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Autore: Aine Walsh    14/05/2013    1 recensioni
[Benjamin Whishaw]
Ci sono così tanti volti là, visi di tutti i tipi, eppure manca proprio quello che cerco. Non so che pensare e ho la mente completamente imbiancata. Perché illudersi ancora? È evidente che non verrà, chiaro come il sole.
Vuole sbarazzarsi di me? Bene, perché non dirmelo?! Mi sarei fatto volentieri da parte senza pensarci un attimo di più, evitando tutta questa farsa e, soprattutto…
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2 – Young folks
 
And we don't care about the young folks, 
talkin' bout the young style 
And we don't care about the old folks, 
talkin' 'bout the old style too 
And we don't care about our own folks, 
talkin' 'bout our own stuff 
All we care about is talking, 
talking only me and you
 
Siamo in una grande stanza affollatissima da tutte le parti, ma non so esattamente chi sia con me. So di non essere sola, ma non riesco a vedere alcun volto familiare tra tutta questa confusione. C’è solo una grande calca che mi spinge in avanti, attraverso una camera verdognola che sembra non finire mai. Mi lascio spingere senza opporre resistenza, mentre osservo alle pareti laterali delle cornici appese e vuote che lasciano intravedere un’orrenda carta da parati. Mi chiedo che razza di posto sia questo. Qualcuno mi afferra per il braccio e mi trascina via dalla lunga fila di gente: è mia mamma. Ma non dovrebbe essere a casa sua, in Italia? Che ci fa qui, non mi aveva detto che sarebbe venuta. Tutta serie di domande prende corpo nella mia testa, ma le parole mi muoiono soffocate in gola e non faccio altro che sforzarmi di produrre qualche suono. Mamma è strana, se ne sta zitta e non mi guarda: mi chiedo se ce l’abbia con me. Mi domando anche perché stia indossando il vestito azzurrino che le avevo regalato una volta, quando avevo quindici o sedici anni, e non capisco il motivo per cui tenga quell’orrendo velo di merletto davanti al viso. Improvvisamente so dove mi trovo, sono al matrimonio della figlia della signora Millian, Grace. Mia madre è scomparsa ed io mi rendo conto solo adesso di trovarmi nell’Abbazia di Westminster, addobbata come se si trattasse del matrimonio di William e Kate. Avanzo in silenzio per vedere meglio la sposa e quando arrivo all’altare mi accorgo che lei non c’è e che l’unico ad essere presente è lo sposo, il quale si gira, mi sorride e…
Nicole Kidman e Robbie Williams? Perché stanno cantando, non ho mica inserito la sveglia. Mi rigiro nel letto e assesto un colpo al cellulare, che continua a suonare inarrestabile. Solo in un secondo momento realizzo che non si tratta della sveglia ma della suoneria e allora sgrano gli occhi e rispondo senza perdere un istante di più.
«Pronto?».
«Ce ne hai messo di tempo, stavo per riattaccare». Scott Fitzwilliam, il mio datore di lavoro, si lamenta con la sua solita voce stridula dall’altra parte del telefono.
«Hai ragione, scusa. Stavo dormendo».
«Alle dieci e mezza?».
Scott è un brav’uomo e questo suo tono di voce unito al fatto che stia chiamando proprio la sottoscritta mi allarma. «C’è qualche legge che lo vieta? Ieri sera ho…».
«Ho bisogno di te in ufficio. Adesso».
«Oggi? Ma è il mio giorno libero!» protesto debolmente.
«Ora, sbrigati» e riattacca.
Ho la sensazione che la giornata non sia iniziata nel migliore dei modi e che qualcosa di brutto sia in procinto di accadere. Ma forse sono troppo apocalittica; magari il mio capo vuole comunicarmi che ha deciso di sua spontanea volontà di darmi un aumento. Mmm. Proprio il mio giorno libero? Non avrebbe potuto aspettare fino a lunedì?
Mi lascio ricadere pesantemente sul letto, stanca prima ancora di cominciare. Il mio sguardo vaga dal soffitto, alla finestra con le tapparelle semi abbassate e si posa infine sulla scrivania piena di scartoffie e cianfrusaglie. Com’era quella frase? Fenomenali poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale, sì. Non che io abbia fenomenali poteri cosmici, certo, però credo che il sottoscala in cui viveva Harry Potter fosse sicuramente più comodo della camera che ho preso in affitto. Ancora una volta, penso che dovrei sloggiare da qui, anche se non so ancora con quali soldi e dove dovrei andare.
La suoneria riparte.
«Fitz?».
Un attimo di silenzio. «No, Ben. Aspettavi una chiamata?».
Mi tiro su a sedere e poggio i piedi per terra. «Pensavo fossi il mio capo. Mi ha telefonato qualche minuto fa dicendo di volermi vedere in ufficio. Nel mio giorno libero».
«Ahia».
«Secondo te devo avere paura?».
«Non voglio scoraggiarti, ma… hai combinato qualche marachella di recente?».
Inizio a tirare fuori qualcosa dall’armadio. «No, niente di niente. A meno che… – un nome rischiara a giorno la mia mente e mi fa restare con la gruccia sospesa a mezz’aria – gli Hobbs, cazzo!».
«Trovato il danno. È qualcosa di grave?».
«Spero di no, ma temo di sì».
Lo sento sospirare all’altro capo del telefono.
«Sai che ti ho sognato? – cambio discorso – No, non pensare male».
«Non lo stavo facendo».
«Certo, come no».
«Fammi ricredere».
Subito. «Ti stavi sposando. Con la figlia della signora Millian, anche se ancora non era arrivata».
«Che razza di sogno…?».
«Non lo so, non hanno mai molto senso».
«Almeno è carina?».
«Direi nella norma. Bianco o nero?».
«Rosso, metti qualcosa di rosso».
Resto in silenzio, scrutando il mio guardaroba. «Mi fa strano» dico infine.
«Cosa?».
«Parlare di nuovo al cellulare con te».
Ridacchia. «Allora penso che adesso la situazione ti sembrerà più strana, visto che sto per chiederti di pranzare insieme».
Perché sento calore alle guance? Perché batto il piede per terra come faccio quando sono nervosa?
«Ci sei ancora?».
Scuoto la testa, come se potesse vedermi. «Sì sì, stavo solo pensando».
«A cosa indossare?» scherza.
«No, al fatto che potrei essere la persona più depressa del mondo una volta uscita dall’ufficio».
Me lo immagino mentre fa spallucce. «Correrò il rischio. A cosa servono gli amici, se no?».
«A ricordarti quanto sei stato idiota con due clienti molto importanti?».
«Se te lo meriti, perché no? Fammi uno squillo quando finisci, ti vengo a prendere lì dove ti trovi».
«Troppo gentile».
«Ci vediamo dopo, Blackie» sghignazza chiudendo la chiamata.
Stronzo. Sa che odio a morte quel soprannome.
 
