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Autore: LilithJow    09/04/2013    7 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 16
"Heavy"


Sono chiuso in questa casa da due settimane. Ho contato i giorni, a volte persino i minuti, ma non mi dispiace stare qui – anche se devo usare dei fogli sparsi, al posto del mio fidato quaderno rosso. Non ho ben capito che scusa Martha ha rifilato a mia madre per giustificare la mia assenza in pratica da tutto, scuola compresa. Molto probabilmente, la stessa usata con i falsi genitori di Hazel.
Le vacanze di primavera di mezzo, tuttavia, ci hanno aiutato molto. Gli studenti di ogni città sono soliti partire, andare in montagna o al lago, durante quel periodo. Ogni tanto ricevo qualche chiamata da mia madre, sul cellulare. E' sempre tranquilla e felice per me e, soprattutto, per me ed Hazel – anche se lei la conosce come Johanna.
Non so per quanto tempo ancora dovremo nasconderci. Ho chiesto a Tamara perché non possa semplicemente spostare l'incantesimo di protezione sulle nostre abitazioni e sulla scuola. Mi ha risposto che potrebbe, ma, purtroppo per noi, si è saputo che Sebastian tiene sotto controllo quei luoghi e non è solo. Nella sua caccia, sono compresi altri divoratori, che fanno parte del suo clan – o gruppo, o qualsivoglia nome.
Non è per niente una buona notizia. Mi atterrisce più di chiunque altro e il pensiero che possano essercene altri del suo stesso calibro, mi fa già tremare.
Per di più, ora come ora, non ho più nulla con cui possa distrarmi. Tamara si è messa alla ricerca della famosa chiave, ma lo ritiene un lavoro più solitario e dice che io le sarei semplicemente di intralcio.
Hazel sta con me il più possibile, ma ci sembra scorretto chiuderci in camera e tagliar fuori Martha. Del resto, questa è casa sua. Per questo motivo, spesso, lascio loro degli spazi, da riempire con cose da amiche, anche se non sono molto sicuro che due come loro possano effettivamente avere conversazioni come due normali teenager. Non mi resta che riprendere a scrivere. Mettere su carta ogni mio pensiero, di qualsiasi tipo. Dicono che aiuta e, effettivamente, con me ha funzionato in passato.
Anche Hazel scrive. L'ho vista molte volte con in mano una penna argentata e un quaderno dalla copertina nera. Di solito, mentre butta giù le proprie parole su pezzi di carta bianca, mi guarda e sorride.
A me risulta ancora difficile capire cosa le passa esattamente per la testa. Capita che non la comprenda a pieno e non raramente, e, da una parte, ciò mi intriga parecchio. Dall'altra, però, vorrei che fosse tutto più semplice, che io potessi afferrare al volo l'idea partita da un suo sguardo o da un suo gesto. Penso che in quel quaderno nero ci sia molto di lei. Probabilmente anche parti che non mi ha mostrato o che io non ho fatto in tempo a scoprire.
Sono convinto, comunque, che col tempo tutto risulterà più chiaro. O almeno lo spero.



Posai la penna blu accanto ad uno dei fogli senza righe che ero riuscito a recuperare dalla risma nello studio – così chiamava la sua stanza, la più tecnologica della casa – di Martha.
Ero solo, in camera da letto, seduto alla scrivania di legno che evidentemente non era mai stata usata da nessuno prima di allora.
Anche da lì, tuttavia, sentivo Hazel e Martha ridacchiare, seppur alle loro risate si alternavano attimi di assoluto silenzio. Nemmeno provai ad immaginare ciò che si stavano dicendo e, se lo avessi fatto, non sarei mai giunto a qualche logica soluzione. Entrambe credevano che io dormissi e, data l'ora – le tre di notte – era una cosa che poteva definirsi normale, una delle poche rimaste nella mia vita.
Il punto era che era impossibile per me farlo. Mi ero abituato alle ninne nanne di Hazel. Me ne cantava una ogni sera, ma, quella volta, feci finta di addormentarmi prima, pur di trascorrere un po' di tempo con i miei pensieri. Ne avevo semplicemente bisogno.
Una notte d'insonnia, del resto, dopo tanto, non mi avrebbe fatto male.

Mi passai una mano sul viso, schioccando le dita dell'altra, pronto a riprendere la scrittura. Un occhio, in quell'istante, mi cadde sul quaderno dalla copertina nera di Hazel, abbandonato sopra al comodino accanto al letto, sotto alcuni libri a mio parere mai aperti.
Il desiderio di prenderlo e leggere quelle pagine era alto. Eccessivamente alto.

