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Autore: Dridri96    15/05/2013    11 recensioni
"Domani mi proporrò volontaria e non farò niente per evitare tutto questo. Non farò niente per oppormi. È così. È sempre stato così.
Sono sempre stata costretta ad essere feroce. "
Tiger è una ragazza del distretto 1, una favorita. Il suo unico scopo è partecipare agli Hunger Games, questo è il suo destino da quando è nata.
E' la più spietata, la migliore in combattimento, sempre assetata di sangue. Tutto a causa della bestia che è dentro di lei.
Riuscirà a domarla?
Che gli Hunger Games abbiano inizio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO  1

 




 




Mi sveglio esattamente come ogni mattina: con le urla di mia madre, che minaccia di punirmi se non mi alzo immediatamente.
Scatto in piedi senza esitare, nonostante non abbia dormito molto. So cosa mi aspetta, nel caso io non mi alzi subito: una giornata infernale, fatta di combattimenti feroci e senza pietà.
Da bravo soldatino mi posizioni davanti a lei, mento alto, schiena dritta, braccia stese rigide lungo il busto e sguardo fisso di fronte a me.

    ̶  Ora vai a prepararti  ̶  dice severa. Annuisco senza fiatare o incrociare il suo sguardo e mi dirigo verso l’armadio: prendo una delle tante tute identiche, mi lavo rapidamente, mi cambio e sono pronta, tutto nel giro di dieci minuti. Non posso impiegare molto tempo, o verrò punita.
Questa è la mia vita, da quando ho otto anni, da quando vengo allenata per partecipare agli Hunger Games.
Come tutti i bambini del distretto 1, dopotutto. Per molti di loro gli allenamenti saranno inutili, una seccatura che finirà non appena supereranno i diciotto anni. Per me non è così. Io sono destinata a partecipare agli Hunger Games da sempre, il mio destino è stato scritto non appena sono nata.
Mia madre è un’ex vincitrice e partecipa agli allenamenti dei ragazzi. È la mia allenatrice più severa. Vuole a tutti i costi che io la renda orgogliosa, partecipando e vincendo. Non ho scelta.

Mi guardo allo specchio, controllando il mio aspetto. Devo essere perfetta.
I miei occhi azzurri devono immediatamente togliersi quest’espressione afflitta e incutere timore, trasmettere sicurezza. La mia coda di cavallo non deve avere un capello fuori posto. La mia tuta non deve avere grinze. La mia postura dev'essere quella di una vincente.
Ripeto questo procedimento ogni mattina, e ogni mattina non riesco a fare a meno di provare disprezzo verso me stessa. Odio quello che faccio e soprattutto quello che farò, odio la persona che sono, o meglio, che diventerò, odio il mio aspetto. Sono così simile a mia madre, con i suoi stessi capelli biondi platino, la stessa corporatura slanciata, la stessa grazia nel combattere...
Mi guardo un’ultima volta e sospiro.

Scendo le scale e raggiungo rapidamente i miei genitori in sala. Mi posiziono composta davanti a loro, sperando di essere perfetta. Oggi non è una giornata qualunque, oggi è il giorno della mietitura segreta. È la mietitura che precede quella ufficiale, nella quale i nostri allenatori decidono chi si dovrà proporre volontario.
Chi non fa come dicono loro, viene punito. Nessuno si è mai opposto, perché nessuno considera i giochi una sventura. Nessuno tranne me.
Da quando sono piccola sono stata costretta a guardarli assieme a mia madre, che ad ogni uccisione esultava urlando, con gli occhi sanguigni illuminati di sadico piacere. Ha sempre detto che i giochi sono stata la cosa più bella che le sia mai capitata, che la sensazione di immortalità che si prova una volta vincitori è indescrivibile.
Ma io non voglio provarla. Non voglio uccidere. Io odio il sangue, odio la violenza, odio questi stupidi giochi, e, a quanto pare, sono l’unica a vederli per quello che sono: una tortura che il presidente Snow impone agli abitanti dei distretti, rendendoli suoi schiavi, privandoli della loro dignità.
Eppure molto probabilmente tra circa una settimana sarò rinchiusa in un’arena, a uccidere senza alcuna pietà.

