Premessa; questa storia è una what if? E
di conseguenza non segue l’elenco cronologico degli eventi che si sono
verificati dopo l’episodio 2x21. In poche parole, Klaus è partito da Mystic Falls
senza Stefan e né lui, né i fratelli, ci hanno fatto ritorno. Le uniche cose
che coincidono con gli eventi della terza e la quarta stagione sono la
gravidanza di Hayley (ep.
4x20) e un accenno al primo tentativo di Klaus di formare un esercito di ibridi,
andato in fumo perché gli mancava il sangue della doppelgänger (inizio terza stagione).
Buona lettura!
Partecipa al 500themes_ita con il prompt #257. Addormentarsi all’alba.
La storia è stata betata da May_Z
.
Counting Soldiers.
Out of the night
that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
[Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da
un polo all'altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l'indomabile anima mia]
Quando Kol Mikaelson riuscì finalmente ad allontanarsi da casa di
nascosto, il cielo stava incominciando ad annerirsi. Aveva atteso fino
all’ultimo per uscire, assicurandosi di infrangere in una volta sola tutte le
regole imposte dai suoi familiari. Era quello il suo gioco preferito: sfidare
gli adulti, sondare i limiti che ‘i grandi’ erano soliti tracciargli attorno.
Rincorse per i prati il frinire
ripetitivo dei grilli, dirigendosi verso il vecchio pozzo. A Niklaus
non piaceva che i suoi fratelli vagabondassero per quella zona. Il pozzo era il
protagonista indiscusso dei suoi giochi, il custode dei pomeriggi che gli
capitava di voler trascorrere in astio o in solitudine: ne era geloso. In
casa se ne stava spesso zitto, ma quando sedeva a cavalcioni su quel pozzo, qualcosa
in lui cambiava: il suo sguardo si faceva fiero e, con voce esile, il ragazzino
incominciava a raccontare di eserciti, sudditi e compagni fedeli. ‘Un giorno’,
diceva spesso, ‘un giorno sarò più potente di un re’. A Kol, invece,
di essere re importava ben poco. Preferiva divertirsi e giocare a guardie e
ladri con i divieti, godendosi la libertà che lo avvolgeva sfuggendo alla loro
presa.
Una volta giunto al pozzo, il ragazzino
vi si arrampicò sopra e lasciò penzolare le gambe nel vuoto. Sorrise
malandrino, sfilando dalla cintola legata alla veste un sacchetto di tela:
conteneva un pugno di sassolini. Li aveva raccolti durante il giorno, fra
qualche corsa e un’azzuffata in piena regola con uno dei suoi fratelli. Quei
sassolini gli avevano tenuto compagnia durante le sue scorribande diurne:
per Kol ogni pietruzza rappresentava un
soldato, un compagno d’armi temerario come lui, caduto in battaglia durante uno
scontro all’ultimo sangue contro un temibile nemico immaginario. Sorridendo, il
ragazzino prese un sasso e lo gettò nel pozzo. Il buio stava inghiottendo il
suo sguardo, ma si sentiva a suo agio in quella morsa: la notte gli era amica,
tranne quando giungeva il momento di addormentarsi. Kol detestava
dormire; trovava il silenzio noioso. Spesso, a notte fonda, si alzava dal letto
per andare a infastidire sua sorella. Le tirava i capelli e le sdruciva la
veste, fino a quando qualcuno non interveniva per separarli, destato dagli
strilli isterici di Rebekah. Quella sera, tuttavia, Kol aveva
un piano: voleva contare tutti i suoi sassi, e gettarli uno a uno nel pozzo.
Era convinto che avrebbe di sicuro preso sonno, se solo fosse riuscito
nell’impresa di lanciarli tutti.
Fece cadere una seconda pietruzza nel
vuoto e, subito dopo, una terza. Si fermò solo quando udì dei passi rapidi venirgli
incontro. In quel momento il ragazzino avvertì il tocco gentile, ma deciso, di
una mano che gli fasciava una spalla.
“Sei qui, Kol.”
Elijah aveva stretto appena le labbra,
nel riconoscere il fratellino accovacciato sul pozzo. Si era avvicinato
lentamente per paura che, cogliendolo di sorpresa, Kol avrebbe
potuto sbilanciarsi e cadere. “Non devi allontanarti così, quando è sera: hai
fatto preoccupare nostra madre.”
