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Autore: LilithJow    28/04/2013    5 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 20
"Hallucination"


Isolamento: quella capacità umana – e non – di tagliare ogni genere di rapporto con il mondo circostante e rinchiudersi sotto una propria campana di vetro, quasi in un universo parallelo, e lì vivere, in una calma apparente, utile solo a preannunciare una tragica fine.


Com'era possibile che fossi circondato da persone, che correvano da ogni parte nel cortile dell'Istituto, sotto il tiepido sole di Maggio, ma avevo l'impressione di trovarmi nel vuoto, senza nemmeno più la forza di gravità?
Era come se la vita di tutti i giorni mi stesse passando davanti agli occhi, in una serie di immagini sbiadite e confuse, e io fossi bloccato nel mio universo cadente e a pezzi, a combattere una battaglia dalla quale, molto probabilmente, sarei uscito sconfitto.
La parte peggiore era che non potevo fare molto per impedire che fosse così.

Sebbene fossi deciso io a cambiare, la mia vita – o almeno una parte – sarebbe sempre rimasta contaminata dal sovrannaturale, che io volessi o meno.
Non riuscivo nemmeno più a distrarmi con lo studio, la lettura o la scrittura. Andavo a scuola per inerzia e per dovere; i miei voti ne risentirono, ma non mi preoccupò molto. Passò tutto in secondo piano: la gente, mia madre, io... Io che ero del tutto concentrato nella ricerca del pugnale, insieme a Tamara, che intanto mi aveva donato un amuleto sigillato con un incantesimo molto più potente di quello che era presente sulla casa di Martha.
Mi aveva detto che era speciale, che era la prima volta che lo provava. Tuttavia, con mia assoluta non-sorpresa, riuscì nell'intento di calare su di me una sorta di barriera che mi avrebbe reso pressoché invisibile sia ad Hazel che a Sebastian; non avevo capito bene tutte le altre clausole, ma era certo che nessuno dei due avrebbe potuto toccarmi.
Era un ciondolo di pietra verde. Senza volerlo, mi ero ritrovato ad odiare quel colore: mi ricordava troppo i suoi occhi. Mio malgrado, però, non si poteva cambiare e mi arrangiai, nascondendolo sotto la maglietta.
Un incantesimo simile fu piazzato anche su casa mia e nascosi una pietra sigillata allo stesso modo nella borsa di mia madre, giusto per precauzione.
Purtroppo, a parte quelle protezioni, non facemmo altri passi avanti. Il pugnale sembrava essere più che raro e le possibilità di trovarlo si abbassarono ad un livello rasente lo zero. Senza quell'oggetto, non potevamo fare molto. Tuttavia, non avevo intenzione di arrendermi, non dopo essermi spinto fin troppo avanti, oltre il confine, oltre il limite.
 

***


Era l'ora di pranzo. Come sempre, preferii evitare la mensa: ci sarebbe stata troppa confusione che mi avrebbe solamente scombussolato.

Sedetti sulla solita panchina nel cortile dell'Istituto, rigirando tra le mani il panino al burro d'arachide che mi ero preparato frettolosamente quella mattina. Il mio sguardo era perso nel vuoto, a osservare tutto e niente. Aspettavo solo una chiamata o un messaggio da parte di Tamara, che mi dicesse di aver fatto qualche passo avanti: anche solo un piccolo cenno mi sarebbe bastato.

Invece no, non arrivò nulla, così come accadeva da una settimana.

«E' proprio bello qui».

Il suono di una voce estremamente familiare echeggiò nell'aria. Mi bastò girare appena il capo per intravedere i capelli biondi di Martha, seduta al mio fianco, con lo sguardo rivolto al prato verde davanti a noi.
Mi ero scordato di inserire anche lei nella lista delle persone da tenere lontano, ma forse, inconsciamente, mi ero convinto del fatto che fosse l'unica innocente in tutta quella storia.

«Non sembra essere una scuola. Sembra tipo una pensione a cinque stelle, sempre che esistano pensioni a cinque stelle» continuò.

Abbozzai un sorriso, tirato. «Perché sei qui, Martha?» sussurrai, puntando anche io gli occhi all'orizzonte.

«Me lo chiedi pure? Dovresti saperlo».

