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Autore: Aerith    30/08/2004    0 recensioni
Certe ferite non si rimarginano... mai... E allora come... come tornare a vivere?
Un'anima distrutta che si sforza di percorrere la propria strada, sorretta solo da illusioni e speranze...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Live another day
Climb a little higher
Find another reason to stay..."


"Il tempo è come una goccia... una goccia d'acqua che cade sulla tua testa da una grondaia, ti scivola lungo la schiena e cade a terra, e poi giù, PLINT-PLINT-PLINT, su ogni scalino, e poi... è così leggera che il vento la solleva e la spinge via, fino a farla giungere al mare del passato dove si perde per sempre...
Io sento il tempo. Lo sento scorrere incessante nella mia testa, risuonare costantemente nel mio orecchio, con una cadenza regolare e impietosa... e allo stesso tempo lo sento dissolversi, luccicare un attimo dietro ai miei occhi, per poi sparire lasciando solo un senso di... vuoto...
Io ascolto l'esistenza che si trascina di giorno in giorno, mentre si struscia contro una terra infeconda, disposta a donarle solo la propria aridità... la sento trascinarsi sotto il peso del tempo, che le ha già tolto tutto... tranne il dolore...
Perché il tempo è un ladro che ti scorge da lontano, ti scruta, ti legge dentro, a lungo... poi ti sfiora per un attimo, ti passa accanto e sorride compiaciuto, per poi dileguarsi senza poter essere scorto, lasciandoti privo della volontà di andare avanti, che ti ha sottratto con un gesto impercettibile...
Il tempo è troppo e non è mai abbastanza.
Lo odi, desideri fuggirlo più di ogni altra cosa, vorresti che sparisse per smettere di sentirtelo addosso, ma quando ti accorgi che inizia ad abbandonarti... passi a bramarlo, tenti di rinchiuderlo e farlo tuo schiavo... ma il tempo fugge... è libero, è un falco che sbatte le ali e punta al sole, per dimostrare al cielo la sua supremazia...
Il tempo mi fa paura."

Caldi raggi entrano dalla finestra, sempre aperta per semplice pigrizia di doverla chiudere ogni sera, o forse per paura di essere scorta solo andandoci vicino... Due piccole nocciole spente, fisse sul soffitto, mentre la testa cessa lentamente di pulsare e il bruciore si allevia...
Tante mattine tutte uguali, tutte vuote... monocromatiche, o nere, o bianche, o rosse, per poi sfociare in un grigio piatto e persistente, privo di sfumature, inutile, prosciugato da ogni strascico di emozione o interesse, svuotato da ogni schizzo di colore di vuoi può sentirsi dipinta una vita.
TAC-TAC-TAC, il messaggero privo di compassione sempre pronto a ricordarti che il tempo esiste e non cessa mai di scorrere... anche se sembra che non passi mai; anche se te ne accorgi solo dopo che è già passato... lì, a ricordarti che anche tu esisti, che respiri, e che in un modo o nell'altro devi continuare a vivere... perché la vita è una delle poche cose che ti restano, anche se da tanto non te la senti più così addosso.
Dopo tutto, che vuol dire vivere? Compiere una serie di azioni meccaniche, senza neppure pensarci, giusto per riempire il vuoto che sommerge ogni giornata? Agire senza uno scopo, solo per evitare di riflettere? Per fuggire dal pensiero? A volte si esiste senza vivere, se lo spirito ne ha perso il desiderio. Ma a che serve? A nulla, ma se non pensi non puoi nemmeno scegliere di morire. Anche se una riflessione attenta non porterebbe neppure a questa conclusione. Perché la ragione è offuscata dalla speranza, dall'illusione che una piccola luce possa ancora nascere, rischiarando col suo bagliore etereo le fitte tenebre stagnanti nel profondo del cuore. Ma una luce generata dall'oscurità può davvero essere pura? O sarà corrotta come il resto delle tenebre che ti circondano? Una volta la luce esisteva, ed era sincera e trasparente. Non si riusciva a vederla, ma se ne sentiva il calore. Era speciale? No, era solo normale; è diventata speciale quando è venuta a mancare.