“Stare a casa è noioso,
quando fa buio” commentò il bambino in risposta. Balzò a terra, le dita esili
ancora arricciate attorno al sacchetto di tela. Infine acconsentì a seguire il
fratello, seppur scorrazzando via un paio di volte, ridendo della fatica di
Elijah nello stargli dietro.
Una volta a casa sfuggì ai rimproveri
dei genitori fiondandosi di corsa a letto; come sempre il sonno tardò ad arrivare,
e il troppo silenzio lo indusse a rigirarsi irrequieto fra le coperte. Diede la
colpa di quel problema ai suoi sassolini, non essendo riuscito a gettarli tutti
nel pozzo. Doveva ancora gettarne dentro diversi, prima di poter finalmente riuscire ad
addormentarsi.
Durante i giorni successivi, Kol raccolse altri sassi. Si recava al pozzo ogni
sera, ma veniva sempre trovato prima che potesse fare in tempo a liberarsi
anche dell’ultima pietruzza. La notte, non riuscendo a prendere
sonno, si divertiva a svuotare sul letto il contenuto del suo
sacchetto di tela. Contava i suoi sassi, i suoi soldati, fino a quando la stanchezza non
iniziava a stropicciare i suoi occhi assonnati. Si addormentava all’alba,
cullato dalle prime luci del mattino: nei sogni, tuttavia, attendeva irrequieto
il sorgere di un nuovo giorno, il momento in cui avrebbe fatto il verso al
silenzio della notte, tornando a testa alta sul suo campo di
battaglia.
In the fell clutch of
circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
[Nella feroce morsa delle circostanze
non
mi sono tirato indietro né ho gridato per l'angoscia.
Sotto i colpi d'ascia della sorte
il mio capo
è sanguinante, ma indomito.]
“Questa situazione sta incominciando a
seccarmi, Kol.”
Niklaus scrutò con aria guardinga
la dozzina di persone intente a parlottare tra loro al centro
dell’accampamento. “Abbi rispetto per i piani di tuo fratello maggiore.”
In seguito al rituale tenutosi a Mystic
Falls, dopo essersi liberato della maledizione che manteneva assopita la sua
parte lupesca, Klaus era riuscito a rintracciare un primo branco, in Tennessee:
aveva ucciso tutti i suoi membri, dal primo all’ultimo, fornendo loro il suo
sangue per trasformarli in ibridi. Qualcosa era andato storto, tuttavia. I suoi
uomini non avevano mai completato la transizione. Erano morti due volte,
contribuendo ad estinguere un gruppo di creature già di per sé poco folto.
Seccato e in preda alla rabbia, Niklaus aveva trovato un secondo branco,
questa volta in Florida: si era imposto ad esso come alpha, in attesa di scoprire
quale fosse la crepa nel suo progetto e di dare forma al suo esercito personale
di ibridi. L’accampamento del branco ospitava un via vai continuo di
persone di ogni età. Più che un gruppo di lupi, ricordava un villaggio:
una comunità. Persone che avevano scelto di crescere la propria famiglia
abbracciando la seconda natura lupesca che li caratterizzava. All’accampamento
non c’era bisogno di mascherare ciò che distingueva il lupo dall’uomo – la
diversità era un tratto condiviso.
“Pugnalare i propri fratelli alle
spalle, invece, sarebbe indice di rispetto” ironizzò Kol,
in tono di voce tagliente. A causa di Klaus aveva trascorso l’ultimo
secolo intrappolato nel silenzio di una bara; da un paio di settimane aveva
localizzato e raggiunto il fratello maggiore e, per noia o per vendetta, aveva
preso a intralciare i suoi piani, accanendosi contro gli abitanti del branco.
Il suo soggiorno all’accampamento aveva prodotto fino a quel momento una
manciata di morti, persone torturate e decine di membri del branco soggiogati
per farsi del male l’un l’altro. Klaus si era trovato più volte a scontrarsi
con il fratello, a causa delle sue bravate ai danni di quella gente. Le loro
discussioni si erano ripetute più volte, nel corso dell’ultima settimana.
