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Autore: Kary91    31/05/2013    15 recensioni
Kol!centric;
"Che cosa cerchi, Kol Mikaelson?"
Per chi è immortale, invece, la vita su un campo di battaglia incomincia a pesare solo all’ultimo; quando si è soli. Quando si è stanchi perfino di giocare senza regole. E in quei momenti, con la mano della solitudine sulla spalla, per noia, per passare il tempo, si comincia a contare i morti.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elijah, Klaus, Kol, Mikaelson, Nuovo, personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The well's children.'
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Premessa; questa storia è una what if? E di conseguenza non segue l’elenco cronologico degli eventi che si sono verificati dopo l’episodio 2x21. In poche parole, Klaus è partito da Mystic Falls senza Stefan e né lui, né i fratelli, ci hanno fatto ritorno. Le uniche cose che coincidono con gli eventi della terza e la quarta stagione sono la gravidanza di Hayley (ep. 4x20) e un accenno al primo tentativo di Klaus di formare un esercito di ibridi, andato in fumo perché gli mancava il sangue della doppelgänger (inizio terza stagione).

Buona lettura!

Partecipa al 500themes_ita con il prompt #257. Addormentarsi all’alba.

La storia è stata betata da May_Z .

Counting Soldiers.

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

[Dal profondo della notte che mi avvolge

    buia come il pozzo più profondo che va da un polo all'altro,

    ringrazio gli dei chiunque essi siano

    per l'indomabile anima mia]

 

Quando Kol Mikaelson riuscì finalmente ad allontanarsi da casa di nascosto, il cielo stava incominciando ad annerirsi. Aveva atteso fino all’ultimo per uscire, assicurandosi di infrangere in una volta sola tutte le regole imposte dai suoi familiari. Era quello il suo gioco preferito: sfidare gli adulti, sondare i limiti che ‘i grandi’ erano soliti tracciargli attorno.

Rincorse per i prati il frinire ripetitivo dei grilli, dirigendosi verso il vecchio pozzo. A Niklaus non piaceva che i suoi fratelli vagabondassero per quella zona. Il pozzo era il protagonista indiscusso dei suoi giochi, il custode dei pomeriggi che gli capitava di voler trascorrere in astio o in solitudine: ne era geloso. In casa se ne stava spesso zitto, ma quando sedeva a cavalcioni su quel pozzo, qualcosa in lui cambiava: il suo sguardo si faceva fiero e, con voce esile, il ragazzino incominciava a raccontare di eserciti, sudditi e compagni fedeli. ‘Un giorno’, diceva spesso, ‘un giorno sarò più potente di un re’. Kol, invece, di essere re importava ben poco. Preferiva divertirsi e giocare a guardie e ladri con i divieti, godendosi la libertà che lo avvolgeva sfuggendo alla loro presa.

Una volta giunto al pozzo, il ragazzino vi si arrampicò sopra e lasciò penzolare le gambe nel vuoto. Sorrise malandrino, sfilando dalla cintola legata alla veste un sacchetto di tela: conteneva un pugno di sassolini. Li aveva raccolti durante il giorno, fra qualche corsa e un’azzuffata in piena regola con uno dei suoi fratelli. Quei sassolini gli avevano tenuto compagnia durante le sue scorribande diurne: per Kol ogni pietruzza rappresentava un soldato, un compagno d’armi temerario come lui, caduto in battaglia durante uno scontro all’ultimo sangue contro un temibile nemico immaginario. Sorridendo, il ragazzino prese un sasso e lo gettò nel pozzo. Il buio stava inghiottendo il suo sguardo, ma si sentiva a suo agio in quella morsa: la notte gli era amica, tranne quando giungeva il momento di addormentarsi. Kol detestava dormire; trovava il silenzio noioso. Spesso, a notte fonda, si alzava dal letto per andare a infastidire sua sorella. Le tirava i capelli e le sdruciva la veste, fino a quando qualcuno non interveniva per separarli, destato dagli strilli isterici di Rebekah. Quella sera, tuttavia, Kol aveva un piano: voleva contare tutti i suoi sassi, e gettarli uno a uno nel pozzo. Era convinto che avrebbe di sicuro preso sonno, se solo fosse riuscito nell’impresa di lanciarli tutti.