Fin da subito mi sono dimostrata abile in qualsiasi tecnica di combattimento, ma non perché mi impegnassi: la paura accende il mio istinto e mi fa agire senza che io riesca a pensare. Mi trasforma in una macchina da guerra. Prima che me ne renda conto ho già le mani macchiate di sangue. All’inizio per me era come cadere in trans: non percepivo più cosa accadeva intorno a me, poi mi risvegliavo e scoprivo cos’avevo fatto.
Volevo controllarmi, riuscire ad addomesticare la bestia che era in me, così, con grande sforzo, ero riuscita ad essere presente a me stessa. Ciononostante non cambiava nulla: scattavo, guardavo le mie mani colpire, il mio corpo lottare, il mio avversario soffrire, ma non riuscivo a fare nulla per fermarmi.
Tutti pensano che sia il sangue di mia madre che scorre nelle mie vene. Io mi rifiuto di pensarla così.
Non appena abbiamo scoperto come funziona il mio talento per la lotta, abbiamo agito di conseguenza: io ho cercato di rimanere isolata da tutti e mantenere la calma, con la preoccupazione di poter ferire qualcuno. Gli allenatori hanno organizzato le mie lezioni, che consistevano in combattimenti con i ragazzi più spietati e forti dell’intera palestra.
Così io, spaventata dal loro comportamento, istintivamente passavo all’azione.
Vincevo sempre. Non ho mai perso un combattimento. Niente mi ha mai indebolita fisicamente, a parte le frustate che ricevevo quando mi isolavo, quando mi nascondevo per non lottare. Il panico, però, mi corrode all’interno da quando sono bambina. 
Mi è capitato di battermi perfino con gli allenatori stessi. Quando disobbedisco o commetto un errore la mia punizione è battermi con mia madre, la persona che detesto di più al mondo, assieme al presidente Snow. Sanno che per me questa punizione è più efficace delle frustate.
Eppure quando iniziamo a combattere cerco comunque di mantenere la calma, di rendere docile la bestia che si scatena in me. Ma lei mi spaventa, anzi, mi terrorizza. Così spesso finisco col metterla KO, con sua grande gioia. Non ha ancora capito che non provo piacere nel ferire le persone, nemmeno lei, nonostante la odi con tutta me stessa. Nonostante più di una volta abbia desiderato vederla morta.
Così ho iniziato ad evitare gli allenamenti di gruppo, cercavo di rimanere la calma, non utilizzavo nessun’arma (a mani nude ferivo meno gravemente chi mi stava davanti) e gli allenatori, dopo avermi punita varie volte con frustate e giorni di digiuni, avevano capito che se volevano farmi reagire dovevano trovare un altro modo.

È da quando ho undici anni che vengo drogata. Nascondono la droga nel cibo e ogni volta che la ingerisco la mia mente impazzisce e il mostro dentro di me prende il sopravvento. Basta un piccolo gesto, una sola parola, e scatto. Spesso non serve proprio niente per farmi attaccare, se le dosi sono sostanziose.
Le mie pupille si dilatano, i muscoli iniziano a contrarsi, il battito accelera e il panico è il mio padrone. Sento la rabbia che mi avvolge come un’armatura e non posso fare niente per controllarmi. Attacco. Combatto.
Mi trasformo nel loro tributo perfetto.
Quando l’effetto svanisce mi ricordo di tutto ciò che ho fatto, così, come un animale ferito, scappo, mi isolo dagli altri, e crollo.