Parlavano di numeri, di danni all'unità del branco. Il valore umano delle
perdite interessava ben poco all’ibrido. Quando si è eterni, si impara presto a
misurare il proprio mondo in termini di guadagno e perdita, come in un’attività
commerciale. Come in una guerra.
“Hai avuto la tua vendetta” commentò
asciutto Niklaus, voltandosi verso il fratello. “Adesso puoi anche tornartene a
New Orleans.”
“Trovo stupida la tua ossessione nei
confronti di questa gente” dichiarò Kol, dando
le spalle agli abitanti dell’accampamento. “Dovresti cacciarli, non
circondartene. Hai dimenticato cosa hanno fatto quelli come loro a nostro
fratello Henrick?”
La conversazione dei due vampiri venne
interrotta da un grido improvviso. Klaus sembrò farci a mala pena caso,
ma Kol si voltò, attirato da quell’urlo. Il
suo sguardo si posò su un moccioso appoggiato a un albero, con le braccia
strette al corpo; aveva un’espressione di puro terrore dipinta in viso che, con
gran sorpresa di Kol, si trasformò in una risata
quasi subito, per poi ripresentarsi assieme a un secondo grido.
Questa volta, tuttavia, il vampiro riuscì a individuare il motivo di tutte
quelle urla. C’era una ragazza, a una quindicina di metri di distanza da lui:
aveva un pugno di coltelli in mano. In quel momento ne stava lanciando uno
contro l’albero, ma un primo e un secondo avevano già
centrato il tronco, a pochi centimetri di distanza dalle orecchie del bambino.
In poco tempo fu possibile individuare una decina di lame incastrate nella
corteccia dell’albero: il ragazzino era rimasto immobile, mentre uno sciame di
coltelli tracciava il suo profilo, senza mai scalfire la sua pelle. Con il
fiato corto, il bambino si allontanò dal tronco e raccolse i
coltelli, correndo poi verso la ragazza: tornò indietro e il gioco
ricominciò. Kol osservò incuriosito quella
scena per qualche minuto, un sorriso sornione ad arricciare gli angoli delle
sue labbra.
“Puoi prenderti un giorno di ferie dal
pascolo, Nik” schernì a quel punto il fratello,
incominciando a incamminarsi verso il gruppetto di lupi. “Cercherò
di limitare i danni alle tue pecore.”
Niklaus gli rivolse un’occhiata truce.
“È la cosa migliore da fare per
te, Kol, se non intendi tornare al
sonnellino nella tua bara” lo minacciò, prima di allontanarsi verso
una delle tende; il fratello sembrava aver trovato una fonte di
distrazione sufficientemente ampia, da permettergli di lasciare il
branco incustodito per qualche ora.
Kol tornò a voltarsi verso i membri del branco
sparpagliati per la radura: si accorse che una donna aveva iniziato a inveire
contro la lanciatrice di coltelli. Afferrò la mano del moccioso, che non
sembrava affatto intenzionato a porre termine al suo gioco.
“Lasciami!” stava gridando il
ragazzino, divincolandosi come una piccola bestia, “Voglio giocare
ancora, non mi farò niente! Kayla non sbaglia mai!”
“Muoviti, Adam” gli intimò la donna,
continuando a trascinare il bambino per la mano.
“Ti occorre un nuovo bersaglio?” chiese
in quel momento Kol, avvicinandosi alla
lanciatrice di coltelli. La ragazza di nome Kayla si voltò verso di
lui. Prese a scrutarlo con aria attenta: aveva uno sguardo lupesco,
accentuato dalla fierezza incisa nei suoi occhi chiari. Non c’era bisogno di
domandarsi se avesse o meno attivato il gene della licantropia. La precisione
dei suoi tiri e la fluidità dei movimenti erano già stati in grado di
sciogliergli quel dubbio.
“Un vampiro” osservò la
giovane, continuando a squadrarlo per nulla impressionata. “L’antico male che è
giunto a trafiggere il branco” aggiunse, distogliendo la sua
attenzione da lui e riprendendo a lanciare i suoi coltelli contro l’albero. Il
giovane sorrise tronfio.