Fece cadere una seconda pietruzza nel vuoto e, subito dopo, una terza. Si fermò solo quando udì dei passi rapidi venirgli incontro. In quel momento il ragazzino avvertì il tocco gentile, ma deciso, di una mano che gli fasciava una spalla.

“Sei qui, Kol.”

Elijah aveva stretto appena le labbra, nel riconoscere il fratellino accovacciato sul pozzo. Si era avvicinato lentamente per paura che, cogliendolo di sorpresa, Kol avrebbe potuto sbilanciarsi e cadere. “Non devi allontanarti così, quando è sera: hai fatto preoccupare nostra madre.”

“Stare a casa  è noioso, quando fa buio” commentò il bambino in risposta. Balzò a terra, le dita esili ancora arricciate attorno al sacchetto di tela. Infine acconsentì a seguire il fratello, seppur scorrazzando via un paio di volte, ridendo della fatica di Elijah nello stargli dietro.

Una volta a casa sfuggì ai rimproveri dei genitori fiondandosi di corsa a letto; come sempre il sonno tardò ad arrivare, e il troppo silenzio lo indusse a rigirarsi irrequieto fra le coperte. Diede la colpa di quel problema ai suoi sassolini, non essendo riuscito a gettarli tutti nel pozzo. Doveva ancora gettarne dentro diversi, prima di poter finalmente riuscire ad addormentarsi.

Durante i giorni successivi, Kol raccolse altri sassi. Si recava al pozzo ogni sera, ma veniva sempre trovato prima che potesse fare in tempo a liberarsi anche dell’ultima pietruzza. La notte, non riuscendo a prendere sonno,  si divertiva a svuotare sul letto il contenuto del suo sacchetto di tela. Contava i suoi sassi, i suoi soldati, fino a quando la stanchezza non iniziava a stropicciare i suoi occhi assonnati. Si addormentava all’alba, cullato dalle prime luci del mattino: nei sogni, tuttavia, attendeva irrequieto il sorgere di un nuovo giorno, il momento in cui avrebbe fatto il verso al silenzio della notte, tornando a testa alta sul  suo campo di battaglia.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

[Nella feroce morsa delle circostanze

    non mi sono tirato indietro né ho gridato per l'angoscia.

    Sotto i colpi d'ascia della sorte

    il mio capo è sanguinante, ma indomito.]

Questa situazione sta incominciando a seccarmi, Kol.”

Niklaus scrutò con aria guardinga la dozzina di persone intente a parlottare tra loro al centro dell’accampamento. “Abbi rispetto per i piani di tuo fratello maggiore.”

In seguito al rituale tenutosi a Mystic Falls, dopo essersi liberato della maledizione che manteneva assopita la sua parte lupesca, Klaus era riuscito a rintracciare un primo branco, in Tennessee: aveva ucciso tutti i suoi membri, dal primo all’ultimo, fornendo loro il suo sangue per trasformarli in ibridi. Qualcosa era andato storto, tuttavia. I suoi uomini non avevano mai completato la transizione. Erano morti due volte, contribuendo ad estinguere un gruppo di creature già di per sé poco folto. Seccato e in preda alla rabbia, Niklaus aveva trovato un secondo branco, questa volta in Florida: si era imposto ad esso come alpha, in attesa di scoprire quale fosse la crepa nel suo progetto e di dare forma al suo esercito personale di ibridi. L’accampamento del branco ospitava un via vai continuo di persone di ogni età. Più che un gruppo di lupi, ricordava un villaggio: una comunità. Persone che avevano scelto di crescere la propria famiglia abbracciando la seconda natura lupesca che li caratterizzava. All’accampamento non c’era bisogno di mascherare ciò che distingueva il lupo dall’uomo – la diversità era un tratto condiviso.