«Evidentemente no, dato che te lo sto domandando».

Sbuffò. «Cosa hai fatto ad Hazel? E' distrutta».

«Beh, non è l'unica».

«Dico sul serio. Se continua così, non succederà nulla di buono».

«Non sta già succedendo nulla di buono e, da come parli, immagino tu non sappia nulla di ciò che è accaduto».

«Oh, io so molte cose, Simon. So del diario, l'ho letto e sono assolutamente certa che lei non avrebbe nemmeno mai pensato a qualcosa del genere».

«Forse non la conosci così bene, dopo tutto».

«Forse sei tu quello che non la conosce affatto, perché non si è nemmeno sforzato di farlo».

Scossi appena la testa e mi voltai nuovamente nella sua direzione. Lei fece lo stesso e i nostri sguardi si incontrarono. «Mi sono sforzato» quasi urlai «l'ho fatto per davvero. Sono stato giorni a torturarmi, a pregare che niente fosse vero, ma non è così. Hazel mi ha attaccato, ha cercato di strangolarmi. Questo va oltre delle parole veritiere o meno».

«So anche dell'attacco. Me ne ha parlato, mi ha raccontato tutto. Nemmeno se ne è resa conto».

«E tu le hai creduto?».

«Ovvio che le ho creduto. E' stata mia compagna in questo mondo per millenni, sarebbe da pazzi se non le credessi».

«Mi dispiace distruggere l'immagine immacolata che hai di lei, ma forse è cambiata e non...».

«Dannazione, Simon, Hazel ti ama! Hai idea di quanto grande sia questa cosa per un essere che è programmato a non sentire assolutamente niente?».

«Questo è il punto. Se non senti niente, puoi essere tutto. Puoi fingere tutto, anche amare». Citai consapevolmente Sebastian e mi odiai per tale motivo. Non sopportavo essere così freddo e distante, ma lo risultavo irrimediabilmente.
Martha mi fissò, con un'espressione del tutto indecifrabile sul viso. Avrei detto fosse dispiaciuta o forse delusa. «Che ti è successo?» domandò, in tono retorico. «Qualcosa mi dice che quello cambiato sei tu».

«Lo sono, Martha, e ho dovuto farlo. Sono dovuto diventare qualcosa che detesto, ma è quello che succede quando si viene feriti».

«Perché non combatti?».

«Lo sto facendo».

«Vuoi combattere Hazel?».

Non risposi. Voleva davvero costringermi a dirlo a voce alta? Le parole mi uscivano di bocca a stento, guidate da chissà cosa.

«Non ti importa più, Simon?» sussurrò la bionda, incatenando i suoi occhi azzurri ai miei. Vidi, per la prima volta, le ombre rosse farsi strada anche nei suoi iridi. «Se lei morisse» continuò «non ti sentiresti morire anche tu?».

Fino a qualche giorno prima, la risposta sarebbe stata immediata, scontata e ovvia: sarei morto anche io se Hazel lo avesse fatto. Allora, invece, non seppi cosa dire. Non c'erano alternative opposte, positive e negative; ero in bilico, nonostante mi sforzassi di prendere posizione. Già, io che stavo assiduamente cercando un pugnale creato per distruggerla, non sapevo ammettere a gran voce cosa effettivamente volessi.

Rimasi in silenzio, allora, serrando le labbra, e quasi smettendo di respirare.

«Proverò il contrario delle tue convinzioni» mormorò Martha, poco dopo.

«Come?» domandai, retorico, e quasi mi venne da ridere. Cos'era tutta quell'ostinazione per provare una falsa innocenza di Hazel? A lei nemmeno avrebbe dovuto importare, del resto.

«Non preoccuparti di questo» aggiunse. «C'è qualcosa sotto e se tu non sei abbastanza forte per scoprirlo, lo farò io per te».

«Martha, sul serio, non... Non credo che niente aggiusterebbe le cose».

«Sta a guardare, allora». Si congedò con quelle parole, sparendo in un battito di ciglia. Rimasi a fissare il vuoto per qualche secondo, imbambolato e appena tremante.

