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Autore: LilithJow    14/04/2013    5 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 17
"Forgiveness"


Il perdono è definito come un atto umanitario. A sentirla così, la cosa fa un po' ridere, perché gli umani sono gli esseri meno inclini al perdono di tutto il pianeta.
Cessare di provare rancore e voglia di rivalsa sono cose troppo difficili per noi. Siamo costantemente bloccati dall'orgoglio, dalla rabbia; totalmente annebbiati dalla voglia di stare dalla parte della ragione che nemmeno per un attimo vogliamo sbilanciarci e perdere posizione.

A perdonare ci vuole coraggio e io... Io ero un codardo.

 

Erano quasi le quattro di notte e io mi aggiravo in una città pressoché deserta. Non avevo mai visto Chicago in quelle vesti: silenziosa, calma, con le luci soffuse. Era primavera inoltrata, ma faceva comunque freddo e il fatto di non avere un cappotto abbastanza pesante me lo faceva notare di più.
Tuttavia, non era quello a preoccuparmi. Continuavo a ripensare a ciò che era successo solo trenta minuti prima, nella stanza del grosso attico. C'erano le parole scritte nel diario da una parte e la voce di Hazel dall'altra. E poi c'ero io, che non sapevo più cosa fare, cosa dire, a cosa credere.
Mi risultava impossibile anche solo immaginare che lei avesse finto tutto, in ogni occasione; che avesse persino recitato la parte di qualcuno che aveva dei veri sentimenti, che, perlomeno, mi avesse illuso di averli.
Ma, del resto, era pur sempre di un Divoratore di Anime che stavo parlando: non avevano emozioni, non provavano nulla. Perché proprio lei avrebbe dovuto essere diversa?
Mi sentii un ingenuo, uno stupido e ancora stavo combattendo dentro di me una battaglia senza fine. C'era la parte ragionevole e arrabbiata, che mi urlava contro che avevo fatto bene a dirle quelle cose, che se le meritava, che forse avrei dovuto fare peggio. L'altra parte, quella più calma, quella che provava irrimediabilmente qualcosa per Hazel, mi suggeriva di cercarla, di chiederle scusa, oltre che a ulteriori spiegazioni.

Seppur oppresso e con gli occhi gonfi, la prima parte ebbe la meglio.

Ci misi un'eternità per raggiungere casa. Era ormai l'alba quando attraversai il grosso atrio di lusso e, con le mani nelle tasche della felpa, mi infilai nell'ascensore.
Riuscii ad intrufolarmi in casa senza fare nessuno rumore, stranamente, nonostante la mia abituale goffaggine. Mia madre dormiva ancora ed ebbi successo nel non svegliarla.
Mi chiusi in camera quasi subito e, lì, non appena chiusi la porta, le gambe mi cedettero. Scivolai a terra, seduto, strisciando la schiena sull'anta di legno. E piansi, quelle lacrime che credevo esaurite, ma che, invece, erano ancora presenti, a consumarmi la pelle e a prosciugarmi gli occhi. Mi presi la testa fra le mani, singhiozzando e tremando. Maledii la mia insonnia persistente. Perché non potevo semplicemente sprofondare in un sonno profondo e vedere solo nero? Niente sogni, niente incubi.

Niente di niente, solo la pace, la quiete del sonno.

Ma no. La mia coscienza era sempre pronta a punirmi, che io avessi colpe o meno.

Passai ore steso sul letto, a fissare il soffitto. Inutile fu il tentativo di provare a non pensare. Ovviamente, la mia testa era tempestata dai ricordi degli ultimi mesi, taglienti come lame, violenti seppur belli. Mi bruciavano, come avrebbe fatto il fuoco vivo.
Sarei rimasto in quella posizione forse per tutto il giorno o per giorni, se mia madre non fosse entrata nella stanza, accorgendosi quindi della mia presenza. Mi fece un sacco di domande, riguardo alle vacanze di primavera, alle quali risposi sempre a monosillabi, e, soprattutto, riguardo a quella che conosceva come Johanna.
Lei, tuttavia, aveva quella innata capacità di capirmi anche quando stavo in silenzio. E, di fatti, dopo un po', non mi chiese più nulla. Si limitò ad abbracciarmi e a darmi un leggero bacio sulla fronte, lasciandomi poi nuovamente solo.
Per quanto avessi voluto relativamente parlare e sfogarmi con qualcuno, di certo non era la persona più adatta. Avrei dovuto mentirle, inventare sotterfugi e non volevo.