“In persona” ammise, con un guizzo
divertito nello sguardo. “Kol Mikaelson” si presentò poi, sfilando uno dei coltelli dalla
mano della ragazza. Kayla tentò di riappropriarsene, ma il vampiro glielo
impedì. Allontanò il coltello dalla sua presa e iniziò a far scorrere le dita
lungo la lama, sorridendo divertito. La giovane lo scrutò impassibile.
“Che cosa cerchi, Kol Mikaelson?” domandò
decisa, avvicinandosi all’albero per raccogliere le armi ancora
incastonate nel legno. Il vampiro diede una scrollata di spalle.
“Qualcosa che mi intrattenga” spiegò, rigirandosi il
coltello tra le mani. “Il divertimento sembra passato di moda da queste
parti.”
“Allora vattene” consigliò schietta la giovane, tornando indietro verso di
lui. Kol accennò un sorrisetto sornione.
“Non così presto, ragazza lupo” commentò,
osservandola con interesse, mentre tornava a scagliare i suoi coltelli contro
l’albero. “Questo posto sarà anche un mortorio, ma a me piacciono le
sfide.”
Kayla sembrò rimuginare su qualcosa,
mentre i coltelli continuavano a volare a mezzaria. Infine, si fermò.
“Allora ti sfido” annunciò infine.
“Dieci coltelli a testa. Chi si avvicina più volte al bersaglio, senza
colpirlo, vince.”
Un luccichio di interesse si fece
strada nello sguardo del vampiro.
“Accetto” dichiarò, porgendole il
coltello. “Prima le donne” si offrì poi, guardarsi
divertito attorno. Da quando aveva raggiunto il centro della
radura il gruppetto di persone si era diradato, trattenendo solo qualche
ragazzino sfuggito al controllo della madre e un paio di temerari e orgogliosi
lupi adulti. “Chi è il bersaglio?” domandò infine Kol,
godendosi l’espressione atterrita del ragazzino che lo stava fissando. Kayla
gli rivolse un’occhiata di sfida.
“Sei tu” rivelò decisa, facendogli cenno
di raggiungere l’albero. Il vampiro le rivolse un’occhiata vagamente
incuriosita, prima che il divertimento tornasse ad accendersi nel suo sguardo.
Si avvicinò lentamente al tronco e vi ci appoggiò contro la nuca, incrociando
le braccia al petto. Il primo coltello gli passò vicino all’orecchio, quasi
sfiorandolo. I presenti trattenerono il fiato, intimoriti. Chiunque, al branco,
sapeva che Kayla non sbagliava mai un colpo; eppure, permaneva la paura che uno
dei suoi coltelli potesse virare bruscamente, suscitando l’ira del vampiro Originario, l’antico male che è giunto a trafiggere il
branco. Kol sorrise tra sé, mentre un
secondo coltello correva a conficcarsi nella corteccia, a un soffio dal suo
orecchio destro. Quel posto lo faceva ridere: quella gente, lo faceva ridere.
Per lui non erano nulla: nulla di più che un manipolo di corpi caldi, animati
da un cuore che ancora batteva. Non erano niente se non un pasto, cibo con cui
si saziava per distrarsi dall’ambiente tedioso di quell’accampamento; non erano
altro che sassi, soldati da contare prima che arrivasse l’alba, per potersi
addormentare senza indugio. Proprio come quando era bambino.
Quella ragazza, tuttavia, era un
coltello. Il suo sorriso affilato lo stuzzicava, senza mai rimanergli
incagliato sotto-pelle. Kol aveva trovato
qualcosa con cui divertirsi, che lo trattenesse abbastanza a lungo, prima di
riprendere a vagabondare senza meta, a discapito delle regole.
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Erano trascorsi ormai diversi mesi
dall’arrivo dei due Originari all’accampamento. La loro presenza, per i membri
del branco, era diventata un’abitudine, quell’abitudine che si è
costretti ad assimilare per sopravvivere, senza mai accettarla. Kol, al contrario di Klaus, non si faceva vedere
spesso. Viaggiava molto, accontentando il suo bisogno di distrazioni continue.
Aveva sete di luci accese, musica assordante e sangue di sconosciuti
– cose che non poteva ottenere restandosene a bighellonare in una foresta della
Florida. Viaggiò di città in città, da solo o con i fratelli; talvolta si
affidava alle tribù nomadi di streghe che ancora vagavano per gli Stati Uniti.