Fu solo lo squillo acuto del mio cellulare a riportarmi drasticamente alla realtà. Sobbalzai, prendendo il telefono dalla tasca. Era Tamara: strano che non usasse i messaggi, come al solito.

«Pronto?» risposi.

«Ho una bellissima notizia!».

«Hai trovato il pugnale?».

«No, quella sarebbe una notizia super-splendida. Questa è solo bella».

«Oh, beh... Di che si tratta?».

«E' un po' difficile da spiegare al telefono, per cui, ti ho chiamato per chiederti di venire a casa mia, dopo scuola. E' molto più pratico fartela vedere e provare».

«Non è una domanda, vero?».

«Assolutamente no. Ti aspetto». Riattaccò, senza darmi la possibilità di replicare, il che, da una parte, era un bene.

Il resto della giornata, quelle tre ore che rimanevano, passò abbastanza velocemente, a lezione di storia, con il signor Genevieve. Era uno dei pochi corsi che frequentavo con Hazel – Johanna; il suo banco era vuoto, da giorni, ormai, e lo sarebbe rimasto per parecchio. Ogni tanto mi capitò di perdermi nel fissarlo, come se lei avesse potuto apparire da un momento all'altro. Delle volte, mi pareva di vederla per davvero, guardarmi e sorridere, come era solita fare quando ci trovavamo nella stessa stanza, ma non potevamo parlare. La parte peggiore era che non sapevo se desiderassi vederla comparire all'improvviso per davvero oppure stessi semplicemente controllando che restasse lontana.
La risposta avrebbe dovuto essere scontata, ma, ovviamente, la battaglia tra me e il mio inconscio sarebbe durata in eterno, senza darmi tregua, con visioni e allucinazioni, indipendentemente dalle mie effettive decisioni e scelte.
 

***


Avevo imparato a memoria la strada per raggiungere l'appartamento di Tamara. Era nell'esatta metà tra casa mia e l'Istituto. Ci arrivai a piedi, snobbando sia l'autobus sia il passaggio che Tom ancora mi offriva, con quell'auto d'ultra lusso. Avevo cominciato a non sentirla mia, non più. Camminai con il cappuccio della felpa in testa, indumento che stonava incredibilmente con la divisa scolastica, e le cuffie dell'Ipod nelle orecchie.
In quell'ultimo periodo, la musica era l'unica cosa che riuscisse a tranquillizzarmi, almeno un po'.

Con le mani in tasca, varcai la soglia del grande portone rosso e salii – rigorosamente a piedi – fino al quinto piano. Proseguii fino alla porta, con l'intento di bussare, ma un biglietto giallo – un post-it – attaccato su di essa, mi fermò prima.

Vieni in soffitta. Ti aspetto lì”.

Feci una smorfia: che diavolo ci faceva in soffitta e perché voleva che ci andassi?

Dovetti salire altri tre piani, più una scala di legno trasandata per giungere a quel luogo che, a mio parere, era tetro e angosciante. Ad ogni mio passo, sentivo scricchiolii da ogni parte, che mi portavano a guardarmi attorno di continuo.

«Ce l'hai fatta, finalmente!». La voce squillante di Tamara mi fece sobbalzare e me la ritrovai davanti, non appena riuscii ad entrare nella vecchia soffitta di quell'antico palazzo. Rischiai seriamente di avere un infarto per quella sua apparizione improvvisa, specialmente perché avvenuta in un luogo del genere.

«Accidenti!» esclamai, socchiudendo gli occhi e cercando di far tornare il mio respiro regolare. «Perché diavolo siamo qui?!».

«Oh, ti sei spaventato?» mi chiese, ignorando la mia domanda.

«Certo che mi sono spaventato!».

Accennò una risata. «Avresti dovuto dire no, così da essere più credibile nella parte dell'eroe».

Roteai gli occhi: io l'eroe? Stavo per ridere anche io. Scossi appena la testa e decisi di cambiare argomento, o meglio, tornare al punto di partenza. «Seriamente, che ci facciamo qui?» domandai un'altra volta.

«Deviare il discorso: ottima tecnica, signor Clarke!» esclamò Tamara, indietreggiando di pochi passi. La vidi poi voltarsi e correre dall'altra parte della grossa soffitta. Io rimasi immobile.