“A te non piacerebbe se lei si intrufolasse tra i tuoi pensieri su carta” mi rimproverò la mia coscienza, tornata alla ribalta dopo parecchi giorni.

Sbuffai, scuotendo appena la testa. «Non farlo, Simon» dissi a me stesso e quasi mi venne da ridere. Era la prima volta che davo voce alla mia parte ragionevole. «Non farlo e non combinare casini» ribadii.
Riafferrai la penna tra le dita, cercando di proseguire la stesura del mio diario, ma... Il quaderno nero era un richiamo troppo forte. Era una necessità che andava soddisfatta, per quanto stupida potesse sembrare.

«Ma una lettura veloce, rapida e indolore, non farà male a nessuno, no?».

Mi alzai di scatto, lanciando uno sguardo distratto alla porta per controllare che lei non entrasse proprio in quel momento – dato che il mio tempismo era pessimo.
Per mia fortuna, nulla del genere accadde. Riuscii a tenere il quaderno tra le mani dopo esattamente dieci secondi. Sfogliai un po' di pagine, erano tutte datate e tra quell'infinità di giorni, riuscii a trovare quello del nostro primo incontro, nell'atrio del nostro palazzo.

Ho incontrato un ragazzo oggi. Non so ancora come si chiama. E' molto carino, i suoi occhi sono come il ghiaccio. Brillavano, persino con poca luce. Vorrei conoscerlo. Potrebbe essere la mia unica ragione per restare”.

Sorrisi, tra me, scorrendo tra quelle righe. Poteva rimanere estremamente dolce solo attraverso dell'inchiostro?

L'ho incontrato di nuovo. Si chiama Simon Clarke. Mi piace molto il suo nome. Sembra essere molto timido, il che lo rende semplicemente adorabile. Ha buon cuore, riesco a sentirlo. Stranamente, quando lui è nei paraggi, sento tutto”.

Andai avanti.

Con Simon sto bene. Sto estremamente bene e n...”. Alcune righe erano cancellate, impossibili da leggere. Le saltai. “Non so se posso andare avanti, non con quello che voglio fare. Lui non può scoprire cosa sono, altrimenti, tutto va in frantumi”.

Altre righe cancellate. Quel che doveva fare? Che cosa?

La confusione mi attanagliò e i miei occhi scorsero ancora quelle pagine scritte.

Il danno è fatto. Simon ora sa tutto. Ho pensato di lasciar perdere, ci ho pensato davvero, ma è una cosa troppo importante per essere rimandata ancora. Cerco uno come lui da secoli. Finalmente l'ho trovato. Non posso rimandare il sacrificio”.

Alla parola “sacrificio”, per un attimo mi mancò il fiato. Dovetti rileggere l'ultima riga per più volte, per accertarmi di non avrei frainteso. Le parole erano quelle, sebbene nella mia testa non avessero ancora un pieno significato.
Non sapevo di che sacrificio stesse parlando e ancora non mi spiegavo come, in solo qualche pagina, tutto si fosse ribaltato e fosse diventato insopportabile.

Ucciderlo non sarà facile. Lui deve essere d'accordo, deve donarsi spontaneamente. Per questo ho bisogno che si fidi di me. Odio questa parte, ma purtroppo non ho scritto io le leggi. Se voglio far risorgere il nostro Creatore, questo è l'unico mezzo. Presto tutto sarà finito e il mondo sarà per sempre nostro”.

Altra confusione. Asfissiante confusione, perché ogni attimo vissuto nell'ultimo periodo, con lei, con Hazel, era stato messo in discussione nel giro di qualche secondo.
Ogni cosa aveva perso significato, ogni cosa sembrava patetica e architettata nel migliore dei modi e io mi sentivo terribilmente stupido. Rilessi quelle parole. Inchiostro nero su pagine ingiallite; ogni lettera era come un duro e forte colpo allo stomaco.

Devo ucciderlo”.

Si sta fidando di me, come volevo”.

Manca poco”.

DEVO UCCIDERLO”.

 

«Hey, sei sveglio!».

La voce di Hazel mi fece sussultare. Rimasi con lo sguardo fisso nel vuoto per qualche attimo, con mani tremanti e percepii una lacrima scendermi lungo la guancia. Non ebbi il coraggio di muovermi, non subito.

«E' tutto okay?» sussurrò lei.