Trovai la forza di alzarmi dal letto solo a pomeriggio inoltrato. Mi sentivo debole e spossato. Rimasi seduto sul materasso, con i gomiti poggiati sulle ginocchia.

Non sapevo che cosa avrei fatto.

La sola idea di dover tornare alla normalità, fingendo che tutto andasse bene o che, peggio, avessi solamente avuto a che fare con una rottura adolescenziale, mi dava il voltastomaco.
Di certo, avrei dovuto trovare una qualche scusa per il mio perenne essere di malumore, se mai a qualcuno fosse effettivamente importato qualcosa.

Mi alzai a rilento, trascinando i piedi sulla moquette. Mossi solo qualche passo, prima che qualcosa riuscisse a fermarmi: il ciondolo che ancora portavo al collo cominciò a illuminarsi, a intervalli regolari e fu seguito dal suono di una voce, metallica, che mi mise i brividi addosso.

«Ciao, Simon».

Mi fermai, appena tremante, davanti alla porta chiusa. Mi morsi piano il labbro inferiore, trattenendo il respiro, mentre mi voltavo.

Sebastian stava in piedi, accanto alla finestra sigillata. Teneva le mani nelle tasche del giubbotto di pelle che indossava e il solito sorriso sarcastico gli marcava i tratti del viso.

«Vattene» sibilai, come se quel mio ordine potesse essere in qualche modo minaccioso. In realtà, non lo era per niente; ero già sul punto di esser assalito dal panico. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto uccidermi in mezzo secondo.

«Non è propriamente questo il modo di trattare gli ospiti» replicò, avanzando di un solo passo. Restai immobile, stringendo i pugni lungo i fianchi. «Sei tornato a casa, dunque» continuò «e immagino di sapere la ragione per cui lo hai fatto. Hai scoperto la verità, non è così?».

Il tono ironico che usò non mi lasciò indifferente, ma cercai di non avere reazioni eccessivamente spropositate. «Che cosa vuoi?» esclamai, ignorando di proposito la sua domanda. Sebastian allargò il sorriso. «Prendo la tua non-risposta come un sì».

«Che cosa vuoi?» ripetei, serrando la mascella.

«Voglio parlare».

«Da quando sei uno che preferisce le parole ai fatti?».

«Da sempre». Abbozzò una risata. «Rilassati, non cercherò di ucciderti questa volta».

Ovviamente, rimasi teso. Come era razionalmente possibile rilassarsi con un Divoratore di Anime nella stessa stanza? Uno come lui, poi.

Sospirai, cercando di non andare in iperventilazione, cosa che sarebbe accaduta comunque, di lì a poco. «Cosa intendi con verità?» chiesi, in un sussurro. Probabilmente, trarre informazioni da Sebastian non era una buona cosa: odiava Hazel, avrebbe detto qualsiasi cosa pur di farla odiare anche a me. Eppure, la stessa e solita razionale voce nella mia testa mi suggerì di ascoltarlo comunque. Ma forse era solo l'estrema confusione che viaggiava nella mia mente a guidarmi in un discorso privo di senso.

«Il fatto che ti stesse solo usando, ovviamente» rispose, cominciando a spostarsi distrattamente per la stanza, senza una traiettoria precisa. «Lo fa da secoli, o forse millenni, e tutti ci sono sempre cascati. Le basta fare qualche sguardo dolce, qualche sorriso, dire qualche parola carina e... Ecco fatto. E' facile,sai? Persino io potrei assumere l'aspetto di una piccola e adorabile bambina e farti credere chissà cosa. E' un nostro vantaggio. Non abbiamo emozioni, né sentimenti. Non sentiamo nulla e, quando non senti nulla, Simon, puoi essere tutto».

Percepii una lacrima rigarmi la guancia. Avevo ricominciato a piangere, senza rendermene conto.