Nonostante i suoi viaggi, tornava spesso all’accampamento.
Tornava per Kayla e per i suoi
coltelli. Le piaceva raccontarle della vita notturna nelle grandi città. Del
chiacchiericcio vibrante che echeggiava anche con il buio tra le
strade cariche di passanti, nelle mete turistiche di gran fama. Gli parlava dei
cacciatori di vampiri, una macchia in crescita nelle grandi metropoli,
specialmente New Orleans. A Kol piaceva
scovarli. Li sbeffeggiava, rivelando la propria natura per poi dare
forma a inseguimenti che potevano durare anche ore, ma che terminavano sempre
con i loro corpi freddi intinti in una pozza rossa e le mani insanguinate del
vampiro.
Kayla ascoltava in silenzio, il solito
sorriso affilato ad arricciarle gli angoli delle labbra. Le parole dell’Originario
erano spesso mescolate al suono dei coltelli che dilaniavano la
corteccia di un albero. Più volte erano finiti a fare l’amore mentre le lame
vibravano ancora nell’aria, sferzandola affilati. Più volte erano rimasti
feriti, pur di sfidarsi e sfiorarsi al tempo stesso – incapaci di decidere
quale delle due cose bramassero maggiormente. Erano ferite lievi, superficiali,
che si rimarginavano in una spolverata di secondi. Non facevano male. Il tempo
per soffrire li aveva abbandonati da tempo: anni, per Kayla. Secoli per Kol. Avevano sostituito il dolore con emozioni più alla
loro portata: adrenalina, divertimento. Curiosità.
“Pensi mai alla morte?” domandò una
sera la ragazza, voltandosi verso di lui; la notte aveva iniziato ad arrampicarsi
nel cielo, nascondendo alle stelle i corpi nudi dei due ragazzi distesi sull’erba.
“Qualche volta” rispose Kol, appoggiandosi su un gomito. “Per un vampiro la morte è
come una vecchia superstizione. Puoi decidere di temerla o fregartene e
ridere di chi sceglie di preoccuparsene.”
Kayla non ebbe bisogno di domandargli
quale delle due alternative avesse scelto.
“La morte non mi spaventa” dichiarò
invece, sollevando lo sguardo verso l’alto, per poter osservare il cielo. “È
morire, che mi fa paura.”
Il vampiro le rivolse un’occhiata
scettica.
“C’è differenza?”
Kayla diede una scrollata di spalle.
“La morte coinvolge solo te. Morire,
invece, implica un addio” spiegò. Nella sua espressione
generalmente imperturbabile, Kol riuscì a
individuare un barlume di amarezza, mista a malinconia. “Mi spaventa di più il
pensiero di abbandonare il branco e mio fratello, che quello di essere morta.
Ogni tanto, la notte, resto sveglia a pensarci” rivelò infine.
Kol rifletté
sulle parole della ragazza, trovandosi in disaccordo. Aveva vissuto per mille
anni e aveva conosciuto un numero di persone sufficiente a popolare due volte la
Florida; molte di esse erano morte. Eppure non gli importava poi molto di dire
addio, né di essere rimpianto. Ciò che temeva della morte era il pensiero
stesso di cessare di esistere; temeva il nulla, l’immobilità totale. Perfino da
umano, l’assenza di svago era sempre stata il suo inferno personale; una volta
vampiro, quell’aspetto di sé non aveva fatto altro che esasperarsi, inducendolo
a rifiutare persino le ore di sonno.
“Cosa fai quando non riesci a dormire?”
domandò improvvisamente, sollevandosi a sedere. Kayla sorrise.
“Incomincio a contare” rispose,
riprendendo ad osservare il cielo. “I miei coltelli, gli abitanti
del branco. Le stelle.”
Poche ore più tardi Kol aveva già abbandonato l’accampamento, impaziente
di tornare ai suoi viaggi. Gli piaceva spostarsi di notte; dilatava le sue ore
di veglia, a discapito del sonno. Lungo il cammino verso Tallahassee si sorprese a pensare più volte alle parole di Kayla: le
avevano ricordato i sassi che, da bambino, lasciava scivolare nel pozzo ogni
sera. Da quando era morto gli capitava spesso di incappare in rituali simili a
quelli di Kayla o del se stesso bambino: Kol non
contava le stelle, ma i soldati, i cadaveri abbandonati sul suo campo di
battaglia nel corso dei suoi mille anni di esistenza. Il primo corpo
apparteneva a qualcuno che non aveva mai conosciuto: era un fratello che aveva
perso prima ancora di nascere. Il secondo soldato era Henrick.