Ora ho quasi diciassette anni. Il prossimo anno sarà l’ultimo possibile per me per entrare negli Hunger Games.
Non ho nemmeno la minima speranza di non venire scelta alla mietitura segreta. Se non parteciperò quest’anno, sarà il prossimo. Oggi ho il cinquanta percento di possibilità.
Gli allenatori sanno che, nonostante io odi combattere, nell’arena sarei così spaventata da uccidere gli altri tributi senza titubare.
Sono figlia di un’ex vincitrice, agli occhi degli spettatori sarei il tributo di bel aspetto, svitato e assetato di sangue che uccide non appena ne ha l’occasione. Gli sponsor mi favorirebbero senza dubbi.
Posso solamente ribellarmi, questo è quello che ho intenzione di fare. Non mi importa delle conseguenze, non ho intenzione di uccidere dei ragazzi che non mi hanno mai fatto nulla di male. Non voglio rendere orgogliosa mia madre e il mio distretto di una cosa così ignobile.   

Mia madre fa un giro attorno a me, controllando che ogni cosa sia al suo posto: la maglietta dentro i pantaloni, la felpa chiusa con cinque centimetri di apertura della zip, i pantaloni senza una piega, la coda alta e ordinata, senza un capello fuori posto, le scarpe allacciate alla perfezione.
Almeno oggi, se qualcosa del mio aspetto non è come dovrebbe essere,  non potrà punirmi come al solito: lascerebbe dei segni e il mio corpo dev’essere perfetto il giorno della mietitura segreta.
Finisce il controllo e si posiziona davanti a me.
Fissa i suoi occhi rossi nei miei. Li odio con tutta me stessa.
Dopo aver vinto gli Hunger Games se li è modificati chirurgicamente per renderli di questo colore: rossi come il sangue che, a quanto pare, l’ha macchiata durante tutti i giochi.
Senza dire una parola mi tira uno schiaffo in pieno viso.
Sento gli occhi lacrimare dal dolore, ma non faccio assolutamente nulla: nessun verso, nessuna esitazione. Non porto nemmeno la mia mano alla guancia: sarebbe segno di debolezza.
Noi futuri tributi dobbiamo vivere ogni giorno della nostra vita come se fossimo nell’arena: questa è la prima cosa che ci viene insegnata.
    ̶  Non osare piangere, stupida ragazzina  ̶  sibila rabbiosa. Ripercorro mentalmente tutto ciò che ho fatto quella mattina. Cosa c’è che non va nel mio aspetto?
Immediatamente capisco. Il braccialetto.
Ogni anno alla mietitura segreta tutti noi dobbiamo indossare un braccialetto speciale, sul quale è inciso il nostro nome. Rappresenta il nostro percorso di allenamenti. Se venissimo scelti dovremmo consegnarlo al Mentore Supremo, simboleggiando la fine dei nostri allenamenti e l’inizio del nostro vero lavoro: uccidere. 
La trovo una cosa così stupida...
    ̶  Scusi madre  ̶  rispondo, chinando la testa dalla vergogna. Lei mi afferra il viso con forza e mi costringe ad alzare lo sguardo.
    ̶  Oggi ti risparmio solamente perché devi essere perfetta durante la mietitura segreta, ma spera di venire scelta, altrimenti pagherai le conseguenze del tuo errore  ̶ . So che non scherza, e per una frazione di secondo mi ritrovo a sperare davvero di venire estratta oggi. Posso immaginare che tipo di punizione mi aspetta e al solo pensiero mi tremano le gambe.
Corro in camera mia, prendo il braccialetto, me lo allaccio al polso e torno dai miei genitori.
Mia madre mi afferra il polso per controllare che sia tutto a posto, poi mi prende per una spalla e mi spinge fuori dalla porta.