* * *
 
Scendo dal bus e mi preparo a percorrere a piedi i pochi metri che mi separano dall’ufficio. Il sole appare e scompare da dietro le nuvole e l’aria gelida mi fa infilare le mani in tasca chiedendomi quando la primavera abbia intenzione di arrivare. Anche se “primavera” non è esattamente una di quelle parole che è possibile abbinare a Londra. No, decisamente no. Qui mesi come Marzo e Aprile non esistono proprio e Maggio si fa sentire a malapena. Mal che vada, emigro a sud: magari lì la vita e le condizioni climatiche sono davvero migliori.
Sono così presa da tutta un turbinio di pensieri di poca importanza che attraverso la strada senza nemmeno guardare prima a destra e sinistra, rischiando quasi di essere messa sotto. La cosa triste è che mi accorgo dell’impatto solo quando l’auto arriva a sfiorarmi la gamba, facendomi perdere il mio già instabile equilibrio. 
Risultato: mi ritrovo a terra e non so nemmeno come, ma c’è tanta gente che mi fissa e questo mi manda in bestia. 
Il conducente della Mercedes nera nuova di zecca non si disturba nemmeno di scendere per verificare eventuali danni alla sottoscritta, così decido di fargli una visitina. Una sgommata furiosa e via, il folle parte a tutta velocità e rischia quasi di camminare sui miei piedi. Non so quanto senso abbia, ma non posso trattenermi dall’urlargli contro un signorile: «Guarda dove vai, testa di… rapa!».
Mi guardo intorno agitata, ma noto con grandissimo sollievo che il capannello di gente si è dissolto velocemente come si era formato. Ho di nuovo la strana sensazione che questa non sarà una bella giornata e che avrei dovuto fingere una voce irrimediabilmente nasale, prima al telefono con Fitz, per poter restare in camera a poltrire e godermi tranquillamente il mio giorno libero.
Sospiro, mi ravvio i capelli e volto l’angolo. Chuck mi sorride non appena mi vede, il bianco dei denti che contrasta con la sua pelle scura.
«Non dovresti essere a scuola o al lavoro?» gli chiedo, battendogli il solito cinque.
«E tu non dovresti indossare gonna e tacchi?».
«Non cambiare discorso, sono più brava di te in questo gioco».
Sbadiglia e incrocia le braccia dietro la schiena. «Mi secca, preferisco restare qui ad aspettare te».
Lascio che mi accompagni in ascensore, seguendolo insieme ad una risata. «Torna a casa, moccioso. Tua madre sa che hai marinato?».
«Mamma ha perso ogni speranza, ormai. – risponde con indifferenza mentre schiaccia il tasto del quinto piano – Atto di ribellione?».
«No. Teoricamente oggi mi spettava il mio sacrosanto riposo, ma è andata diversamente».
Il ragazzo resta in silenzio per qualche momento, scrutandomi bene. «Ti preferisco in uniforme».
«Chissà perché lo sospettavo». L’ascensore si ferma e le porte si aprono, liberandomi dallo strazio di doverci stare chiusa dentro. «Io odio quel tailleur» affermo prima di salutarlo scompigliandogli i ricci ribelli che gli ricadono sulla fronte.
«Dana, hai impegni dopo?».
«Chuck…!» esclamo roteando gli occhi.
«Che c’è, i toy boy vanno di gran moda ultimamente».
Sorrido e lo guardo attraverso le porte che si richiudono. «Sarà, ma io ho ventinove anni e tu ne hai sempre e solo sedici». 
L’ultima cosa che riesco a vedere di lui sono il suo perenne sorriso e la sua mano agitata in segno di saluto. Spero seriamente per lui che si decida a studiare, prima o poi: è terribilmente in gamba per essere così giovane.
Sento già il sangue affluirmi velocemente verso le guance e la gamba inizia il suo solito ticchettio. Tiro via l’elastico dal polso e lego appena i capelli, giusto per non averli davanti agli occhi e anche per evitare che mi facciano sudare più del necessario. Suono il campanello e la porta si apre istantaneamente con uno scatto, rivelando Jennifer già seduta dietro la sua sfavillante scrivania.
«Quando il buongiorno si vede dal mattino. Hai due occhiaie tremende, che ti è successo?» s’informa passandomi prontamente specchietto e correttore. Jennifer Smith, la segretaria dalle mille risorse che nasconde un intero negozio di cosmesi all’interno di un cassetto.
«Niente, a parte un pirata della strada che mi ha quasi investita ed è scappato di corsa».
«Oh Cielo, e ti sei fatta male?».
«Credimi, ho più paura di Scott al momento» replico chiudendo lo specchietto.
