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Autore: Kwaku Ananse    30/04/2013    0 recensioni
Questo era il potere che più amava, quello che lo rendeva Kwaku Ananse, il Ragno, dio, signore, protettore di tutte le storie: gli bastava sfiorare un oggetto per poter vedere con i suoi stessi occhi e assistere ai fatti cui era stato testimone e di cui serbava la memoria.
Questa storia, in particolare, parlava di buie profondità sotto il velo dell'acqua, di un canto e di struggente, disperato desiderio. Il racconto lo avvolse completamente e non c'era più Ananse, o la perla o la stanza, né Londra o qualsiasi altra cosa. Il racconto era ora realtà come per un uomo addormentato è reale il sogno e la realtà un vago ricordo, ma delle due sarebbe stato difficile dire quale fosse più vera, se la realtà sognata o la lontana immagine di una sera di nebbia e pioggia in una vecchia libreria.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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La tela del Ragno:

 

Kwaku Ananse, il Ragno, sospirò soddisfatto, mentre i residui della visione svanivano dietro ai suoi occhi, restituendolo al caldo salotto nel retro della sua libreria.

All'esterno, il freddo dell'inverno regnava sovrano e una pioggia gelida e persistente si frapponeva a coprire il mondo di una coltre liquida, che rendeva le forme strane ed erronee a vedersi, infide, inoltre riusciva a superare anche l'imbottitura più pesante riducendo in breve tempo qualsiasi sventurato passante ad un involucro zuppo. Non che lui dovesse preoccuparsi di quello. La porta d'ingresso del negozio era ben chiusa, così come le finestre, nulla e nessuno sarebbe venuto a disturbarlo quella sera.

Dopo averle dedicato un ultimo, lungo, sguardo, posò delicatamente la perla nera, che fino a quel momento aveva stretto in pugno, sul ripiano da cui poco prima l'aveva presa. Non potè fare a meno di notare come la sua superficie liscia e lucente, priva del benché minimo difetto contrastasse con la pelle raggrinzita delle sue mani, percorse da fitti reticoli di rughe, macchiate e scosse da un delicato tremore. Non aveva bisogno di specchiarsi per sapere che il resto del corpo rispecchiava il medesimo stato di decadimento. Non che gli importasse, l'aspetto non è che una buccia sottile che nasconde un'essenza più profonda e in lui non era affatto diverso.

Quanti, vedendo solo un esile vecchietto, avevano provato ad approfittarsene, se ne erano sempre amaramente pentiti.

Con uno sbuffo seccato, si lasciò alle spalle quei pensieri e simili per andare ad analizzare un altro dei più recenti acquisti della sua collezione: un frammento lacero di stoffa, che doveva essere stato bianco, prima che il tempo la ricoprisse di grigio e sporcizia.

Kwaku Ananse, il Ragno, lo sollevò dal basso comodino su cui era riposto, e stringendolo forte tra le mani avvizzite ne ispirò l'odore vecchio e polveroso, che irritava il naso, mentre la mente già si perdeva lontano, a inseguire il racconto che già si dipanava oltre i suoi occhi.

 

Pensieri anonimi:

 

In un tempo assai antico, in una terra che non è più su nessuna carta geografica, e ormai esiste solo nei libri di storia, un vecchio, da molti ritenuto saggio e degno di venerazione, si era andato a stabilire in un'alta valle solitaria, riparata da una corona di montagne, e in quel luogo di pace e meditazione, aveva deciso di fondare una scuola, un ostello per menti desiderose di imparare i meccanismi che governano il mondo e l'animo umano.

Per quanto fosse ormai anziano e curvo per gli anni, non era stato sempre così, e, finchè le gambe gli avevano dato la forza necessaria, aveva viaggiato in lungo e in largo, visitando località e incrociando popoli di cui un uomo comune non poteva sospettare nemmeno l'esistenza, discorrendo con mistici e santoni di ogni sorta così come con matrone con bimbi stretti al grembiule, sempre con la stessa disinvoltura.

Aveva riempito di queste esperienze il suo corpo come un grosso contenitore e ora lo donava a quanti volessero ascoltarlo.

Tutto questo, accompagnato da immagini mobili e sfumate come il pensiero, da suoni sconnessi e vaghi, parole itineranti, isolate, immortalate, era impresso sul lacero pezzo di stoffa, che altro non era se non un misero resto della veste dell'uomo, questo conteneva, e poco altro se si eccentuava pochi momenti in cui la visione e il caos delle parole si aprivano come un sipario in scene chiare e reali, ed ecco tornavano alla luce la scuola e il maestro, i discorsi e i discepoli. Ma nessun nome eccheggiava tra le trame del tessuto, nulla che potesse dare un'identità a quella mente profonda e buona. La storia, passando, lo aveva ignorato e della sua esistenza si era perso ogni ricordo.

 

"Era ormai il tramonto, e il vecchio maestro intratteneva gli allievi in un'ultima lezione, mentre dietro di lui il sole scendeva oltre il loro eremo montano.