Mi girai lento, con ancora il quaderno nero appoggiato sui palmi. Hazel fece una smorfia, quando lo vide. «Perché lo hai preso?» domandò, con tono un po' più duro del solito, il che non riuscì a sorprendermi più di tanto.
Cercai di evitare che il mio respiro si facesse troppo affannato, perché voleva dire solo che il panico stava tornando ad attaccarmi e, in quel caso, non ci sarebbe stato più nulla a tenermi a galla. Mi morsi forte il labbro, abbassando lo sguardo nuovamente su quelle righe che, come lame, continuavano a ferirmi.

«“Ormai è fatta. Simon si fida ciecamente di me, farebbe qualsiasi cosa. Mi basterà chiederglielo e tutto si compirà, come giusto che sia”». Lessi ad alta voce le sue parole, con tono arrancante. «“Mi toglierò un peso, dopo tutto, poi penserò anche a Sebastian. Gli brucerà il fatto che sarò io a vincere la nostra battaglia”».

Alzai gli occhi su di lei. Avevo il fiatone. Hazel mi guardò con la sua aria dispiaciuta e scorsi delle lacrime sul suo viso, le stesse che ormai inondavano la mia faccia. «Io non ho mai scritto quelle cose» biascicò.

«E' il tuo diario» replicai, tremando. «Dentro ci sono tutti... Tutti i momenti passati insieme, alcuni descritti nei minimi dettagli e... E questo quaderno è sempre stato qui, tra le tue mani e...».

«Io non avrei mai scritto nulla del genere, Simon!». Fece un passo in avanti. Avrei voluto indietreggiare, ma non avevo spazio. Lei riuscì ad avvicinarsi. Allungò una mano, a sfiorarmi una guancia, ma la scansai.

«Ti prego» mormorò. «Non puoi credere a quelle parole, Simon, tu... Fidati di me, ti prego».

«Come posso anche solo pensare di fidarmi di te, adesso?».

«Dopo tutto ciò che ti ho detto, dopo tutto ciò che abbiamo passato, credi di più a delle stupide parole scritte che a me?».

«Non so più a cosa credere».

«Credi a me! A me, Simon! Mi conosci... Non farei mai niente per ferirti».

Me lo aveva ripetuto così tante volte, che in quel momento quella frase non significò nulla. «Mi hai preso in giro per tutto questo tempo?» biascicai.

«Cosa? No!».

«Quindi non c'è nessun sacrificio per risvegliare il Creatore dei Divoratori?».

Sperai che mi dicesse di no, che la sua voce riuscisse a calmarmi, come faceva sempre. Glielo avrei permesso, per quanto restio ancora fossi, ma non ottenni nulla, a parte il silenzio, che concretizzò tutti i miei dubbi, le mie nuove ansie, le mie nuove paure.
Il diario mi cadde di mano. L'impatto col pavimento fece sparpagliare fogli scritti un po' ovunque. Hazel mi fissava, con occhi lucidi. I miei, invece, si erano svuotati.

«Simon...» mormorò ancora. Mi prese di forza la mano, nonostante io avessi cercato di evitarlo. Mi accarezzò nervosamente il viso e per un solo attimo, glielo lasciai fare.
Durò tutto solo cinque secondi, esatti, contati, prima che mi staccassi bruscamente. «Non toccarmi» sibilai. Ero troppo scosso per anche solo provare ad essere comprensivo. Avevo la vista annebbiata dalle lacrime e non ragionavo più, perché nel giro di qualche secondo, ogni cosa mi era crollata addosso. Di nuovo.
Di nuovo, ero terrorizzato da lei ed era qualcosa di diverso a ciò che avevo provato quando ero venuto a conoscenza della sua natura poiché, in quel caso, una piccola parte di me mi spingeva a fidarmi ancora. Quella volta, invece, non c'era nulla, se non la rabbia e la paura e l'angoscia.
Non ero al sicuro. Mi trovavo nel posto più pericoloso al mondo.

Cominciai a vagare per la stanza, senza un minimo di logica, recuperando ogni cosa che fosse mia. Non molto, comunque, solo qualche indumento e le scarpe che misi ai piedi.

«Che stai facendo?» mi chiese Hazel, con voce spezzata e non muovendosi di un millimetro.

«Me ne vado» quasi urlai e non cessai di muovermi.

«Dove? Sebastian potrebbe trovarti e...».

Mi fermai, di scatto, proprio davanti alla soglia della porta. Mi morsi forte il labbro inferiore e rischiai di farlo sanguinare.