La sua voce riecheggia mentre percorro il corridoio semi deserto: devono essere tutti all’opera. «Stendili tutti, Dalloway!».
Il mio capo ha lasciato la porta aperta e penso che mi abbia sentito arrivare.
«Non c’è bisogno che bussi, entra e basta».
Appunto.
Mi risolvo a sferrare un attacco diretto. «Fitz, se c’è qualcosa che…».
«Siediti» ordina. Il fatto che mi dia le spalle evitando di guardarmi mi innervosisce ancora di più. Quanto posso averla fatta grossa mandando affanculo gli Hobbs?
Non fiato finché lui non mi dice di farlo e lascio che gli unici suoni tra noi provengano dall’altoparlante sintonizzato su Virgin Radio. Mi sento come in bilico e non so esattamente quanto tempo passo a guardarmi intorno prima che Scott si sieda finalmente di fronte a me. Si massaggia la mascella, giunge le mani e prende parola. «Ho ricevuto una telefonata, ieri sul tardi. Pare che Richard e Melinda Hobbs siano passati alla concorrenza». Il suo tono di voce è duro e altamente inespressivo, il che mi fa pensare che sia talmente arrabbiato da potermi anche licenziare in tronco. Non oso immaginare cosa succederà dopo il licenziamento, però.
«Posso spiegare» mormoro.
«Lo so, per questo ti ho fatta venire».
La risposta mi spiazza, ma mi solleva incredibilmente perché forse (e sottolineo il forse) la situazione è meno grave di quanto avessi creduto. Così non esito a raccontare a Fitzwilliam la mia orribile esperienza con quella orribile coppia, partendo dagli esordi e non tralasciando mai nulla, soprattutto nella parte che riguarda il quinto atto.
Parlo, parlo e parlo, non riuscendo quasi più a trattenere la frustrazione che mi porto dietro da un po’. «Insomma Scott, se mi posso permettere, Richard Hobbs è proprio…».
«Un debosciato della peggior specie» conclude il mio boss con un sorrisetto amaro.
Sbianco. «No, io non volevo che tu avessi quest’impressione. Okay, non ho tollerato il suo modo di porsi nei miei confronti, ma non sto dicendo che sia un depravato cosmico» preciso. Non mi è ancora ben chiaro quale sia il ruolo di quest’essere, ma sono sicura che sia meglio non inimicarselo come ho già inconsapevolmente fatto con la moglie.
Fitz solleva gli occhiali che aveva lasciato scivolare lungo la punta del naso. «Infatti, sono io a dire che lo è. Vedi, Dana, conosco Rick dai tempi del liceo e abbiamo pure frequentato la stessa Università, so cosa fa. O almeno, speravo di non saperlo più visto che ormai siamo sulla cinquantina e non possiamo più permetterci certe… come dire, gesta eroiche, capisci cosa intendo».
Annuisco perché comprendo perfettamente cosa voglia dire, ma non so più cosa abbia a che fare questo con il mio lavoro. «Credo di essermi persa il nocciolo della questione» ammetto. Il mio capo mi fa cenno di continuare. «Il fatto che Richard e consorte abbiano scelto di affidarsi alla Jacobs&White è per noi positivo o no?».
Scott si lascia andare sulla poltrona di pelle nera e chiude gli occhi per un istante, con fare pensieroso. «Avrei preferito tagliare fuori la J&W a favore di altre agenzie, ma se il cliente è felice così… Amen. Avranno una bella gatta da pelare, Melinda è una rompipalle di prima categoria».
Sorrido col cuore leggero, pregustando la vittoria e lasciando che una meravigliosa ondata di allegria si impossessi di me da capo a piedi. «Quindi non vuoi licenziarmi?». Il mio lavoro mi fa pena, ma non posso permettermi di perderlo.
«E rischiare di portare normalità e tranquillità nel mio impero? Come ti passa per la testa?» sbuffa.
Giuro che mi vien voglia di abbracciarlo, e lo farei sul serio se non fosse così imbarazzante e quasi compromettente.
«Adesso vai, esci e goditi il resto della giornata. Lunedì penseremo ad evitare che Melinda ti denunci per non so cosa. Voi giovani dovete divertirvi» conclude con una di quelle sue solite “frasi ad effetto” recitate come se fosse l’Amleto.
Mi alzo e gli tendo la mano; nonostante questa specie di strana amicizia, Scott ci tiene a rispettare le formalità con tutti i suoi dipendenti. «Dicono che i cinquant’anni siano la seconda gioventù dell’uomo».
Uomo che mi scoppia a ridere in faccia, sarcastico. «Non quando tua moglie si è messa in testa di essere solamente nonna e di soffrire di sciatica!».
Lo guardo smarrita, non sapendo se adeguarmi o meno alla sua risata isterica. Meglio un sorrisetto neutrale, non si sa mai. 
 
