Che cosa?» chiesi, fissando – non volendolo consciamente – le sue labbra. Lei abbozzò una risata, prima di prendermi per mano e trascinarmi via dalla cucina, lungo i corridoi di quell'immenso attico.

Ci fermammo solamente quando raggiungemmo una stanza dalla porta rossa e lì entrammo. Non ci avevo mai messo piede, così come nelle altre – forse dieci – camere.
Era un luogo molto grande; i soffitti alti, completamente bianchi, come le pareti: candide e prive di imperfezioni. Non c'era molto mobilio, solo un grosso letto a baldacchino, dalle lenzuola turchesi, avvolto in un tulle dello stesso colore, solamente di qualche gradazione più chiaro.

«Questo cos'è?» chiesi, anche se la risposta era piuttosto ovvia. Hazel rise di nuovo e saltellò in direzione del letto. Si fermò con le spalle al muro, osservandomi da distanza, con la testa inclinata di lato. «Che città ti piace?» esclamò, ignorando la mia domanda.
Non capii il senso della sua. Mi morsi piano il labbro inferiore, muovendo qualche passo nella sua direzione. «Non lo so» dissi «me ne piacciono parecchie».

«Scegline una. Avanti: New York, Londra... Tokyo?».

«Parigi».

«Parigi è una bella scelta».

Realizzai solo allora, quando le luci si abbassarono e le pareti cominciarono a colorarsi, il perché mi avesse posto una domanda del genere. Sui muri bianchi, quasi per via di un incantesimo, cominciò a delinearsi il profilo di Parigi: case illuminate, strade trafficate, la Tour Eiffel. Mancavano solo i suoni della città e le voci di gente francese, e quell'illusione sarebbe stata perfetta.

«E' un'installazione di Martha» esclamò Hazel, distogliendomi dal contemplare con lo sguardo quella meraviglia che si era creata attorno a noi. «Dice che le piace essere ogni giorno in una città diversa» continuò «anche se potrebbe effettivamente spostarsi, è troppo attaccata alla sua vita da semi-umana per andarsene in giro per il mondo. Così ha creato tutto questo e direi che...».

«E' magnifico» completai per lei la frase.

«Lo è».

A quel punto, il mio istinto, il mio desiderio, non erano più soli. C'era la magia di Parigi, c'erano i suoi occhi verdi che mi fissavano, la luce soffusa. Solo uno stupido sarebbe rimasto fermo. Molto probabilmente, ciò che ero tre mesi prima, il Simon di tre mesi prima, sarebbe restato immobile, a fissarsi i piedi; ma non c'era tempo per non muoversi.
Compii un solo passo e le fui – praticamente – addosso. Poggiai una mano sul suo fianco, l'altra sul suo collo e premetti la bocca contro la sua. Le nostre lingue danzarono e si attorcigliarono l'una con l'altra, mentre la sua schiena aderiva perfettamente al muro e io la sollevavo da terra, accarezzando lieve le sue cosce. Le sue mani si infilarono tra i miei capelli, tirandoli appena – come d'abitudine.
Ringraziai mentalmente Martha per non essere in casa e qualcosa mi suggerì che quello fosse proprio il suo intento: lasciarci soli, solo che, fino a quel momento, non avevamo proprio colto una delle mille occasioni avute.
Mi spostai lento, senza perdere il contatto con le sue labbra, sull'alto e morbido materasso. Adagiai Hazel sul letto, facendola sdraiare, con me sopra.
I nostri corpi erano come un magnete ed una calamita: si attiravano inesorabilmente l'uno all'altro, si cercavano, si accarezzavano e aumentavano di temperatura.
Mai come allora fui bruciato dalla passione, ma forse era un metodo per la mia redenzione: per averla trattata male, per averla respinta senza ragione. Donarle me stesso, per farmi perdonare, sebbene lei lo avesse già fatto, più di una volta.
I vestiti ci scivolarono di dosso. Io la spogliavo, lei mi spogliava, in gesti complici, meccanici, come se da un mio movimento ne dipendesse uno suo, uguale e contrario.
In quel momento, le perenni domande su cosa sarebbe successo, se mai avremmo avuto un futuro, sui pericoli che avremmo corso quando l'incantesimo di protezione sarebbe cessato, svanirono. Scomparvero del tutto, in quell'angolo di paradiso, nell'illusione di Parigi, nella nostra bolla tranquilla e serena, almeno fino alla mattina successiva.

  
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