«Se dovesse trovarmi, gli dirò che non ha più motivo di prendersela con me, dato che non faccio più parte della tua esistenza» dissi e risultai anche un po' acido, sebbene il mio cuore stesse quasi per fermarsi a causa del dolore.

«Hai promesso che non te ne saresti mai andato» la sentii biascicare.

Sorrisi, amaro. «Non avevo tenuto conto delle bugie e degli inganni».

«Non ti ho mai mentito. Da quando hai scoperto cosa sono, ti ho sempre detto la verità e tu lo sai».

«Non mi hai mai detto nulla del sacrificio».

«Perché non mi importa del sacrificio, Simon! Per quale assurdo motivo mi interesserebbe riportare alla vita un essere così spregevole?».

«Non lo so!». Mi girai di scatto. Lei era ancora ferma, lì dove l'avevo lasciata e mi fissava, con i pugni chiusi lungo i fianchi.

«Quelle cose non le ho scritte io» ripeté, per l'ennesima volta.

«Chi è stato, allora?».

«Non ne ho idea. E' il mio diario, sì, ma quelle non sono mie parole. Non tutte, perlomeno. Non lo so, forse Sebastian ha...».

«Non puoi continuare a incolpare Sebastian per ogni cosa. E qui dentro, Sebastian non può entrare».

«Avrà trovato un modo!». Strinse i denti e mi parve di vederla tremare. Era come se, lentamente, stesse perdendo il controllo di se stessa.

Avanzò verso di me, a passi svelti e si fermò solo quando pochi centimetri rimasero a separarci. Una lieve voce nella mia testa mi suggeriva di crederle, mi supplicava di farlo, ma, purtroppo, ciò che avevo letto continuava a martellarmi, a prendermi a calci, come se fosse l'unica cosa importante, come se avesse il potere di oscurare tutto il resto.
Mi sentivo vuoto, apatico, quasi fossi io quello non umano nella stanza.

«Non lasciarmi» biascicò e i suoi occhi scintillarono di rosso. «Tu non puoi lasciarmi, tu non... Tu non puoi». Trattenne il fiato e prese, con ben poca delicatezza, il mio viso tra le mani. Quasi mi strattonò e la nostra differenza di forza mi impedì di liberarmi. Fui costretto a guardarla negli occhi, ma tanto sarebbe accaduto in qualunque caso; io che cadevo nella trappola dei suoi diamanti verdi era ormai abitudine.

«Io ti amo, Simon Clarke» sussurrò, quasi stesse esalando l'ultimo respiro, come se quelle fossero le ultime sue parole, troppo importanti per essere messe in disparte, per essere lasciate perdere; l'ultima ragione per vivere.
Su di me, in altre circostanze, anche solo un'ora prima, tali parole avrebbero avuto un diverso effetto da ciò che, di fatto, accadde.

«Tu non mi ami» sibilai e la mia espressione si fece seria e, a tratti, agghiacciante. Vedendomi allo specchio in quel momento, non mi sarei riconosciuto. «Non mi ami, perché non puoi. Non hai un'anima. L'amore è per gli umani e tu non lo sei».

Probabilmente, presto mi sarei pentito di quelle ultime frasi. Probabilmente, a mente lucida, mi sarei addirittura odiato per aver tirato fuori parole così taglienti, con il solo scopo di ferirla, un po' come avevano fatto le sue – ammesso che lo fossero – scritte sul diario.

Il problema è che la rabbia riesce sempre ad inibire ogni altro senso e io, in quel momento, ero accecato da quel mostro color sangue, che mi spingeva sempre più nella direzione sbagliata.

Hazel staccò piano le mani dal mio viso, tenendole a mezz'aria, mentre i nostri sguardi erano ancora fusi l'uno con l'altro, ma senza la solita complicità e appartenenza.
Feci fatica a respirare e lei indietreggiò, con la bocca socchiusa. Le braccia le ricaddero lungo i fianchi. Avrei voluto giustificarmi in qualche modo, dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma l'istinto mi portò a tacere.
“Tu non sei in torto, idiota” mi rimproverò la vocina malefica della mia coscienza. Dovetti accordarla, per quanto credessi di esser io quello dalla parte dell'errore, in quel momento. Ma la rabbia... Già, la rabbia c'era ancora ed era più forte che mai.
Lei lo aveva capito dall'espressione priva di sentimento che avevo stampata in faccia. Tuttavia, nemmeno da parte sua ci furono suoni. Rimase in silenzio e, in un battito di ciglia, sparì dalla stanza, lasciandomi solo.

  
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