* * *
 
Cammino avanti e indietro, nervosamente, con Chuck che mi osserva dalla portineria senza capire il motivo del mio atteggiamento. Magari lunedì glielo spiegherò, ma per adesso no. Devo ancora mandar giù il fatto che mi sia stato affidato un compagno e che questo sia un completo idiota.
«Perché non entri?» domanda infine il ragazzo.
«Perché ho caldo e voglio stare all’aria aperta». Il mio tono di voce è così cavernoso e sgarbato che mi affretto ad aggiungere: «Non ce l’ho con te, tranquillo».
Un collega, un duo. Io che sono sempre stata abituata a lavorare da sola, orgogliosa di farlo. Cosa diamine passa per la testa di Scott, si può sapere?!
Una Smart grigio topo mi affianca sul marciapiede e parcheggia proprio accanto a me. Oggi sento di dover stare alla larga da ogni sorta di veicolo a quattro ruote, così giro i tacchi e faccio per entrare in portineria e raggiungere Chuck.
Una risata cristallina precede un divertito «Che fai, scappi?» che mi fa voltare nuovamente.
«Scusami, non sapevo che macchina avessi e nell’ultima ora ho sviluppato un’improvvisa e grande voglia di camminare a piedi» affermo in preda alla paranoia. Ben mi guarda dubbioso. «Non farmi domande, è una cosa di scarsa importanza» dico aprendo la portiera.
«Caspita, hai un aspetto orribile».
«Anche tu sei molto bello stamattina».
Abbassa un po’ gli occhiali e mi squadra meglio. «Come ti senti?»
«Una vera merda. Non ricordo niente dopo la mezzanotte. Ho vomitato?». Il solo pensiero mi fa già tornare la nausea e trattengo un conato mentre abbasso il finestrino per salutare Chuck dalla macchina già in moto.
«Neanche una goccia».
«Sicuro? Non voglio bugie».
«Sono sicuro al novanta percento».
«E l’altro dieci?».
«Sono tornato a casa mia, non so».
«Dio, che schifezza. Di solito non lo faccio, sappilo».
«Ti credo, eri solo molto contenta di vedermi e ti sei data alla pazza gioia. Suvvia, non sei la prima né l’ultima. E poi eri molto aggraziata e simpatica, anche da sbronza».
Decido di non aggiungere niente, anche se so perfettamente che questo mio gesto non impedirà a nessuno dei due (o alla Moore e a Hiddleston) di dimenticare la mia grandissima figuraccia.
«Dove mi porti?» domando dopo un po’, incuriosita dal fatto che ci stiamo allontanando sempre più dalla City.
«Qui vicino, non temere. E se poi avrai ancora voglia di passeggiare, potremmo andare al parco». 
«Mi sembra un’ottima idea». Lo sento soffocare una risata accanto a me. «Che c’è?».
«Ieri sera abbiamo detto a Jimmy che oggi saremo stati insieme e lo stiamo effettivamente facendo».
«No, caro: tu hai detto a Jimmy che oggi saremo stati insieme e tu mi hai chiesto di vederci stamattina».
«Non vedo quale sia la differenza».
«Ed io non capisco cosa tu ci trovi da ridere».
La quiete prima della tempesta, il silenzio prima delle risate che mi fanno venire il mal di pancia.
«Perché continuiamo a battibeccarci come se avessimo ancora vent’anni?» domanda eseguendo una svolta a sinistra.
«Non ne ho idea, ma è come se non potessimo farne a meno» rispondo.
«Per non parlare dei litigi!».
«Già, a volte provavo a mettermi nei panni di Johanna e Tom…».
«Lo facevo anch’io, sai? Che grandi deficienti eravamo». 
Cerchiamo di lasciare cadere il discorso così, ma è evidente che non riusciamo proprio a pensare ad altro. 
«Avevamo litigato anche qualche giorno prima della tua partenza» dico.
Ben riflette un attimo. «Io non ricordo più nemmeno perché».
«Oh, io sì».
«Sul serio?! Dai, dimmi!».
Questo mi diverte non poco, anche se ai tempi quella discussione era stata quasi una vera tragedia. «È una cosa così idiota, ma così idiota che… bah, credo che ci sia impossibile essere ancora tanto scemi, oggi. – creo un minimo indispensabile di suspense – Mi avevi chiesto consigli su cosa mettere in valigia ed io ti avevo risposto di portare il maglione bianco perché faceva freddo, ma tu eri convinto che non ce ne fosse bisogno perché era estate e mi hai accusato di comportarmi da mammina e…».