Andava avanti a contare per sequenze interminabili di minuti, fino a quando la
noia non lo sfiniva.
Quella sera, durante il tragitto verso la metropoli, ripensò più volte
anche agli ultimi scambi di battute che aveva avuto con Kayla.
“Vieni con me” le aveva proposto,
osservandola riporre con cura i suoi coltelli. “Esistono bersagli più sfiziosi
degli alberi e di questa gente.”
Kayla aveva reclinato il suo invito,
limitandosi a un cenno deciso del capo.
“Non sono nata all’accampamento, Kol” aveva aggiunto poco dopo la ragazza. “Ho
scelto io di unirmi al branco ed è qui che intendo restare.”
Quella sera fu l’ultima che Kol trascorse assieme a Kayla. La ragazza morì un mese
più tardi, in seguito a un’imboscata di un gruppo di cacciatori. Per ironia
della sorte, a immobilizzarla a un albero fu proprio una lama tagliente,
imbevuta di strozzalupo.
Kayla non pensò alla morte, quando se
la trovò di fronte agli occhi: la sua mente era troppo occupata a immaginare
che da qualche parte, in giro per il continente, esisteva un vampiro che si
divertiva a dare la caccia ai cacciatori; se Kol Mikaelson fosse stato lì in quel momento, aveva
pensato fra sé con un sorriso, si sarebbe divertito alla grande. Fu quel
pensiero a rammaricarla più di tutto, mentre il cuore le veniva strappato via
dal petto.
Con la sua morte, Kol ebbe un soldato in più da contare durante i suoi
vagabondaggi notturni alla ricerca del sonno: Kayla era l’ennesimo sassolino da
raccogliere nel suo sacchetto di tela. Un sasso affilato come la lama un
coltello.
Beyond this place of wrath and
tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid
[Oltre questo luogo d'ira e
di lacrime
Si profila il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.]
In seguito all’attacco dei
cacciatori,Kol non tornò più
all’accampamento: non c’era più nulla che lo attirasse di quel posto, nemmeno
il pensiero di divertirsi a spese dei membri del branco. Dopo la
morte di Kayla si era concesso ventiquattr’ore di lutto; per un giorno aveva
ucciso e torturato mosso solo dalla rabbia, evitando di agire per noia o puro
sfizio. Riuscì senza sforzo a rintracciare il gruppo di cacciatori colpevoli
del massacro all’accampamento: li sterminò uno a uno e lo fece al suono dei
coltelli, martoriando la loro carne con le lame.
E poi, così come si era presentato, il
dolore si affievolì. Kol lo spinse da
parte, come aveva imparato a fare ormai da anni, e tornò
a New Orleans dove i fratelli si erano ristabiliti da qualche mese. Klaus aveva
abbandonato il branco in Florida poco dopo l’attacco dei cacciatori, ma i lupi
avevano continuato a segnare la sua esistenza: si era portato a letto una
licantropa, Hayley, e la ragazza era rimasta
incinta.
Quando Elijah gli disse del
bambino, Kol non poté fare altro che
scoppiare a ridere di gusto. In circostanze normali avrebbe probabilmente colto
l’occasione per fuggire all’ennesimo dei suoi vagabondaggi, ma quella volta
decise di restare: voleva godersi l’esasperazione del fratello – pronto a
scommettere su quanto avrebbe resistito prima di liberarsi del bambino, in un
modo o nell’altro.
In quel particolare pomeriggio di
settembre erano ormai trascorsi quattordici anni dal giorno della sua nascita:
Corey Mikaelson, che in quel momento se ne stava
appiccicato con la schiena a un armadio, non ne dimostrava tuttavia più di sei
o sette. Era identico al padre dal bambino – biondo, mingherlino e silenzioso –
ma aveva ereditato l’impazienza di Kol e la
sua insofferenza nei confronti delle regole. Fortunatamente per lui, il minore
dei fratelli Mikaelson riusciva sempre a trovare
dei buoni metodi per intrattenerlo.