“Pugnalare i propri fratelli alle spalle, invece, sarebbe indice di rispetto” ironizzò Kol, in tono di voce tagliente. A causa di Klaus aveva trascorso l’ultimo secolo intrappolato nel silenzio di una bara; da un paio di settimane aveva localizzato e raggiunto il fratello maggiore e, per noia o per vendetta, aveva preso a intralciare i suoi piani, accanendosi contro gli abitanti del branco. Il suo soggiorno all’accampamento aveva prodotto fino a quel momento una manciata di morti, persone torturate e decine di membri del branco soggiogati per farsi del male l’un l’altro. Klaus si era trovato più volte a scontrarsi con il fratello, a causa delle sue bravate ai danni di quella gente. Le loro discussioni si erano ripetute più volte, nel corso dell’ultima settimana. Parlavano di numeri, di danni all'unità del branco. Il valore umano delle perdite interessava ben poco all’ibrido. Quando si è eterni, si impara presto a misurare il proprio mondo in termini di guadagno e perdita, come in un’attività commerciale. Come in una guerra.

“Hai avuto la tua vendetta” commentò asciutto Niklaus, voltandosi verso il fratello. “Adesso puoi anche tornartene a New Orleans.”

“Trovo stupida la tua ossessione nei confronti di questa gente” dichiarò Kol, dando le spalle agli abitanti dell’accampamento.  “Dovresti cacciarli, non circondartene. Hai dimenticato cosa hanno fatto quelli come loro a nostro fratello Henrick?”

La conversazione dei due vampiri venne interrotta da un grido improvviso. Klaus sembrò farci a mala pena caso, ma Kol si voltò, attirato da quell’urlo. Il suo sguardo si posò su un moccioso appoggiato a un albero, con le braccia strette al corpo; aveva un’espressione di puro terrore dipinta in viso che, con gran sorpresa di Kol, si trasformò in una risata quasi subito, per poi ripresentarsi assieme  a un secondo grido. Questa volta, tuttavia, il vampiro riuscì a individuare il motivo di tutte quelle urla. C’era una ragazza, a una quindicina di metri di distanza da lui: aveva un pugno di coltelli in mano. In quel momento ne stava lanciando uno contro l’albero, ma  un primo e un secondo  avevano già centrato il tronco, a pochi centimetri di distanza dalle orecchie del bambino. In poco tempo fu possibile individuare una decina di lame incastrate nella corteccia dell’albero: il ragazzino era rimasto immobile, mentre uno sciame di coltelli tracciava il suo profilo, senza mai scalfire la sua pelle. Con il fiato corto, il bambino si allontanò dal tronco e raccolse i coltelli, correndo poi verso la ragazza: tornò indietro e il gioco ricominciò. Kol osservò incuriosito quella scena per qualche minuto, un sorriso sornione ad arricciare gli angoli delle sue labbra.

“Puoi prenderti un giorno di ferie dal pascolo, Nik” schernì a quel punto il fratello, incominciando a incamminarsi verso il gruppetto di lupi.  “Cercherò di limitare i danni alle tue pecore.”

Niklaus gli rivolse un’occhiata truce.

“È la cosa migliore da fare per te, Kol, se non intendi tornare al sonnellino nella tua bara” lo minacciò,  prima di allontanarsi verso una delle tende; il fratello sembrava aver trovato una fonte di distrazione sufficientemente ampia, da permettergli di lasciare il branco incustodito per qualche ora.

Kol tornò a voltarsi verso i membri del branco sparpagliati per la radura: si accorse che una donna aveva iniziato a inveire contro la lanciatrice di coltelli. Afferrò la mano del moccioso, che non sembrava affatto intenzionato a porre termine al suo gioco.

“Lasciami!” stava gridando il ragazzino, divincolandosi come una piccola bestia,  “Voglio giocare ancora, non mi farò niente! Kayla non sbaglia mai!”

“Muoviti, Adam” gli intimò la donna, continuando a trascinare il bambino per la mano.

“Ti occorre un nuovo bersaglio?” chiese in quel momento Kol, avvicinandosi alla lanciatrice di coltelli. La ragazza di nome Kayla si voltò verso di lui. Prese a scrutarlo con aria attenta: aveva uno sguardo lupesco, accentuato dalla fierezza incisa nei suoi occhi chiari. Non c’era bisogno di domandarsi se avesse o meno attivato il gene della licantropia. La precisione dei suoi tiri e la fluidità dei movimenti erano già stati in grado di sciogliergli quel dubbio.