Benjamin scoppia a ridermi in faccia e mi fermo, reagendo alla stessa identica maniera. Fa anche fatica a inserire la retromarcia e parcheggiare, ma alla fine riesce e si blocca con le mani sul volante e lo sguardo fisso davanti a sé. Poi si gira a guardarmi. «Sul serio litigavamo per cose del genere?».
«Imbarazzante, eh?» annuisco col tono di chi la sa lunga.
«Tanto. Ma guardiamo il lato positivo: adesso siamo grandi e maturi e facciamo solo discussioni serie»
Lo guardo dubbiosa e capisco dal modo in cui ha strizzato gli occhi che sta trattenendo l’ennesima risata. Sembriamo due cretini e la gente vedendoci può pensare che siamo pazzi, ma a chi importa?
«Certo, come no!» esclamo scendendo dall’auto. Mi guardo intorno, ma non riconosco bene il luogo ed ho solo una vaga idea di dove potremmo essere, così decido di giocarmela. «Barnes?».
«No, Richmond».
«Richmond? E cosa ci facciamo a Richmond?».
Ben mi squadra con finto disappunto, tenendosi il mento fra l’indice e il pollice. «Non eri tu quella con la memoria di ferro?».
«Ho mangiato poco pesce, ultimamente. E, anche se l’apparenza inganna, non sono completamente un’elefantessa». Si limita a sbuffare a roteare gli occhi. «Non stiamo insieme da nemmeno ventiquattro ore e ti ho già stufato».
«Perché, stiamo insieme?».
Il sorriso sulle labbra mi muore all’improvviso, sepolto da chili di imbarazzo. È da ieri sera che continuo a fare gaffe, devo sforzarmi di misurare le parole quando mi rivolgo a lui.
«Andiamo, dai» mi fa cenno di seguirlo e obbedisco silenziosamente. Tengo la testa bassa, fissa sulle punte delle scarpe, e quando lo vedo fermarsi e alzo lo sguardo resto di sasso.
«Ti ricordi?».
L’insegna al muro reca la scritta “Spirale Internet Cafè”, ma l’avrei riconosciuto benissimo anche senza quella. Una marea di ricordi mi inonda la mente e solo qualche secondo dopo mi accorgo di essere rimasta a bocca aperta.
 «Allora?».
«Sì».
«Racconta» mormora non smettendo di guardami sebbene non lo stia ricambiando.
«Era gennaio e fuori pioveva a dirotto. Ero chiusa in biblioteca per fare una ricerca, quando Jo è venuta saltellando e mi ha detto che il tizio molto molto carino che aveva conosciuto qualche settimana prima le aveva appena dato una locandina con l’indirizzo di un bar sconosciuto ma a cui saremmo dovute andare perché… beh, non c’era un perché. Johanna voleva andarci per quel ragazzo e a poco sono valse le mie lamentele e i miei tentativi di lasciarmi stare lì dov’ero. Così siamo andate e ho conosciuto Tom».
«Credo sia tutto giusto, ti prendo in parola. Manca solo…».
«E poi…» lo interrompo con l’aria di voler continuare.
«E poi?».
«E poi è arrivato l’amico stupido, timido e infinitamente impacciato di Tom che mi ha versato addosso tutto il suo succo di lamponi e ha macchiato irreversibilmente la mia maglietta preferita».
«Ah. Interessante. Non si può proprio fare a meno di questo finale, vero?».
«Fa parte della storia e così deve essere tramandato».
«Vedo che quando vuoi la memoria non ti manca».
«Anch’io ho i miei momenti» rispondo scrollando le spalle.
«Quindi, è questo il primo ricordo che hai di me? Di un tipo che ti imbratta la maglia grigia a righe bianche?».
Accenno un sorriso, molto più che sorpresa. «L’ho indossata solo quella volta da quando ci siamo conosciuti, come fai a ricordarla?».
«La ricordo e basta. Adesso rispondi: è quello il primo ricordo che hai di me?».
«Ti aspettavi qualcosa di diverso?».
«Onestamente sì».
«Se vuoi posso dire di essere stata colpita dal tuo sorriso smagliante e dai tuoi occhi verde intenso, ma hai recitato la parte del musone a capo chino per tutto il tempo, perciò non saprei…».
«Beh, però mi sono dato da fare dopo» conclude con un occhiolino.
Non so cosa voglia esattamente dire con quell’espressione ma riesce a farmi arrossire le guance e farmi perdere un battito al cuore, cosa che sempre e solo lui ha mai potuto fare.
«Sempre restando nei tuoi limiti» ribatto seguendolo dentro.
 