“Resta fermo così” ordinò il vampiro,
sollevando il coltello. Corey si limitò a ricambiare serioso il suo sguardo,
non osando muoversi nemmeno per annuire: nonostante crescesse
praticamente di un anno ogni due, sembrava imparare in fretta.
La prima lama andò a conficcarsi nel
legno dell’armadio, appena un centimetro scarso sopra la testa del bambino.
Corey non emise alcuno strillo, né diede segno di essersi in qualche modo
spaventato. Un sorriso increspò le labbra di Kol,
mentre il vampiro lanciava il secondo coltello; suo nipote era un moccioso
strano, ma non era quello a farlo sorridere. In mille anni di vagabondaggio a
zonzo per il globo, aveva incontrato solo un’altra persona in grado di rimanere
così immobile di fronte a una pioggia di coltelli. Ripensò a lei, e il suo sorriso si estese, ma
assunse una sfumatura amara. Rifletté sul fatto che ogni giorno gli
esseri umani affrontavano innumerevoli sfide per restare in vita. Per chi
è immortale, invece, la vita su un campo di battaglia incomincia a pesare solo
all’ultimo, quando si è soli. Quando si è stanchi perfino di giocare senza
regole. E in quei momenti, con la mano della solitudine sulla spalla, per noia,
per passare il tempo, si comincia a contare i morti. Un sasso per ogni soldato
caduto in battaglia. Un coltello affondato nel legno per ogni volta che ci si
accorge di sentirsi stanchi.
Quando i coltelli terminarono, Corey si
staccò dall’armadio. Li raccolse, sfilandoli via uno a uno dal legno
e iniziò a osservarli con sguardo affascinato.
“Voglio imparare a lanciarli”
dichiarò infine, indirizzando gli occhi chiari e insistenti contro quelli del
vampiro. Lo sguardo di Kol parve ravvivarsi
all’improvviso.
“La tua idea mi piace” approvò,
facendosi passare i coltelli. “Andiamo in centro; uno sveglio come te dovrebbe
incominciare con i bersagli mobili” concluse con un ghigno, facendo cenno al
ragazzino di seguirlo. “Ti piacciono i gatti?”
Corey valutò pensoso la sua
domanda, raggiungendolo fuori dall’appartamento.
“Mi piacciono più delle persone” decise infine, mentre
lo zio chiudeva la porta alle loro spalle. A Kol,
la sua risposta, piacque particolarmente.
“Allora useremo le persone” annunciò il vampiro, concedendosi un
secondo ghigno. Il procinto di stanchezza da solitudine scivolò senza proteste
nel dimenticatoio, di fronte alla promessa di una movimentata caccia all’uomo.
It matters not how strait the
gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.*
[Non importa quanto stretto
sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.]
Quando Kol aprì
gli occhi, il primo pensiero che gli attraversò la mente fu che si sentiva
incredibilmente pesante, come se la forza di gravità si fosse
fatta d'un tratto più intensa. Sbatté con forza le palpebre,
cercando di ricordare dove si trovasse e il perché di quell’improvviso vuoto di
memoria. Il paesaggio che lo circondava lo ricondusse a due
sensazioni contrastanti, mostrandosi ai suoi occhi come familiare e estraneo al
tempo stesso. C’era qualcosa che gli apparteneva in quel fazzoletto
di terra; tuttavia la schiera di casette impilate una vicina all’altra lo
confondeva, impedendogli di ricordarne il perché.
Kol si sforzò di interrogare i suoi ricordi, per
comprendere come avesse fatto a giungere da quelle parti. D’un tratto, le
immagini distorte di un ricordo gli impregnarono la mente. Il
vampiro sgranò gli occhi, evocando il profilo del suo corpo che giaceva a
terra, avvolto dalle fiamme.
Non ebbe nemmeno il tempo di provare
paura; un sibilo spezzò il silenzio, strappandolo via dal pensiero dei suoi
ultimi istanti di vita: un coltello sferzò con violenza l’aria, sfrecciando a
pochi millimetri dal suo orecchio.
“Che cosa cerchi, Kol Mikaelson?”
Una voce lo colse di sorpresa,
inaspettata quanto la lama di quel coltello.
