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Autore: ScleratissimaGiu    27/05/2013    1 recensioni
Samantha è stata assunta nello studio legale Benson&Clarks per le sue ottime referenze, ma il suo egocentrismo e la sua arroganza con uno dei suoi colleghi, William, stanno esasperando proprio il diretto interessato.
Stufo del suo comportamento, egli convincerà il suo capo ad affidarle un caso senza speranza: far uscire Charles Manson, lo spietato killer che terrorizzò gli USA, dal carcere e mandarlo agli arresti domociliari.
Tratto da una storia vera.
Genere: Generale, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando compii ventidue anni, venni assunta nello studio legale dove lavorava mia madre, il “Benson&Clarks”, il migliore di tutta Los Angeles.
Ero giovane, ambiziosa e… beh, ammetto che non mi mancava certo una dose generosa di arroganza, ma credo che, dopo la mia prima esperienza, l’ho gettata tutta via.
Il mio nome è Samantha Wilson, vivo nel 2013 a Los Angeles, in una bella casa che mi sono comprata con i soldi delle cause.
La mia storia, comunque, inizia nel novembre del 2011, quando misi piede per la prima volta nella lussuosa hall dello studio legale, accolta dal sorriso speranzoso di mia madre Sophie, che mi accompagnò fino al quinto piano, dove lavorava lei.
- Andrà benissimo, - mi disse, mentre l’ascensore saliva.
Annuii, pensando solo a quello che mi aveva detto mio padre: “Rendimi fiero. E quando esci, chiudi la porta”.
Poche parole, chiare ed autorevoli: mi bastavano solo quelle.
Anzi, era già una conquista che mi avesse detto qualcosa.
Era sempre stato taciturno, papà; amorevole un secondo, detestabile quello dopo… ma gli volevo bene.
E molto.
Le porte si aprirono sull’ampia sala d’accettazione, dallo splendente pavimento di marmo nero ed eleganti mobili di legno scuro.
La vista dalla vetrata che correva lungo tutta la parete sinistra era una spettacolare veduta su LA, spezzata dalle poche scrivanie delle segretarie.
Mia madre si diresse verso l’ultima in fondo, dove una signora cinquantenne dai capelli biondo miele striati di una lieve nota di bianco stava firmando qualche foglio.
- Pam, - la chiamò mia madre, e la donna alzò i suoi occhi verdi su di noi, lasciando perdere le scartoffie di cui si stava occupando.
- Sì?
La sua voce era fresca, quella di una che ha davvero voglia di fare qualcosa per te.
- Questa è mia figlia, Samantha - le spiegò mia madre, con voce orgogliosa e un sorriso soddisfatto - chiamaci Crossway.
Pam prese in mano il telefono e parlottò per qualche secondo, dunque tornò a guardarmi e mi sorrise.
- Benvenuta, - mi disse.
- Grazie… - le risposi, ricambiando il suo sorriso caloroso.
- Philip!
Mia madre si era voltata, ed io la imitai, rendendomi conto che due uomini si stavano avvicinando a noi.
Uno era più alto, giudicai avesse una trentina d’anni, vestito elegantemente di blu con una cravatta rossa sulla camicia bianca; il suo compagno era più basso, doveva avere pochi anni più di Pam, e a differenza dell’altro portava un completo nero con cravatta nera, anche se indossava una camicia bianca anche lui.
- Sophie, - salutò mia madre, stringendole la mano - tua figlia, immagino - riprese, guardandomi.
- Samantha Wilson, - mi presentai, allungando la mia mano, che lui, da perfetto gentleman, baciò.
- Uno dei suoi colleghi, William Cooper, coordinatore dei clienti interni di tutta la California - presentò l’uomo ritto immobile di fianco a lui, uno sguardo sospettoso e indagatore puntato su di me.
- Piacere - continuò per lui Cooper, rimanendo fermo.
Stirai le labbra in un sorriso quasi impercettibile, e tornai a concentrarmi sul capo.