* * *
 
I tramonti in riva al Tamigi di Richmond sono qualcosa di spettacolare. Per un attimo mi torna alla mente l’immagine di mio cugino che mi spinge in acqua dopo una litigata: me la sta ancora pagando per questo. Ho molte foto che mi ritraggono qui, da bambina, quando venivo con mamma, la zia e Scott a fare i picnic durante l’estate e mi sorprende pensare che siano passati tutti questi anni e che io non sia più tornata se non di sfuggita.
«Era da tanto che non mi prendevo una pausa del genere» sospiro.
«Vita frenetica?».
«Nell’aspetto negativo. Direi più caotica. Caotica, squallida, monotona e confusionaria».
«Wow, sono davvero l’uomo giusto al momento giusto».
Alzo il capo e sorrido, dandogli una lieve spallata. «Abbiamo parlato già ieri sera del tuo tempismo, non farmi ripetere».
«Va bene, ma non puoi negarlo. Sono venuto a salvarti e ci riuscirò».
«Salvarmi, uhm. E sentiamo, mio personale paladino della giustizia, come intendi farlo?».
Il mio tono chiaramente irrisorio gli fa assumere uno sguardo di sfida. Fa qualche passo avanti e si ferma esattamente davanti a me, numerando man mano con le dita i suoi piani.
«Uno, ti trovo un lavoro. Un lavoro decente, che ti soddisfi appieno e che abbia a che fare con la tua laurea e la tua immensa passione per l’arte. Giusto l’altro giorno Tom Tykwer mi parlava di un nuovo progetto e non credo proprio possa fare a meno di una scenografa. Due, ti compro una casa. Tutta tua, ovviamente, niente più signora Millian e figlie della signora Millian. Magari a Soho, a Westminster, a Chelsea o nel West End, dove ti pare e piace. Sarà una casa magnifica, non dovrai far altro che sceglierla e al resto penserò io».
Alzo gli occhi al cielo e rido divertita ma, quando faccio per interromperlo, Benjamin alza una mano e continua deciso il suo discorso.
«Tre, ti scelgo un abito da sposa».
No, questa è assurda. «Un abito da sposa?! E cosa cavolo dovrei farci io con un abito da sposa?!».
«Dire solo di sì. Non ti chiedo altro».
Ancora prima di rendermi conto delle sue parole, mi ritrovo ad esclamare: «Stai scherzando!».
E invece no. Ben non sta affatto scherzando. Perché non è un tipo che mai scherzato su queste cose; perché non gli piace mostrare quella parte di sé che tiene sempre nascosta e, quando la tira fuori, non lo fa per gioco; perché ha sussurrato; perché mi sfiora appena la mano con la sua; perché mi guarda fisso negli occhi con la stessa intensità di quella volta di tre anni fa, quando, andandomene, gli dissi tra le altre che avevamo sbagliato a passare la notte insieme e che lui non era la persona giusta per me. Anche se in realtà non ero io la persona giusta per lui. E forse non lo sono ancora né lo sarò mai.
Faccio un passo indietro, rivolgendo il capo altrove perché sono talmente codarda da non riuscire nemmeno a guardarlo in faccia. Vorrei parlare, ma le parole mi muoiono in gola e, anche volendo, non saprei cosa dire.
«Ho provato a tenermi lontano da te, okay? Ho provato. Sono sparito, sono andato via e ho cercato di non pensarti, ma… ma non ce la faccio. Non ci riesco. E vuoi sapere come mai?».
Come c’era da aspettarsi, le lacrime iniziano a scendermi lungo le guance e non posso fare niente per fermale. «No, – mormoro – lo so già da me».
Una pausa. «Perché devi complicare tutto così?».
«Perché non vuoi arrenderti all’evidenza?».
«Perché non lo è. Non è l’evidenza che credi. Puoi ingannare chi ti pare, i tuoi genitori, Johanna, anche me se ti va, ma non puoi ingannare te stessa. E tu soffri. Sei delusa e amareggiata e quando ti guardo so che è così e mi sento una merda».
«Tu non… non hai idea».
«Hai ragione, ma vorrei averla. – si avvicina e mi asciuga l’occhio dolcemente, con il pollice – Non sai quanto mi piacerebbe starti accanto. Non mi hai mai dato una spiegazione concreta. Se c’entra in qualche modo il divorzio dei tuoi genitori…».
«Loro sono un altro paio di maniche» taglio corto. Sento di voler urlare, ho una voglia matta di spaccare tutto e mandare affanculo chiunque. Sono arrabbiata, triste, furiosa e sola. Maledettamente, completamente, fottutamente sola.
«Ho sempre trovato che fossi troppo testarda e tendente all’autolesionismo estremo. Non voglio stare qui per farti il lavaggio del cervello e convincerti che io sia l’uomo perfetto perché sarebbe un’enorme balla…».
«Perché sei qui allora?».
«Per capire. Una volta per tutte. So che non ti piace ammetterlo e continui a pensare che siano passati otto anni dall’ultima volta che ci siamo visti, ma tre anni fa…».
«Tre anni fa non c’è stato niente».
«Tre anni fa c’è stato! C’è stato, c’è e ci sarà sempre, cazzo! C’è stato anche molto tempo prima di tre anni fa, anche se in modi diversi!».
Sono state davvero poche le volte che ho sentito Benjamin urlare, potrei contarle sulla punta delle dita.
Sono state di più, invece, le volte in cui io non sono riuscita ad affrontare la realtà e sono scappata. Esattamente come sto facendo adesso.
Le sue parole mi giungono dopo che ho percorso qualche metro. Ha la voce spezzata. «Io ti amo. Non faccio altro che ripetertelo da tanto ormai, ma tu non ricambi. Non mi vuoi troppo vicino, ma non mi vuoi nemmeno troppo lontano. Ed io sono stanco, stremato, e voglio una risposta».
Per un attimo guardo il fiume con l’assurdo desiderio di annegarci dentro. Esattamente nel mio stile.
«No, tu non mi ami. Mi vuoi bene e sei solo confuso».
«Tu pensi di conoscermi così bene da poter decidere al posto mio e invece no, Dana! No!».
Mi fa male. Mi fa maledettamente male e non lo capisce. O forse sì?
«Sei un attore e non fai altro che recitare! Non riesci a distinguere la vita reale e pensi che sia tutto un film. Recitare, recitare e recitare! Sempre e con tutti!». Non mi fa per niente onore quello che ho detto e potrei benissimo scavarmi la fossa qui e adesso, se questo non fosse l’unico modo per allontanarlo definitivamente dalla mia vita.
«No, con te non l’ho mai fatto. Lo sai».
«No, Ben, non lo so».
Restiamo in silenzio. Il sole non c’è più, è ormai sparito, e il cielo si scurisce di secondo in secondo.
Incapace di fare altro, singhiozzo. Una, due, tre volte… poi il mio corpo si irrigidisce e si scuote violentemente ad ogni singulto. Non oppongo alcun tipo di resistenza quando Benjamin mi viene incontro e mi abbraccia, mentre io continuo ad imbrattargli la maglia.
Non so quanto tempo passa, forse secondi, forse minuti, ma anche quando riesco a calmarmi resto con il viso sprofondato tra la sua spalla e il suo collo, respirando il suo profumo.
Mi accarezza piano la schiena, salendo e scendendo con la mano. «Ho sempre odiato il One Million» mormora.
Non posso più stare qui, devo andare via.
Uno, due, tre passi indietro e poi mi volto, sapendo che lui non mi seguirà.
 