Come di tanto in tanto capitava, quel giorno, all'alba, uno dei suoi membri se n'era andato, per riprendere la vita nel mondo vorticante, accompagnato dal pianto e dagli abbracci di coloro che fino a quel momento erano stati i suoi compagni e le sue compagne, non fu perciò a caso che l'uomo, guardando coloro che erano rimasti uno per uno negli occhi ancora rossi di pianto, pronunciò gravemente queste parole:

«Pochi ormai si fermano a riflettere sulle lacrime, e sul potere immenso che esse hanno su di noi, ma molti, ancora, lo percepiscono nel disagio di fronte ad un uomo affranto e piangente, o nel sentimento di pietà che ci pervade vedendo una donna scossa dai singhiozzi, e chi può dire di no ad un bambino che piange inconsolabile? Intanto bisogna dire che esistono due tipi di lacrime: quelle buone, e quelle malvagie. Queste ultime sono portate da un lutto, da una disgrazia drammatica, bruciano nel cuore, dove nascono, e mentre scorrono a fiumi sul volto. Queste lacrime ci spossano e solo dopo che le si è versate fino all'ultima ci si sente finalmente liberati, per quanto stanchi. Tutt'altra cosa sono le lacrime che provengono da una gioia improvvisa, o da una tenerezza, un gesto che non ti saresti aspettato di trovare. Queste sono le lacrime più rare, le più preziose e potenti. Conservate con cura questo frutto puro dell'animo, perché una sola goccia può bastare a salvare un mondo»"

 

"«Dunque tu mi chiedi cosa sia il perdono, non è così?» domandò, un giorno, il saggio, ad un ricco straniero che era venuto fin lì da lontano per consultarlo, e continuò dicendo «Ebbene, il perdono è un'arte rara, grande nella sua umiltà e difficile da praticare, pochi uomini possono dire di aver sinceramente perdonato. È assurdo, mi dici? Io dico proprio di no. I più sono convinti che perdonare consista semplicemente nel dimenticare un torto subito, e agire come se questo non sia mai accaduto. In realtà il perdono è qualcosa di un po' diverso: perdonare non vuol dire dimenticare un torto subito, perdonare vuol dire prendere atto di quel torto e accettarlo. Perdonare una persona vuol dire prendere atto dei suoi torti e delle sue mancanze e tuttavia continuare a volerle bene e non lasciare che l'ombra del rancore offuschi ogni bel sentimento»"

 

"Un giorno, uno dei discepoli si presentò di fronte al maestro con un grosso sacco sulle spalle e un bastone di legno chiaro tra le mani «Maestro, sono venuto a salutarla, mi metto in viaggio» disse, il vecchio rimase un istante in silenzio, prima di rispondere:

«Un viaggio presuppone un punto di partenza ed una destinazione, perciò ti chiedo: dove sei diretto?» Fu la volta del giovane, a questo punto, di tacere e riflettere sulle parole da dire:

«In questo luogo ho imparato molto e bene. Da voi, ho appreso la sapienza dei dotti e quella che viene dalla riflessione su noi stessi e sul mondo che ci circonda, dai miei compagni ho imparato cos'è l'affetto che lega un amico ad un altro e a riconoscere i mille fili che ciascuno di noi intesse attorno all'anima attraverso i rapporti con le altre persone. Una sola cosa non ho appreso, che so di non poter trovare qui: l'amore. L'ho cercato a lungo in questa scuola, invano, tanto da dubitare della sua esistenza, per cui ora voglio partire andare nel mondo e vedere se posso trovarlo là» così disse il discepolo, e il maestro a sua volta:

«Se questo è il tuo desiderio, vai, io non ti tratterrò» a quelle parole, l'altro si aprì in un sorriso «Grazie, venerabile. Se la mia ricerca avrà buon esito, tornerò a riferirle che l'amore, dunque, esiste» E chinatosi a terra, in un ultimo, deferente, saluto, se ne andò.

Un mese passò, poi un anno, poi cinque.

Quando dieci anni furono passati, gli allievi si raccolsero attorno al maestro e il più coraggioso di loro disse:«Venerabile, abbiamo atteso a lungo il ritorno del nostro compagno, e non è mai tornato, dunque non ha trovato l'amore? Esso, allora, è solo un'invenzione dei poeti?»

«Sciocchi» rispose il sapiente sorridendo «Proprio perché l'ha trovato, il vostro compagno non è più tornato» ma nessuno dei discepoli comprese le sue parole.

Dopo un poco, dal silenzio, un altro chiese: «E voi, maestro? Voi avete trovato l'amore?» A quella domanda, però, egli non rispose e, in silenzio, si ritirò nelle sue stanze".