Quanto può essere difficile alzarsi la mattina presto? Per lei, non più di dover restare a letto. Così, come ogni giorno, usciva momentaneamente dal vuoto che aveva imparato a creare, giusto il tanto per riuscire a compiere, con impassibile noncuranza, i soliti gesti ordinari necessari a darsi un'aria per lo meno presentabile e ad arrivare a scuola senza incidenti. Tante, tante giornate, senza ragione, senza domande, concentrate a sopravvivere senza mai dover fare i conti con il mondo, e soprattutto con se stessa. Appartata sul fondo di uno spirito lacerato, sulle rovine di un'esistenza, circondata dall'alto intreccio di un filo spinato avvolto in una pesante nube di malinconia, e riscaldata solo dalle ceneri di un fuoco che una volta ardeva magnanimo, donando il suo tepore, ma il cui ricordo brucia molto di più ora che è spento.
Un altro giorno, ancora uno in più, pronto a mettersi con tutti gli altri in coda per l'inceneritore e perdersi per sempre nel vento gelido della realtà. Da tanto tempo è la sorte che tocca a tutti i suoi giorni. Pochi si sono salvati e si conservano ancora intatti, immutati e nitidi in ogni sfumatura. Alcuni marchiati a fuoco dentro l'anima, impossibili da cancellare, tanto meno da ignorare, onnipresenti, eterna condanna. Altri custoditi gelosamente in un cassetto di cristallo, serbati come una pietra rara di eccezionale purezza, come qualcosa il cui bagliore è tanto unico da dare l'assoluta certezza che ricrearli non sarà mai possibile... Celati persino al proprio sguardo dal sangue delle sue ferite, che li ha bagnati e occultati, sigillando il cassetto, nel quale nessun altro giorno sarebbe potuto penetrare, perché nessuno sarebbe mai stato degno di accostarsi a ciò che ai suoi occhi era semplicemente sacro, di salire sull'altare dedicato a ciò che non ritornerà ma che non sarà mai dimenticato...
Eppure a volte lo desiderava. Non avrebbe riaperto il cassetto, no, ma avrebbe voluto potervene accostare un altro, bianco, foderato e confortevole, per poter accogliere giorni nuovi, per racchiudere la luce della felicità e con essa riscaldarsi anche se avvolta dalle tenebre della solitudine. Ma era una menzogna, perché sapeva bene che contemplare la felicità passata poteva solo far riaprire le ferite e sanguinare ancora, e ancora... E allora cosa chiudervi? Non felicità, ma speranza, momenti puri di sole, per illuminare la via del futuro in modo più chiaro ed evitare di incespicare...