Così ci incamminiamo in silenzio verso la palestra.
Procediamo entrambe a testa alta, con lo stesso ritmo, come se da sole formassimo un piccolo esercito. La gente si allontana da noi, sembra quasi provare paura e,  nello stesso momento, ammirazione.
Odio vedere i loro occhi illuminarsi al nostro passaggio. Non siamo da ammirare, siamo da detestare. Io, personalmente, mi odio e odio mia madre. Odio non riuscire ad essere abbastanza forte da ribellarmi a lei.
Certo, a volte ci ho provato. La situazione, però, è sempre tornata come prima, l’unica differenza era qualche segno di frusta sulla mia schiena o dei lividi sul resto del corpo.
Vorrei poter guardare questa gente, parlare con loro, fargli capire come tutto ciò è terribilmente sbagliato. Fargli capire la gravità della situazione. Ma non lo faccio. Non l’ho mai fatto.
Arriviamo alla palestra e ci dividiamo: mia madre si unisce agli altri allenatori, io raggiungo gli allevi.
Non appena mi vedono, tutti si allontanano smettendo di parlare. Come biasimarli? Anche loro mi detestano. Sono la causa delle loro ferite peggiori, delle loro sconfitte e soprattutto, sono quella che impedirà a molte di loro di partecipare agli Hunger Games.
Non ho mai avuto amici, sono abituata a stare da sola. Durante gli allenamenti rimango isolata, gli unici momenti in cui interagisco con qualcuno sono quelli in cui combatto.

    ̶  Ciao Tiger! Emozionata?  ̶  ecco l’unico amico che io abbia mai avuto, l’unica persona che davvero tiene a me: Trevor Shark. Abbiamo fatto amicizia da bambini: mi aveva chiesto come mi chiamavo, e gli avevo spiegato che mia mamma non mi aveva mai dato un nome.
Perché avrebbe dovuto? Non ero nata per provare sentimenti o avere relazioni con qualcuno. Il mio nome sarebbe stato inutile: tutto quello che dovevo fare era combattere e imparare ad uccidere.
Non appena Trevor mi aveva vista all’azione mi aveva chiamata Tiger. Diceva che il mio modo felino di muovermi e la mia aggressività improvvisa gli ricordavano proprio una tigre bianca. Così, da quel giorno, ho avuto un nome.
Lui non mi ha mai guardata come se fossi un mostro o un ostacolo alla sua vittoria: è l’unico che mi conosce davvero, che sa quanto odio gli Hunger Games, che sa quanto io soffra a causa del mio istinto aggressivo e irreprimibile.
È il ragazzo più bravo qua dentro. Si chiama esattamente come il grande e famoso “Trevor Killer”, un ex vincitore. Aveva vinto la quinta edizione costruendo coltelli, tridenti, sciabole... tutto solamente con il ghiaccio che lo circondava. E così, nel giro di un paio di giorni, aveva ucciso i pochi sopravvissuti al freddo.
Ma quando guardo Trevor, non riesco a vedere un assassino in lui. Certo, quando deve combattere ce la mette tutta e diventa spesso spietato, ma lo fa solamente per sopravvivere.
Se durante gli allenamenti perdi un combattimento dovrai subire la tua punizione, questa è la regola. Io non ne ho mai ricevuta una di questo genere, ma le ho viste venire applicate. Ogni volta. Per colpa mia.
Combattevo, vincevo, assistevo alla punizione del mio avversario. Andava sempre così.
Avrei preferito subirle io, piuttosto che assistere, ma non c’è niente da fare. Il mio corpo agisce da solo, non riesco a controllarlo, e prima che me ne renda conto ho sconfitto un altro allievo.
Trevor è l’unico che mi sta affianco.  
Tutti gli allenatori lo ammirano per il suo coraggio, la sua ferocia, ma so che quella è solamente una maschera. È l’unico ragazzo davvero buono che io conosca. L’unico che fa in modo che io abbia ancora un po’ di speranza.