“Un vampiro” osservò la giovane, continuando a squadrarlo per nulla impressionata. “L’antico male che è giunto a trafiggere il branco” aggiunse, distogliendo la sua attenzione da lui e riprendendo a lanciare i suoi coltelli contro l’albero. Il giovane sorrise tronfio.

“In persona” ammise, con un guizzo divertito nello sguardo. “Kol Mikaelson” si presentò poi, sfilando uno dei coltelli dalla mano della ragazza. Kayla tentò di riappropriarsene, ma il vampiro glielo impedì. Allontanò il coltello dalla sua presa e iniziò a far scorrere le dita lungo la lama, sorridendo divertito. La giovane lo scrutò impassibile.

“Che cosa cerchi, Kol Mikaelson?” domandò decisa, avvicinandosi all’albero per raccogliere le armi ancora incastonate nel legno. Il vampiro diede una scrollata di spalle.

“Qualcosa che mi intrattenga” spiegò, rigirandosi il coltello tra le mani. “Il divertimento sembra passato di moda da queste parti.” 
“Allora vattene” consigliò schietta la giovane, tornando indietro verso di lui. Kol accennò un sorrisetto sornione.

“Non così presto, ragazza lupo” commentò, osservandola con interesse, mentre tornava a scagliare i suoi coltelli contro l’albero. “Questo posto sarà anche un mortorio, ma a me piacciono le sfide.” 

Kayla sembrò rimuginare su qualcosa, mentre i coltelli continuavano a volare a mezzaria. Infine, si fermò.

“Allora ti sfido” annunciò infine. “Dieci coltelli a testa. Chi si avvicina più volte al bersaglio, senza colpirlo, vince.”

Un luccichio di interesse si fece strada nello sguardo del vampiro.

“Accetto” dichiarò, porgendole il coltello. “Prima le donne” si offrì poi,  guardarsi divertito attorno. Da quando aveva raggiunto il centro della radura il gruppetto di persone si era diradato, trattenendo solo qualche ragazzino sfuggito al controllo della madre e un paio di temerari e orgogliosi lupi adulti. “Chi è il bersaglio?” domandò infine Kol, godendosi l’espressione atterrita del ragazzino che lo stava fissando. Kayla gli rivolse un’occhiata di sfida.

“Sei tu” rivelò decisa, facendogli cenno di raggiungere l’albero. Il vampiro le rivolse un’occhiata vagamente incuriosita, prima che il divertimento tornasse ad accendersi nel suo sguardo. Si avvicinò lentamente al tronco e vi ci appoggiò contro la nuca, incrociando le braccia al petto. Il primo coltello gli passò vicino all’orecchio, quasi sfiorandolo. I presenti trattenerono il fiato, intimoriti. Chiunque, al branco, sapeva che Kayla non sbagliava mai un colpo; eppure, permaneva la paura che uno dei suoi coltelli potesse virare bruscamente, suscitando l’ira del vampiro Originario, l’antico male che è giunto a trafiggere il brancoKol sorrise tra sé, mentre un secondo coltello correva a conficcarsi nella corteccia, a un soffio dal suo orecchio destro. Quel posto lo faceva ridere: quella gente, lo faceva ridere. Per lui non erano nulla: nulla di più che un manipolo di corpi caldi, animati da un cuore che ancora batteva. Non erano niente se non un pasto, cibo con cui si saziava per distrarsi dall’ambiente tedioso di quell’accampamento; non erano altro che sassi, soldati da contare prima che arrivasse l’alba, per potersi addormentare senza indugio. Proprio come quando era bambino.

Quella ragazza, tuttavia, era un coltello. Il suo sorriso affilato lo stuzzicava, senza mai rimanergli incagliato sotto-pelle. Kol aveva trovato qualcosa con cui divertirsi, che lo trattenesse abbastanza a lungo, prima di riprendere a vagabondare senza meta, a discapito delle regole.

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Erano trascorsi ormai diversi mesi dall’arrivo dei due Originari all’accampamento. La loro presenza, per i membri del branco, era diventata  un’abitudine, quell’abitudine che si è costretti ad assimilare per sopravvivere, senza mai accettarla. Kol, al contrario di Klaus,  non si faceva vedere spesso. Viaggiava molto, accontentando il suo bisogno di distrazioni continue. Aveva sete di luci accese, musica assordante e sangue di sconosciuti – cose che non poteva ottenere restandosene a bighellonare in una foresta della Florida. Viaggiò di città in città, da solo o con i fratelli; talvolta si affidava alle tribù nomadi di streghe che ancora vagavano per gli Stati Uniti. Nonostante i suoi viaggi, tornava spesso all’accampamento.