Ma neppure giorni del genere sarebbero mai arrivati, non per lei, sempre più incapace di nascondere l'amarezza ripensando a quante volte ci aveva creduto, a quando così infantilmente e pateticamente continuava a sperare in un qualche avvenimento che, contornato da un'aurea eterea, quasi divina, avrebbe squarciato il bozzolo in cui era rinchiusa la sua esistenza, dandole un'anima nuova e splendida, estranea al passato e priva di cicatrici. L'ennesima illusione, il cui ripetuto infrangersi l'aveva ridotta in frammenti tanto sottili da impedirne la ricomposizione, causandone così la definitiva scomparsa, e con essa la perdita di un appiglio. Solo poche schegge ancora resistono, sparse per l'anima, e di tanto in tanto urtano il suo pensiero, inducendola a sperare ancora, ad adoperarsi per ricreare l'illusione, fino a che questa non diverrà realtà o porterà alla follia. Ma che senso può mai avere il perseverare ad avere fede in un futuro cambiamento senza fare e neppure progettare vagamente nulla per renderlo possibile? Anzi, fuggire il contatto, temendo persino degli sguardi distratti, nascondersi dal mondo e crearsi un fragile rifugio nell'irrealtà... costruendo situazioni fittizie, possibili in teoria, ma irrealizzabili per la sua totale incapacità di essere come desidera... E' così semplice comportarsi in modo impeccabile, secondo i propri desideri, quando lo si fa nelle buie segrete della propria mente... ma come ricreare il tutto alla luce del sole con davanti qualcosa di più di un'ombra stilizzata? E, soprattutto, avendo a che fare con persone che hanno già un'opinione definita di te, e non pensano neppure di poterla cambiare. Ma, in fondo, non aveva la forza mentale per tentare di modificare tale opinione. Eppure a volte avrebbe voluto davvero mostrare la sua anima in tutte le sue mille sfaccettature, scoprendo le lacerazioni più profonde che tentava di ricoprire con tinte pastello, ottenendo solo colori spenti... Avrebbe voluto rivelare e spiegare a qualcuno ogni sua ferita e speranza, la profondità dei suoi pensieri e il vuoto che li circondava, la luce e le tenebre che coesistevano nel suo cuore, generando fiamme e ghiacci, tramutandosi in cenere per scomparire e poi risorgere e scontrarsi ancora...
Ma nessuno avrebbe potuto comprendere. Nessuno sarebbe riuscito a vedere, anche se lei l'avesse voluto. Perché la felicità rendeva ciechi. Solo con l'oscurità nel cuore sarebbe stato possibile vedere sul fondo dell'abisso. Incapaci di vedere, e quindi di capire, a volte tentavano un approccio, racchiuso in un distaccato "Come va?". Una domanda semplice, ma che lei temeva di sentirsi porre, ogni giorno, perché l'immagine che le si presentava nella mente era sempre la stessa. Un vetro rotto. Un frammento di specchio offuscato, incrinato e irregolare, dimenticato. Uno scorcio d'immagine, una sagoma parzialmente riflessa, di sbieco, inespressiva, irreale. Ed ecco sovvenire la solita squallida menzogna di circostanza, quella che risolve sempre la situazione e tronca il discorso: "Bene, come al solito". Un sorriso terribilmente forzato, patetico nella sua colossale falsità, volto a celare l'irrefrenabile tristezza che l'avvolgeva al solo tentare di focalizzare il suo stato, sia fisico che mentale, nel ritrovarsi incapace non solo di trovare una risposta, ma anche di pensarne una per lo meno plausibile.
Indubbiamente non stava bene, ne era certa; fisicamente non era certo in forma, e ormai da tempo aveva smesso di concepire un suo stato d'animo non solo positivo, ma neppure normale. D'altro canto, non poteva neppure affermare di stare male. Era costantemente stanca, certo, spossata alla sola idea di dover compiere un'azione che uscisse lievemente dagli schemi di movimenti che era ormai in grado di compiere anche senza prestarvi attenzione, con una noncuranza quasi propria di un automa, perché l'idea di dover connettere il cervello al corpo era di per sé troppo faticosa. Ma questo non voleva dire avere qualche malattia o menomazione fisica... anche se a un corpo sano non sempre corrisponde una mente equilibrata. Dal punto di vista psicologico era infatti costantemente a terra, stanca e quindi poco propensa a pensare, e comunque incapace di realizzare un qualunque scorcio di pensiero positivo. Eppure, non poteva affermare a priori di stare male, non sempre. Spesso, più semplicemente non stava. Attorno alla sua vita persisteva un fitto alone di staticità, un'ampia cappa di nebbia che le impediva di mutare in qualunque modo la propria situazione, così come di vedere le cose da un'angolatura diversa.