- Come le sembra il posto? - mi chiese Crossway, avviandosi nuovamente per la via da dove era arrivato.
Io, mia madre e Cooper lo seguimmo a ruota.
- Elegante, molto - risposi sinceramente.
Rise, battendo le mani.
- Ti abituerai presto, - disse - anche perché sarai spesso in aula o dai clienti… ti abbiamo assunta per le tue ottime referenze.
Stavolta sorrisi davvero, gettando un’occhiata fugace al mio nuovo collega, che alzò gli occhi al cielo, in evidente espressione di scocciatura.
Sia io che il capo facemmo finta di nulla e continuammo a camminare.
- Qui c’è il tuo ufficio, - mi spiegò, fermandosi davanti ad una porta di legno con una targhetta dorata a cui mancava il nome.
- Il tuo compito, da adesso in avanti, sarà di coordinare i clienti di Los Angeles: le cause ti verrano assegnate direttamente da Pam, a cui le avrò passate personalmente. Ti chiamerà lei se ci sono novità o qualsiasi notizia importante o degna di nota, e per chiamarla tu basta digitare il numero uno dal telefono del tuo ufficio.
- Signor Crossway, credo che noi dovremmo proprio andare… - lo interruppe Cooper, battendogli leggermente sulla spalla sinistra.
- Certo, certo Cooper, non preoccuparti.  Allora, a dopo, signorina Wilson.
Sorrisi, e i due si allontanarono, lasciando me e mia madre libere di esplorare il mio nuovo posto di lavoro.
L’ufficio era grande e spazioso; una finestra correva per tutta la parete destra, e si poteva vedere, in lontananza, la sagoma dello Staples Center.
La scrivania si trovava direttamente davanti alla porta, ed era di mogano pregiato, proprio come la libreria della parete sinistra, che traboccava di libri.
Una tv al plasma era posta proprio sulla parete difronte alla scrivania, ed era così grande che sarebbe stato praticamente inutile utilizzare i due divanetti che erano posizionati lì vicino.
-  È anche più bello del mio, - osservò mia madre, sedendosi su quello di sinistra, in modo da osservare meglio il panorama.
Andai a tastare le tende rosse; erano di pura seta.
- Adoro tutto questo, - mormorai, avvicinandomi alla libreria.
I volumi erano principalmente di legge, quali il codice penale e quello civile, ma c’erano anche molti saggi, la raccolta completa delle opere di Nietzsche, di Seneca, di Freud e dizionari di francese, italiano, inglese e spagnolo.
- Devi piacergli molto, - continuò mia madre, andando a prendere la bottiglia di champagne che era stata posta nel porta-vivande vicino all’angolo tra la finestra e la scrivania - per averti messo su un posto così.  Mince! C’est un Dom Perignon!
Detestavo quando mia madre parlava in francese.
Certo, sapevo parlarlo anche io e la capivo, ma non credo che per dire “Caspita! È un Dom Perignon!” ci sia bisogno assoluto del francese.
Si può usare tranquillamente la propria lingua.
- Davvero? - le risposi, con poco interesse.
- Sì.
Si era accorta del suo errore.
Mia madre era di Montrèal, e spesso e volentieri, quand’ero più piccola, a casa mi parlava in francese.
All’inizio ero contenta, ma poi mio padre mi mise in testa che bisognava parlare solo la propria lingua in casa, e così decisi che, se proprio volevo imparare il francese, avrei frequentato un corso e fatto smettere anche a mia madre di parlarlo in casa.
Solo che, ogni tanto, lei si dimenticava di questa nostra piccola regola.
Ma io no.
Io non potevo dimenticarmene.



Angolino dell'autrice ^-^

salve gente! 
sono contenta che siate arrivati fin qui, e conto di postare i prossimi capitoli in giornata o comunque entro la fine della settimana.
ricordate che comunque critiche, negative, positive oppure neutre, sono sempre gradite!
alla prossima!
  
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