Tornava per Kayla e per i suoi coltelli. Le piaceva raccontarle della vita notturna nelle grandi città. Del chiacchiericcio vibrante che echeggiava anche con il buio tra le strade cariche di passanti, nelle mete turistiche di gran fama. Gli parlava dei cacciatori di vampiri, una macchia in crescita nelle grandi metropoli, specialmente New Orleans. A Kol piaceva scovarli. Li sbeffeggiava, rivelando la propria natura per poi dare forma a inseguimenti che potevano durare anche ore, ma che terminavano sempre con i loro corpi freddi intinti in una pozza rossa e le mani insanguinate del vampiro.

Kayla ascoltava in silenzio, il solito sorriso affilato ad arricciarle gli angoli delle labbra. Le parole dell’Originario erano spesso mescolate al suono dei coltelli che dilaniavano la corteccia di un albero. Più volte erano finiti a fare l’amore mentre le lame vibravano ancora nell’aria, sferzandola affilati. Più volte erano rimasti feriti, pur di sfidarsi e sfiorarsi al tempo stesso – incapaci di decidere quale delle due cose bramassero maggiormente. Erano ferite lievi, superficiali, che si rimarginavano in una spolverata di secondi. Non facevano male. Il tempo per soffrire li aveva abbandonati da tempo: anni, per Kayla. Secoli per Kol. Avevano sostituito il dolore con emozioni più alla loro portata: adrenalina, divertimento. Curiosità.


“Pensi mai alla morte?” domandò una sera la ragazza, voltandosi verso di lui; la notte aveva iniziato ad arrampicarsi nel cielo, nascondendo alle stelle i corpi nudi dei due ragazzi distesi sull’erba.

“Qualche volta”  rispose Kol, appoggiandosi su un gomito. “Per un vampiro la morte è come una vecchia superstizione. Puoi decidere di temerla o fregartene e ridere di chi sceglie di preoccuparsene.”

Kayla non ebbe bisogno di domandargli quale delle due alternative avesse scelto.

“La morte non mi spaventa” dichiarò invece, sollevando lo sguardo verso l’alto, per poter osservare il cielo. “È morire, che mi fa paura.”

Il vampiro le rivolse un’occhiata scettica.

“C’è differenza?”

Kayla diede una scrollata di spalle.

“La morte coinvolge solo te. Morire, invece, implica un addio” spiegò.  Nella sua espressione generalmente imperturbabile, Kol riuscì a individuare un barlume di amarezza, mista a malinconia. “Mi spaventa di più il pensiero di abbandonare il branco e mio fratello, che quello di essere morta. Ogni tanto, la notte, resto sveglia a pensarci” rivelò infine.

 Kol rifletté sulle parole della ragazza, trovandosi in disaccordo. Aveva vissuto per mille anni e aveva conosciuto un numero di persone sufficiente a popolare due volte la Florida; molte di esse erano morte. Eppure non gli importava poi molto di dire addio, né di essere rimpianto. Ciò che temeva della morte era il pensiero stesso di cessare di esistere; temeva il nulla, l’immobilità totale. Perfino da umano, l’assenza di svago era sempre stata il suo inferno personale; una volta vampiro, quell’aspetto di sé non aveva fatto altro che esasperarsi, inducendolo a rifiutare persino le ore di sonno.

“Cosa fai quando non riesci a dormire?” domandò improvvisamente, sollevandosi a sedere. Kayla sorrise.

“Incomincio a contare” rispose, riprendendo ad osservare il cielo.  “I miei coltelli, gli abitanti del branco. Le stelle.”