Anche quel giorno, come al solito, avrebbe nascosto i suoi pensieri, tagliati fuori dalla sua considerazione per qualche ora, per fare in modo che nessun altro potesse scorgerli, e così profanarli. Il cesto di ricordi, disperazione e speranze che portava con sé era qualcosa di unico e prezioso; troppo intimo per essere condiviso; troppo complesso e contraddittorio per essere compreso. Metterlo in bella vista non sarebbe servito, non avrebbe modificato il lento scorrere delle sue giornate, non le avrebbe donato la forza di agire, né tanto meno rafforzato la volontà d'esistere, di dimostrare la concretezza della propria esistenza. Quindi, non solo non era necessario mostrarlo, ma anzi era più opportuno occultarlo, sottraendolo al giudizio, all'incomprensione, alla pietà. Se il suo contenuto fosse stato rubato, divulgato, infangato dalle inutili sentenze del mondo, sputate sulla strada con tagliente indifferenza e spietata concretezza, se davvero si fosse saputo tutto... il fragile castello di carte su cui posava l'instabilità della sua anima sarebbe crollato inesorabile, e ogni carta, ogni pensiero, tormento, luce, caos, sarebbe volato lontano da lei, lontano da un guscio che non avrebbe più potuto muoversi sotto gli occhi interrogatori della vita... Nulla doveva trasparire, e la soluzione era semplice.
Offuscare il passato. Questo aveva imparato a fare quando stava a contatto con qualcuno. Non dimenticarlo, no, sarebbe stato tanto impossibile quanto ingiusto, ma metterlo un attimo in un cantuccio, fingendosi normali, come se non fosse mai esistito, pur mantenendone la perfetta consapevolezza nel cunicolo della coscienza. Così riusciva a conservare una seria compostezza, sempre nell'ombra, immobile al suo posto, eppure persa, insignificante agli occhi degli altri perché disinteressata a ciò che la circondava. Quando stava da sola invece aveva la straordinaria capacità di rievocare in rapida successione tutti i ricordi più felici della sua vita. Alcuni apparentemente insignificanti, ma pervasi da uno spesso strato di nostalgia. Di seguito, ecco in fila i ricordi dolorosi. Tutti gli errori, i torti, le amarezze. Entrambe le categorie bruciavano e ferivano allo stesso modo. Entrambe riuscivano a lacerarle l'anima all'inverosimile, per quanto ne rimanesse ancora intero... Ma il suo era un circolo vizioso. Non poteva fare a meno di torturarsi in questo modo. Non lo faceva volutamente, succedeva e basta. Ormai era una sorta di rito: le immagini le comparivano davanti agli occhi come qualcosa di sacro, di intoccabile, che era doveroso continuare a rievocare, per non scordare mai. In questo modo, la sua anima si logorava lentamente, ma inesorabilmente, con strappi talvolta superficiali, altre volte netti e profondi. Scorci di nulla si affacciavano ormai in vari punti, e pesavano sul cuore. Ma per evitare di venirne divorata, impiegava il tempo in cui era costretta a concentrarsi su qualcos'altro nel rattoppare alla buona più lacerazioni possibile, costruendo un fragile castello d'illusioni che a lei stessa apparivano fittizie, ma di cui tentava di convincersi fino a trasformarle in speranze per il futuro. In questo modo aveva sempre nuova materia da logorare e distruggere, e poi da ricucire per continuare a camminare. Ma aveva bisogno di tutto questo; non avrebbe potuto vivere senza. Il dolore proveniente da quei ricordi era ormai parte inscindibile di lei, di ciò che sentiva di essere... di ciò che le dimostravano fosse...
Cadere giù, nel buio abisso dell'anima, fermandosi ad osservare sul fondo la propria insignificanza, per poi riaffacciarsi alla luce con rinnovata rassegnazione. Si, cadere, perché non era possibile stare sospesi sul vuoto in eterno, soprattutto se si avanzava esitanti, in equilibrio su un filo trasparente, con gli occhi bendati per la paura di scrutare nella propria precarietà, con i piedi nudi ormai sanguinanti, alla ricerca di un equilibrio inesistente...
Ma nulla poteva cambiare; nulla sarebbe cambiato.
In fondo, era solo un altro giorno...
  
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