Un sorriso corse a increspare sornione
le labbra del vampiro; solo in quel momento Kol si
accorse di riconoscere quel posto, così come l’insolita sensazione di
pesantezza che aveva avvertito fino a quel momento. Ricordò d’un tratto le
scorribande nel cuore della notte di quando era bambino e il sacchetto pieno di
sassi che gli gravava all’altezza della cintola.
Si voltò: Kayla lo stava osservando con
il solito sorriso affilato, un secondo coltello ancora alla mano.
Che
cosa stava cercando Kol Mikaelson?
“Vieni con me” propose
infine il ragazzo, facendole cenno di seguirlo. “Ti faccio vedere.”
-----
Uno. Due. Tre.
Il pugno di sassolini che Kol teneva in mano iniziò a sfoltirsi lentamente, man
mano che il vampiro li gettava nel pozzo. Le luci ancora accese delle casupole
in lontananza spiavano indiscrete le sue manovre, ma lui non se ne curava.
Continuò a far scivolare le pietruzze nel vuoto, sotto lo sguardo attento di
Kayla.
Quando giunse all’ultima la soppesò per
un po’ tra le mani, prima di volgere il capo verso l’alto: la luna era ancora
alta nel cielo e le stelle erano appena visibili, oltre il tappeto di nubi;
mancavano ancora diverse ore prima che incominciasse ad albeggiare ma, per la
prima volta da quando era piccolo, Kol si
accorse di non temere più il silenzio, né le ore di sonno che lo
attendevano.
Sorrise, gettando l’ultimo sassolino
nel pozzo e lasciando vuoto il suo sacchetto di tela. L’ultimo
soldato era stato contato, la sua battaglia era volta al termine.
Finalmente, riuscì ad addormentarsi.
“Voglio dire che la morte è
la cosa più innocua del mondo. Solo morire è terribile.
Lo strano mondo di Alex Woods. Gavin Extence
Nota dell’autrice.
*Invictus – William Hernest
Henley.
È da un po’ che mi stuzzicava l’idea di scrivere qualcosa sugli originari,
ma il pensiero mi intimoriva un po’ e così ho lasciato perdere più volte. Dopo
aver visto gli ultimi episodi della quarta stagione ho pensato di fare un
tentativo con Kol, sfruttando un’idea che ho in
cantiere per un’ipotetica long incentrata maggiormente su Klaus, Corey e il
branco di lupi. Gli eventi narrati in questa storia, così come i personaggi di
Kayla, Corey e quel breve accenno di Adam, sono stati prelevati da lì.
Per quanto riguarda il resto, i riferimenti al pozzo nel flashback
iniziale, ripreso nella scena finale, li ho inseriti per ricollegarmi alle
altre due mie one-shot sui fratelli originali: The Wolf in The Well, in cui
il pozzo è un po’ il protagonista assieme a Klaus ed Elijah , e un esercito di
topolini a macchie, in cui fa sfondo a Klaus e Rebekah.
Nella parte in cui si accenna ai tentativi di Klaus di farsi un branco, ho
accennato (come menzionato all’inizio), al branco di Ray
Sutton, in Tennessee che raggiungono Klaus e Stefan
nei primi episodi della terza stagione.
New Orleans viene menzionata più volte, soprattutto perché Kol
ci viveva, prima che Klaus lo infilasse nella sua amica bara; ho pensato che
con l’arrivo di Corey avrebbero potuto tornare a stabilirsi lì – un po’ come
sta accadrà in The Originals.
Per quanto riguarda Corey, ho pensando che essendo figlio di un vampiro, la
sua crescita potesse svolgersi in modo insolito; per questo lo troviamo
quattordicenne a livello anagrafico, ma non più grande di un bambino di sei o
sette anni di aspetto.
Al termine della one-shot Kol
muore, così come nella serie – ma
diversi anni dopo rispetto a quanto accade in TVD. Almeno quindici, tenendo
conto del trascorrere nel tempo della one-shot e, in
particolare, dell’età di Corey.
Per quanto riguarda la poesia che spezza le varie parti del racconto – l’ho
inserita perché la trovo abbastanza azzeccata alla personalità di Kol, in particolar luogo la prima parte.
Credo di aver detto tutto. >.<
Un abbraccio!
Laura