Poche ore più tardi Kol aveva già abbandonato l’accampamento, impaziente di tornare ai suoi viaggi. Gli piaceva spostarsi di notte; dilatava le sue ore di veglia, a discapito del sonno. Lungo il cammino verso Tallahassee si sorprese a pensare più volte alle parole di Kayla: le avevano ricordato i sassi che, da bambino, lasciava scivolare nel pozzo ogni sera. Da quando era morto gli capitava spesso di incappare in rituali simili a quelli di Kayla o del se stesso bambino: Kol non contava le stelle, ma i soldati, i cadaveri abbandonati sul suo campo di battaglia nel corso dei suoi mille anni di esistenza. Il primo corpo apparteneva a qualcuno che non aveva mai conosciuto: era un fratello che aveva perso prima ancora di nascere. Il secondo soldato era Henrick. Andava avanti a contare per sequenze interminabili di minuti, fino a quando la noia non lo sfiniva.

Quella sera, durante il tragitto verso la metropoli, ripensò più volte anche agli ultimi scambi di battute che aveva avuto con Kayla.

 “Vieni con me” le aveva proposto, osservandola riporre con cura i suoi coltelli. “Esistono bersagli più sfiziosi degli alberi e di questa gente.”

Kayla aveva reclinato il suo invito, limitandosi a un cenno deciso del capo.

“Non sono nata all’accampamento, Kol” aveva aggiunto poco dopo la ragazza.  “Ho scelto io di unirmi al branco ed è qui che intendo restare.”

Quella sera fu l’ultima che Kol trascorse assieme a Kayla. La ragazza morì un mese più tardi, in seguito a un’imboscata di un gruppo di cacciatori. Per ironia della sorte, a immobilizzarla a un albero fu proprio una lama tagliente, imbevuta di strozzalupo.

Kayla non pensò alla morte, quando se la trovò di fronte agli occhi: la sua mente era troppo occupata a immaginare che da qualche parte, in giro per il continente, esisteva un vampiro che si divertiva a dare la caccia ai cacciatori; se Kol Mikaelson fosse stato lì in quel momento, aveva pensato fra sé con un sorriso, si sarebbe divertito alla grande. Fu quel pensiero a rammaricarla più di tutto, mentre il cuore le veniva strappato via dal petto.

Con la sua morte, Kol ebbe un soldato in più da contare durante i suoi vagabondaggi notturni alla ricerca del sonno: Kayla era l’ennesimo sassolino da raccogliere nel suo sacchetto di tela. Un sasso affilato come la lama un coltello.

 

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid

[Oltre questo luogo d'ira e di lacrime
Si profila il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.]

In seguito all’attacco dei cacciatori,Kol non tornò più all’accampamento: non c’era più nulla che lo attirasse di quel posto, nemmeno il pensiero di divertirsi a spese dei membri del branco.  Dopo la morte di Kayla si era concesso ventiquattr’ore di lutto; per un giorno aveva ucciso e torturato mosso solo dalla rabbia, evitando di agire per noia o puro sfizio. Riuscì senza sforzo a rintracciare il gruppo di cacciatori colpevoli del massacro all’accampamento: li sterminò uno a uno e lo fece al suono dei coltelli, martoriando la loro carne con le lame.

E poi, così come si era presentato, il dolore si affievolì. Kol lo spinse da parte, come aveva imparato a fare ormai da anni, e tornò a New Orleans dove i fratelli si erano ristabiliti da qualche mese. Klaus aveva abbandonato il branco in Florida poco dopo l’attacco dei cacciatori, ma i lupi avevano continuato a segnare la sua esistenza: si era portato a letto una licantropa, Hayley, e la ragazza era rimasta incinta.

Quando Elijah gli disse del bambino, Kol non poté fare altro che scoppiare a ridere di gusto. In circostanze normali avrebbe probabilmente colto l’occasione per fuggire all’ennesimo dei suoi vagabondaggi, ma quella volta decise di restare: voleva godersi l’esasperazione del fratello – pronto a scommettere su quanto avrebbe resistito prima di liberarsi del bambino, in un modo o nell’altro.

In quel particolare pomeriggio di settembre erano ormai trascorsi quattordici anni dal giorno della sua nascita: Corey Mikaelson, che in quel momento se ne stava appiccicato con la schiena a un armadio, non ne dimostrava tuttavia più di sei o sette. Era identico al padre dal bambino – biondo, mingherlino e silenzioso – ma aveva ereditato l’impazienza di Kol e la sua insofferenza nei confronti delle regole. Fortunatamente per lui, il minore dei fratelli Mikaelson riusciva sempre a trovare dei buoni metodi per intrattenerlo.