* * *
 
Ho camminato a lungo, ho preso un taxi e mi sono fatta portare a South Kensington. Sono esausta, mi muovo come un automa e ho il morale dilaniato e l’unica cosa di cui ho veramente bisogno è una bella chiacchierata con Jo, approfittando magari dell’assenza della sua famiglia (partita per andare in vacanza a Dover, come fa sempre in questo periodo) per restare anche a dormire.
Il portone è aperto, così salgo e suono il campanello alla porta. Aspetto, ma nessuno viene ad accogliermi. Suono ancora per sicurezza, ma non cambia nulla e decido di dare un colpo di telefono alla mia amica per essere sicura che non sia uscita. La cosa strana è che riesco a sentire il suo cellulare squillare all’interno, da qualche parte. Comincio a farmi prendere dal panico e a bussare ripetutamente.
«Jo! Jo, sono io, apri! Johanna! JOHANNA!». Do un ultimo colpo disperato prima di comporre il numero dei pompieri, pregando che Jo non si sia sentita male. Ho già portato il cellulare all’orecchio quando sento i cardini della porta scricchiolare e vedo comparire il suo volto.
Svengo.
 
* * *
 
Ho qualcosa di umidiccio sulla fronte, ma non riesco a toglierlo e non posso nemmeno aprire gli occhi. Ascolto il mio respiro e sono sollevata dal sentirlo tornato regolare, ma subito dopo una voce mi distrae.
«Sembra fredda». 
È Johanna ed è preoccupata. Così tanto da credermi in punto di morte. Ahia… Vorrei riuscire a sollevare almeno una palpebra per dimostrarle che sono ancora qui e…
«È svenuta, non morta. Sviene spesso, non ricordi?».
Ecco, bravo. Esattamente. Diglielo tu, Tom, magari ti crede e smette di pensare queste cose.
Un attimo.
Tom?
«Ben cosa dice?».
Ben?! E cosa diamine c’entra Ben in tutto questo? Perché Ben deve entrarci sempre?
«Dice che sono stati insieme fino a pomeriggio inoltrato e… beh, hanno litigato di nuovo. Immagina il perché. – Thomas sospira – Te l’avevo detto io non forzare niente, così non facciamo altro che peggiorare la situazione e aiutarli notevolmente a stare peggio».
«Ma Dana sta già notevolmente peggio! Devo fare qualcosa!».
Tutto questo è interessante nell’accezione negativa del termine. Cosa vogliono dire? E perché ho una brutta, bruttissima, sensazione?
«D’accordo, è giusto che tu voglia aiutarla, ma non ti sembra altrettanto corretto che sia lei a gestire la parte sentimentale della sua vita?».
«E lasciarla sola a piangere e mangiare schifezze mentre ascolta Celine Dion?». 
Signore e signori sono molto più che lieta di annunciarvi l’opinione che la mia migliore amica ha di me. Bello. 
«Non sto forzando proprio un bel niente, voglio solo metterle davanti quello che ha sempre saputo e rinnegato a se stessa». 
Se potessi farlo senza essere scoperta, sbufferei: pare proprio che gli altri mi capiscano molto meglio di quanto non faccia io stessa. 
Ma c’è dell’altro, perché Johanna non ha finito qui.
«Tom, non le ho ancora detto che stiamo insieme. Mi sembra… brutto, non lo so».
A questo punto potrei morire. Basta, finiamola qua. Chiudiamo il sipario e restituiamo agli spettatori i soldi del biglietto.
Non se a sconvolgermi sia più la notizia che loro due stiano insieme o che lei abbia paura di dirmelo. Ci rifletto tu, ma capisco subito che il fatto che Jo non voglia confidarsi con me mi ferisce maggiormente; del resto, avrei anche potuto immaginare che facessero coppia, ho sempre pensato che prima o poi sarebbe andata in questo modo.
Il problema adesso è rinvenire. Non mi resta molto da fare, così metto in pratica quello che so e fingo un ascesso di tosse sufficientemente lungo, alla fine del quale riesco a mettermi seduta e ad aprire gli occhi.
Jo e Tom mi guardano felici, ma un attimo dopo mi fissano come se si stessero aspettando la furia degli elementi. 
Sbranarli o perdonarli, sbranarli o perdonarli, sbranarli o perdonarli… ma se li sbrano non mi resta più nessuno. Uhm. Tanto vale perdonarli.
Abbozzo un sorriso e li guardo, ma mi blocco quasi subito con un’espressione facciale sicuramente poco intelligente. E va bene sforzarsi di non urlare e apparire calma e gentile, ma trovarseli addirittura davanti uno in boxer e l’altra con una maglietta più grande di lei e chiaramente non sua no, eh!
«Dana…».
Uno, due tre.
«Quanto hai sentito?».
Quattro, cinque, sei.
«Posso spiegare».
Sette, otto, nove.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo per tempo».
Dieci.
«Ho sentito quanto basta e non mi servono spiegazioni. In fondo sei la mia migliore amica, non la mia ragazza, giusto? E poi sono contenta per voi, stracontenta. Anche se per adesso non lo do a vedere perché sono sconvolta ma… cavolo, ce ne avete messo di tempo». Mi lascio ricadere sul letto e Johanna mi si butta praticamente sopra, abbracciandomi.
«Senti da che pulpito viene la predica».
Sollevo un sopracciglio e alzo la testa per quanto mi è possibile. «Qualcosa da obbiettare, Hiddleston?».
«Io? Assolutamente no».
Aspetto che la mia amica si sposti prima di riprendere parola e accorgermi di essere effettivamente molto imbarazzata. «Okay… adesso sarà meglio che vada… devo piangere ascoltando Celine Dion e magari sulla strada mi fermerò a comprare un barattolo di gelato e una confezione di marshmallows». Jo abbassa lo sguardo e Tom si gratta la nuca impacciato. Ne approfitto per alzarmi e correre fuori. «Va bene, allora… ciao… e scusate».
«Dalloway».
«Dica pure, Moore».
«Noi stiamo insieme da due mesi e mezzo, ormai. E tu e Ben?».
«Io e Benjamin non stiamo insieme».
«Per adesso» ribatte.
«Facciamo che…».
«Non voglio saperlo, voglio solo che tu ci pensi su».
Odio quando usa i suoi trucchetti psicologici, riesce sempre a farmi capire molto più di quello che dice in realtà. Per un certo senso, è come parlare con la mia coscienza.
 