«Ho pensato che prima di trovare il pugnale, ne passerà di tempo, il che è un bene per te» continuò, fermandosi davanti alla parete di legno di quel luogo, sulla quale c'erano disegnati strani simboli con gesso bianco. Ovviamente, non seppi identificarne nemmeno uno.

«Un'arma è utile solo se si sa come usarla e per usare un'arma, bisogna allenarsi».

«Vuoi che mi alleni?».

«Quella è l'idea».

Aggrottai le sopracciglia. Non avevo messo in conto un allenamento per prepararmi ad una ipotetica battaglia e, probabilmente, avrei dovuto, considerando la mia goffaggine e tutto il resto. Tamara pensava sempre a tutto; non mi spiegavo mai come facesse, anche se la soffitta abbandonata del suo palazzo non aveva l'aspetto ideale per un luogo di training.

«E con chi dovrei combattere?» chiesi, dunque. «Con te?».

La ragazza dai capelli rossi si girò, con un largo sorriso sulle labbra. Poggiò le mani sui fianchi e inclinò leggermente il capo di lato. «No» disse. «Con loro».

«Loro chi?».

Non ottenni una risposta. Non a parole, perlomeno.

Da quegli strani simboli calcati sul legno si sprigionò una luce bianca, prima tenue, poi più forte, tale da costringermi a strizzare e chiudere gli occhi per qualche secondo. Quando sollevai le palpebre e fui in grado di vedere limpidamente di nuovo, due nuove figure stavano in piedi davanti a me, accanto a Tamara. Sembravano persone concrete, un ragazzo e una ragazza dai capelli scuri e gli occhi rossi, come i Divoratori. Avevano lineamenti simili e per nulla rassicuranti.

«Chi... Cosa... Insomma» balbettai.

«Non preoccuparti, sono finti» spiegò lei. «Sono dei... Manichini, solo che sanno combattere come un vero Divoratore e possono fare davvero male, se si impegnano».

«Questo dovrebbe rassicurarmi?».

«Mhm, no, ma i veri Divoratori sono mille volte peggio, per cui tu n...».

La fulminai con lo sguardo. «Okay, la smetto» concluse.

Già, Tamara pensava davvero a tutto e, forse, quella volta aveva addirittura pensato troppo. Io non avevo nessuna base di combattimenti, allenamenti e categorie affini. Ero pressapoco sicuro che sarei finito in ospedale con un paio di ossa rotte, se solo quei due “manichini” avessero messo in atto le loro abilità.

«Vuoi provarli?» domandò lei, poco dopo.

«Ora?».

«Sì, ora».

«Mi spezzerebbero in due, Tamara».

«No, sono stati creati per impedire che tu venga spezzato in due. E sul serio».

Corrucciai le labbra, in un'espressione di dissenso o, più che altro, in una che spinse lei a ridere. Avanzò nella mia direzione, finché non mi raggiunse. Si fermò davanti a me e mise le mani sulle mie spalle. «Avanti, Simon» esclamò. «Sono sicura che puoi farcela».

Sospirai.

Non era vero o forse era troppo per crederci. Socchiusi gli occhi per un attimo e, di nuovo, per l'ennesima volta, come l'ennesima ferita letale, vidi lei; dietro Tamara, mi fissava, con le braccia lungo i fianchi e l'espressione delusa stampata sul viso. Sembrava che quel riflesso mi stesse pregando di fermarmi, di seguire la via di Martha, di credere a quelle sue nuove parole, di cambiare rotta.

«Tutto bene?».

Probabilmente, dal momento che accadeva quasi sempre, mi ero incantato, perdendo per un attimo il senso della realtà. Scossi il capo, tornando a guardare il volto di Tamara e l'allucinazione scomparve.
Anche i ripensamenti e i rimorsi mi avrebbero sempre accompagnato, senza che io volessi. Dovevo farci i conti, ma non lasciarmi influenzare da essi. Se avessi permesso ad una sola esitazione di bloccarmi, sarei finito col prendere ulteriori decisioni sbagliate e non me lo potevo permettere.

Simon il debole era morto, dopo tutto. Dovevo solamente accettarlo.

«Tutto okay» dissi, più che altro per convincere me stesso. «Testiamo i manichini».

  
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