 

"A un uomo che gli chiedeva di indicargli la via della felicità, non essendo in grado di conoscerla da sé, una volta, disse : «Vieni con me e seguimi». Lo portò, allora, in un porcile e per tutto il giorno e il giorno seguente badarono ai maiali, muovendosi tra loro nel fango, dopodiché lo condusse in alto, in una valle incavata tra le montagne, dov'era una grande vena di salgemma e lì gli disse: «Estrai il sale dalla roccia, e quando ne avrai accumulato molto, portalo al villaggio più vicino. Io starò con te e ti sosterrò se ne avrai bisogno».

Passò un giorno, poi due. Al terzo giorno l'uomo, sfinito, esclamò: «Maestro ma perché mi fate fare tutto questo? Io non sono affatto più felice, solo più stanco».

Il vecchio sorrise, ma la sua voce era seria quando rispose: «Perdonami per ciò che ho fatto, ti ho ingannato. Ma non eri, forse, tu a dire di non conoscere la felicità? Ti sei ingannato da solo prima che io ingannassi te. Non cercare negli altri la soluzione ai tuoi problemi, poiché solo tu possiedi le chiavi di te stesso. Non ho altro da dirti».

 

"Trovandosi, un giorno, costretto ad un lungo viaggio, ben lontano dalla sua scuola, nel mezzo di un'improvvisa tempesta di neve, il maestro trovò fortuito rifugio in un piccolo santuario sulla via, un solido edificio di pietra e mattoni. Entrato all'interno, per scaldare le membra quasi congelate dalla tormenta, prelevò dal suo piedistallo, dopo averla ripulita dalle ragnatele e dalla polvere, una grossa statua di legno, raffigurante un venerabile Santo, la fece a pezzi e, preso dallo stesso altare un po' di olio e una candela, la bruciò, per ricavarne un falò accanto a cui riscaldarsi.

Allarmato dall'odore del fumo, ben presto entrò, trafelato, il guardiano del santuario, un vecchio sacerdote calvo:

«Cosa fai, empio scellerato!» iniziò a urlare, appena notato l'accaduto «Hai bruciato il venerabile Santo!» il maestro non si scompose, ma, preso il suo bastone da pellegrino, iniziò a rimestare tra le braci, fissando attentamente tra esse

«Che stai facendo?»

«Cerco le ossa del venerabile Santo, non le vedo».

Il custode rispose con voce imperiosa e sprezzante: «Hai forse perso il senno, vecchio? Lo sanno anche i bambini che il Santo non è più di questo mondo, ma splende, più fulgida tra le stelle, nei cieli infiniti»

«Davvero? Allora prendi un altro di questi pezzi di legno, ho ancora freddo»"

 

"«Ehi, fermati! Aspetta a partire, ho un'ultima lezione per te. Brami l'immortalità, vedo attraverso i tuoi occhi il fuoco che ti brucia dentro spingendoti ad andare sempre più in alto. Vuoi sentire il tuo nome rieccheggiare attraverso il fiume della Storia di bocca in bocca per secoli, millenni. L'Eternità. Ma ti svelo un segreto: ti stai ingannando, il Tempo stesso ti inganna mostrandoti un' allettante illusione. Non mi credi. Comprensibile, non puoi capire, non ancora. Ma lascia per un attimo la tua mente correre in avanti, al futuro, guarda le tue gesta, le tue azioni, la tua fama assurgere alta sul trono del mondo, guarda la morte chiudere il ciclo della tua vita, ma non del tuo nome, che continua, invece, a vivere nei cuori e nella voce degli uomini. Ma solo un nome, capisci? Un simulacro, una marionetta, mentre il tuo corpo svanisce sempre più lontano nella memoria, sbiadito fantasma, ecco il tuo nome diventa una bandiera, un vessillo sgargiante. Potenti e umili, predicatori e guerrieri, filosofi e folli, profeti ed eretici ti prenderanno a esempio, ma quello non sarai tu, bensì loro, con una maschera raffigurante il tuo pallido sembiante. Che Eternità è, dunque, questa? Un'eternità di menzogne. Ma non disperarti, non ho finito: l'immortalità non è una menzogna. Esiste, infatti, ma nascosta in un luogo in cui non l'avresti cercata. L'immortalità sta nell'esempio, nell'impronta di te che puoi lasciare negli altri. Non dominare, ma guida, istriusci, ascolta e apprendi tu stesso. Il tuo nome potrà un giorno essere dimenticato, ma sopravviverà il tuo pensiero, le tue parole, in coloro che le hanno udite, ed essi le trasmetteranno ad altri, e anche questi ultimi, a loro volta, le diffonderanno, e così in eterno, fino a cambiare il mondo. Questa è la vera Immortalità, quella che davvero vale la pena perseguire. E adesso vai, figliolo, e sii saggio»"

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Grazie tutti coloro che hanno letto questa storia fino in fondo!!!

Spero vi sia almeno un po' piaciuta :) specie dopo il lunghissimo racconto precedente XD
Vorrei mantenere una cadenza regolare delle uscite ogni due settimane, ma scrivendo questi racconti un po' a sentimento non posso promettere nulla...

Consigli e pareri sono sempre bene accetti :)

R. 

  
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