Non c'è dolore peggiore di quello provocato dalla verità. Mai come allora ne fui convinto. Tutti i tasselli sembravano combaciare sempre più.

«Perché tu non ci hai mai provato? A trovare qualcuno, a compiere il sacrificio» mormorai.

«Perché a me non interessa». Le stesse parole di Hazel.

«Non vuoi riportare in vita il tuo Creatore?».

«Il nostro Creatore è uno stronzo e io non ho problemi ad ammetterlo. Preferisco andare avanti con il pensiero di lui divorato dalle fiamme dell'inferno, piuttosto che errante su questo pianeta».

«E perché Hazel vuole farlo?».

«Perché non glielo chiedi?».

Tacemmo entrambi, per qualche secondo. Incrociai i suoi occhi, che scintillarono di rosso.

«Hai ucciso tutti quelli a cui lei si è avvicinata per questo motivo? Per impedirle di fare il sacrificio?» domandai ancora.

«Mh, quasi. Generalmente, non mi faccio molte domande su chi uccido, ma potrebbe essere una ragione valida». Si fermò, dandomi le spalle, e osservò le pile di libri sistemati sulle due mensole di legno, su una delle pareti della camera. «In precedenza, non potevo uccidere lei» andò avanti «per cui... Si fa quel che si può».

«Questo è il tuo piano? Ucciderla?».

«Tentare di farla ragionare è ormai cosa poco utile». Si voltò, allora, squadrandomi con sguardo truce. «Credimi, sto facendo un favore alla mia e alla tua razza».

«Alla mia razza? Ero dell'idea che tu odiassi gli umani».

«Li odio. Odio un po' tutti, in realtà, nel caso non si fosse capito».

Abbozzai un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo. «E tu, invece» esclamò lui, avvicinandosi ulteriormente. «Oltre a me, odi anche lei, non è vero?».

Lo guardai, mordendomi piano il labbro inferiore.

Odio era una parola troppo grossa. Io non mi ritenevo in grado di provare qualcosa di simile, per nessuno. Per Hazel, poi... Era tutto eccessivamente complicato.

Restai in silenzio. Nessuna parola mi uscì di bocca e mi parve di sentire il mio cuore cessare di battere per un'istante.

«Lo prendo per un sì» disse, sorridendo. «Non sei di molte parole, mi devo arrangiare».

«Non ucciderla» biascicai, con sguardo perso nel vuoto, nonostante Sebastian mi stesse ancora fissando.

«Come?» domandò lui, retorico.

«Non ucciderla» ripetei. «Magari è... E' cambiata e... E non le interessa più del sacrificio».

Il Divoratore scoppiò a ridere e lo fece anche la mia coscienza. «E l'avresti cambiata tu? Per favore. Pensi davvero che l'amore possa cambiare la nostra natura?».

«Può farlo».

«Io non credo. Mettitelo in testa: Hazel ti ha usato e basta. Non ha mai provato nulla per te, ti avrebbe fatto fuori nel giro di poco, non farti troppe illusioni. Dovresti ritenerti fortunato per aver scoperto tutto in tempo».

Mi tornò in mente la leggenda trovata da Tamara. Forse Hazel ne era addirittura a conoscenza. Il punto era che, in quel momento, mi trovavo in bilico, su un filo sottile e presto sarei caduto, affondato in un baratro nero, che mi avrebbe portato solamente altro dolore, indipendentemente dalle parti.
C'erano troppe cose che combaciavano, troppe assurde coincidenze. Era tutto troppo.

Per di più, Sebastian aveva personificato la mia coscienza malefica, le aveva dato voce ed era qualcosa di estremamente distruttivo.

«Chi lo sa» continuò «potrebbe ucciderti comunque, presto o tardi».

Scossi appena la testa, sebbene non fossi in grado di parlare. Ero paralizzato, probabilmente dalla paura.

«Sono sicuro che lo farà. Fossi in te, cercherei di nascondermi al meglio». Sorrise, ironico e sarcastico, come faceva sempre.

Prima che potessi ribattere – anche se non lo avrei fatto – scomparve nel nulla, così come era apparso.

  
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