* * *
 
Si dice che la notte porti consiglio.  Magari, se fossi tornata a casa e avessi dormito avrei davvero concluso qualcosa. Ma non sono tornata a casa perché non avrei retto, così, con le buste della spesa (se spesa può essere definito il cibo spazzatura), mi aggiro per la periferia della città.  Periferia che, guarda caso, corrisponde proprio al West End.
Mi piacerebbe poter dire che sono arrivata qui per puro caso, senza rendermene conto, ma sarebbe una balla galattica che non ha un briciolo di senso. Mi piacerebbe anche poter dire che sono seduta su questa panchina perché mi va e non perché sto aspettando Ben. Potrei anche smentire di avergli mandato un sms e allo stesso modo potrei aggiungere che lui non mi abbia risposto “Arrivo”, uscendo di casa a mezzanotte per raggiungere una squilibrata con vistosi sbalzi d’umore.
Lo vedo arrivare nello stesso momento in cui volta l’angolo. Alza appena una mano e il cuore prende a martellarmi veloce nel petto.
So già come comportarmi e di cosa dover discutere ed è meglio non perdere (ancora) tempo.
«Perché lo usi?». 
«Cosa?» domanda stranito.
«Il One Million; hai detto di odiarlo».
«Perché piace a te. Alle lunghe sono riuscito anche ad abituarmi».
«È illogico».
«È amore».
«È una battuta da film».
«Forse, però guarda: abbiamo smesso di litigare e parliamo come due persone civili».
«Parla per te».
Sorride e strizza gli occhi in quella maniera che mi piace tanto. Poi azzarda un abbraccio e mi bacia tra i capelli. «Hai fame?».
«No».
«Vuoi andare a casa?».
«Sì».
«Posso accompagnarti?».
«No».
«Possiamo provarci?».
Sbuffo e sciolgo l’abbraccio. «Mi dai il tormento. Mi manderai al manicomio».
«Non abbiamo mai provato sul serio».
«Io odio i manicomi, non sono bei posti. A zia Lizzie non piaceva stare lì».
«Se ci dessi una possibilità…».
«C’era sempre gente che urlava quando andavo a trovarla».
«Dana».
«Gente che urlava e odore di segatura».
«Dana».
«E la sua compagna di stanza non faceva altro che rubarmi i pennarelli».
«Blackie».
«Cazzo Ben, non chiamarmi così!». Andrò all’ospedale psichiatrico sul serio, di questo passo. Posso già iniziare a fare le valigie. «Perché vuoi stare con me? – sbotto infine – Sono un rottame, una carcassa. Sono mentalmente limitata e allontano tutti quelli a cui voglio bene. Mangio troppa cioccolata e non riesco a farne a meno. Amo i lunedì perché dopo il riposo della domenica tornare al lavoro mi fa sentire una persona utile. Arrivo sempre tardi agli appuntamenti perché perdo troppo tempo immersa nella vasca da bagno a fantasticare senza mai mettere in atto. Ascolto solo musica a volume assordante. Cammino sotto la pioggia senza preoccuparmi di rincasare bagnata dalla testa ai piedi e la lista è ancora lunga. Vuoi che continuo?».
Ben scuote il capo sorridendo sbarazzino. «Ti sei mai chiesta se a qualcuno siano mai piaciuti questi tuoi difetti? Nessuno è perfetto e, anzi, tu sei la persona più imperfetta del mondo, ma questo non significa affatto niente. Tu sei confusionaria e casinista, io sono serio e impacciato: se fossimo uguali sarebbe noioso».
«Sei bravo a rigirare la frittata».
«Mi capita di farlo spesso con i giornalisti».
«Ma io non sono una giornalista, quindi non voglio che tu cambi discorso».
«E io non voglio che tu continui la lista perché ti conosco meglio delle mie tasche e so come sei fatta. Se dopo otto… o tre anni sono ancora qui, chieditene il motivo».
«Hai una casa nel West End, dove vorresti essere?».
«Hai capito».
Ho capito, sì. Una volta per tutte, finalmente. Perché poi ha ragione: l’ho sempre rifiutato senza mai nemmeno capire il perché, non gli ho mai dato una vera possibilità. Non ci ho mai dato una vera possibilità. Lo pensavo, ma non lo facevo. Chi dice che le cose non possono provare a cambiare, del resto? La verità è che credo di aver avuto troppa paura. E ne ho ancora, ma a cosa serve?
«Volevo proteggerti dal casino che sono» mi ritrovo a mormorare, di nuovo con i lucciconi. Anche questa versione non è da sottovalutare.
«Lavoro a parte, ho una vita monotona e ritengo che un po’ di pepe non mi faccia male».
«Sei uno stronzo, non mi permetti di difendermi e controbattere».
«Non so se hai capito quali siano le mie intenzioni oggi, ma…».
Non pensavo di poter cambiare idea così improvvisamente e di essere talmente vulnerabile da venire sconfitta in meno di ventiquattro ore. Una parte di me si oppone e sostiene che io non abbia mai cambiato idea dal momento che l’ho sempre saputo, anche se represso per chissà quale strano e idiota motivo. In definitiva, pare che fossi innamorata del mio migliore amico già da parecchio tempo, più di quanto io stessa voglia ammettere. 
Che cliché.
Ben parla ancora, ma non lo ascolto più; mi limito a guardarlo sotto la luce biancastra del lampione, ad osservarlo, ad apprezzarlo, ad ammirare i suoi grandi occhi verdi, quelli che mi hanno fatto perdere un battito la prima volta che hanno incontrato i miei. E tutte le volte a seguire, oggi compreso.
«…cioè, voglio dire, questo è il corteggiamento più lungo della storia di tutti i tempi ed io non so più cosa…».
E poi mi trovo a poggiare le mie labbra sulle sue, piano, mentre gli stringo forte la mano. Mi allontano prima che possa rendersene conto e lui mi fissa sbigottito.
«Basta parlare, parliamo troppo. Dobbiamo agire».
«Hai sbagliato battuta, adesso avresti dovuto dire che sono possibile con te. Devo proprio correggerti, eh?».
«Devo proprio tirarti un ceffone, eh?».
Mi accarezza una guancia con la mano libera e agisce di sua spontanea volontà. Mi do dell’idiota quando sento le gambe cedermi e sicuramente lo avverte anche lui, dato che sposta la mano sulla mia vita e mi stringe ancora di più.
Si avvicina al mio orecchio e inizia a sussurrare: « Se fossimo più coraggiosi, più irrazionali, più combattivi, più estrosi, più sicuri e se fossimo meno orgogliosi, meno vergognosi, meno fragili, sono sicuro che non dovremmo pagare nessun biglietto del cinema per vedere persone che fanno e dicono ciò che non abbiamo il coraggio di esternare, per vedere persone che amano come noi non riusciamo, per vedere persone che ci rappresentano, per vedere persone che, fingendo, riescono ad essere più sincere di noi».
«E allora tu saresti senza lavoro». Dal manuale Come rovinare il momento più romantico della vostra vita. «Sono incommentabile, lo so».
Ben scoppia a ridere mentre mi sfila le buste. «Sono io che ti metto in agitazione… perché ti piaccio… e perché mi ami anche se preferisci rinnegarlo… No, non obbiettare. Dimmi piuttosto che c’è qui dentro, pesano un botto».
«Ehm… schifezze varie… patatine, marshmallows, tre o quattro barrette di cioccolata e anche del gelato…».
«Sarebbe un peccato far sciogliere il gelato, no?».
«Un peccato mortale» correggo, baciandolo un’altra volta.

Step 3, I'm calling you baby...

Ma quanto è lungo? E quanto poco senso ha? È il capitolo clou della storia ed è venuto un abominio ._.
Però mi sono impegnata, lo giuro ç_ç *eh, questa è la cosa grave...*
Allora, scempio a parte, quel bel discorso che riguarda il rapporto cinema-attori-gente comune non è mio. Non poteva esserlo. L'ho ripreso da un amico che non so dove l'abbia pescato, ma... diamo a Cesare quel che è di Cesare.
E poi niente, manca solo l'epilogo *rotola una palla di fieno* e poi abbiamo concluso.
Ci tengo però a ringraziare quella povera anima pia che ha la pazienza (e la forza) di leggere e recensire. Che farei senza di te, che farei?

Mi dissolvo,

A.
  
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