Ci mettiamo tutti in fila, uno accanto all’altro: maschi a destra, femmine a sinistra.
I cinque allenatori (tutti ex vincitori) si posizionano davanti a noi. Il mentore supremo sta al centro. Sarà lui ad assistere chi di noi parteciperà agli Hunger Games. È il vincitore più giovane, ma dal viso sembra molto più vecchio: nell’arena aveva rischiato la vita, lo testimoniano i profondi tagli che ha in viso (e che non ha mai voluto farsi togliere).
Mi sporgo per lanciare un’occhiata a Trevor. Non è difficile trovarlo: è il più alto di tutti. Mi rivolge un sorriso esaltato, ma so che dentro di sé vorrebbe urlare e scappare via. Come me, anche lui odia tutto questo, solo che riesce a nascondere i suoi sentimenti. Indossa una maschera da quando è nato. Lui, al contrario di me, riesce a mentire perfettamente.
I suoi occhi neri, infatti, non splendono. Non splendono mai, quando siamo nella palestra. Come potrebbero? Questo posto è così buio e tetro: è una stanza enorme, il cui unico arredamento sono armi di ogni genere e manichini per l’addestramento (anche se non vengono quasi mai usata: la pratica si fa sugli allievi, in modo che imparino a sopportare il dolore).
Una terrazza sporge verso l’interno, proiettando la sua ombra inquietante. È lì che sta il mentore supremo durante la giornata, in modo da poterci studiare uno a uno. Quel posto è riservato solamente al vincitore più recente. Mia madre dice sempre che stare là sopra dona una sensazione di supremazia invincibile e che vedere il sangue versato da quella posizione è eccitante. Il mio primo giorno di allenamenti lei mi ha indicato la terrazza dicendomi “è lì che starai tu, un giorno”. Le rivolgo un’occhiata e sospiro.
Sembra quasi di respirare il dolore, l’odio, la sofferenza, il sangue che riempie la stanza.
Trevor, intanto, si impegna in una delle sue famose imitazioni di Wade , il mentore supremo, accartocciandosi la faccia fino a formare tutte le rughe possibili. Non appena Wade inizia a parlare, riassume la sua espressione seria e dura, da vero guerriero.
Io non posso fare a meno di trattenere una risata, sperando che nessuno mi veda. Rischierei molto grosso e so di avere gli occhi di mia madre fissi su di me.
La osservo e mi fa l’occhiolino, sicura di sé, sorridente e, per la prima volta, davvero orgogliosa.
Sento un macigno piombare sul mio petto. Non riesco nemmeno a respirare.
Questo vuol dire che ho una probabilità di venire scelta più alta di quanto immaginassi. Mi viene da piangere e urlare al solo pensiero. Il panico mi attanaglia lo stomaco.
Il mentore supremo fa un passo avanti e attira l’attenzione su di sé. Punto il mio sguardo su di lui e attendo il verdetto finale.


Che la mietitura segreta abbia inizio. 






Angolo Autrice:

*Saluto del distretto 12* 
Ciao a tutti tributi!
Eccomi finalmente con la mia prima ff in assoluto *-* (ehm ehm, sono leggermente emozionata).
Come avrete capito anche voi (ovvio che hanno capito, Dridri, non sono mica scemi come te) la ff è su personaggi inventati eh, beh, non vi dico niente altrimenti vi rovino i prossimi capitoli (sempre che qualcuno consideri questa storia HAHA :D )
Essendo il primo capitolo  non so proprio che dire, se non che spero che la storia vi piaccia e vi appassioni! :D 
Se vi va lasciate una recensione, che per me è sempre un piacere leggere cosa ne pensate di quello che scrivo (sì, anche se sono critiche, dopotutto aiutano a migliorare u.u e io non sono il Dio della scrittura, quindi... )
Che dire, è da tempo che voglio pubblicare questa storia, è da mesi che la progetto, quindi spero davvero che piaccia e che il mio lavoro dia i suoi frutti *dita incrociate*

Prima di iniziare a scrivere tutto quello che mi passi per la testa e annoiarvi a morte (come mi succede ogni santa volta) vi lascio andare :D  
Grazie per aver letto questo capitolo *abbraccio virtuale da forever alone* :D 
E may the odds be ever in your favor (che non fa mai male u.u)

DriDri

  
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