“Resta fermo così” ordinò il vampiro, sollevando il coltello. Corey si limitò a ricambiare serioso il suo sguardo, non osando muoversi nemmeno per annuire: nonostante crescesse praticamente di un anno ogni due, sembrava imparare in fretta.

La prima lama andò a conficcarsi nel legno dell’armadio, appena un centimetro scarso sopra la testa del bambino. Corey non emise alcuno strillo, né diede segno di essersi in qualche modo spaventato. Un sorriso increspò le labbra di Kol, mentre il vampiro lanciava il secondo coltello; suo nipote era un moccioso strano, ma non era quello a farlo sorridere. In mille anni di vagabondaggio a zonzo per il globo, aveva incontrato solo un’altra persona in grado di rimanere così immobile di fronte a una pioggia di coltelli. Ripensò a lei, e il suo sorriso si estese, ma assunse una sfumatura amara. Rifletté sul fatto che ogni giorno gli esseri umani affrontavano innumerevoli sfide per restare in vita. Per chi è immortale, invece, la vita su un campo di battaglia incomincia a pesare solo all’ultimo, quando si è soli. Quando si è stanchi perfino di giocare senza regole. E in quei momenti, con la mano della solitudine sulla spalla, per noia, per passare il tempo, si comincia a contare i morti. Un sasso per ogni soldato caduto in battaglia. Un coltello affondato nel legno per ogni volta che ci si accorge di sentirsi stanchi.

Quando i coltelli terminarono, Corey si staccò dall’armadio. Li raccolse, sfilandoli via uno a uno dal legno e iniziò a osservarli con sguardo affascinato.

 “Voglio imparare a lanciarli” dichiarò infine, indirizzando gli occhi chiari e insistenti contro quelli del vampiro. Lo sguardo di Kol parve ravvivarsi all’improvviso.

“La tua idea mi piace” approvò, facendosi passare i coltelli. “Andiamo in centro; uno sveglio come te dovrebbe incominciare con i bersagli mobili” concluse con un ghigno, facendo cenno al ragazzino di seguirlo. “Ti piacciono i gatti?”

Corey valutò pensoso la sua domanda,  raggiungendolo fuori dall’appartamento.

“Mi piacciono più delle persone” decise infine, mentre lo zio chiudeva la porta alle loro spalle. A Kol, la sua risposta, piacque particolarmente.
“Allora useremo le persone”  annunciò il vampiro, concedendosi un secondo ghigno. Il procinto di stanchezza da solitudine scivolò senza proteste nel dimenticatoio, di fronte alla promessa di una movimentata caccia all’uomo.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.*

[Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.]

 

Quando Kol aprì gli occhi, il primo pensiero che gli attraversò la mente fu che si sentiva incredibilmente pesante, come se la forza di gravità si fosse fatta d'un tratto più intensa. Sbatté con forza le palpebre, cercando di ricordare dove si trovasse e il perché di quell’improvviso vuoto di memoria. Il paesaggio che lo circondava lo ricondusse a due sensazioni contrastanti, mostrandosi ai suoi occhi come familiare e estraneo al tempo stesso. C’era qualcosa che  gli apparteneva in quel fazzoletto di terra; tuttavia la schiera di casette impilate una vicina all’altra lo confondeva, impedendogli di ricordarne il perché.

Kol si sforzò di interrogare i suoi ricordi, per comprendere come avesse fatto a giungere da quelle parti. D’un tratto, le immagini distorte di un ricordo gli impregnarono la mente. Il vampiro sgranò gli occhi, evocando il profilo del suo corpo che giaceva a terra, avvolto dalle fiamme.

Non ebbe nemmeno il tempo di provare paura; un sibilo spezzò il silenzio, strappandolo via dal pensiero dei suoi ultimi istanti di vita: un coltello sferzò con violenza l’aria, sfrecciando a pochi millimetri dal suo orecchio.

 “Che cosa cerchi, Kol Mikaelson?”

Una voce lo colse di sorpresa, inaspettata quanto la lama di quel coltello.

Un sorriso corse a increspare sornione le labbra del vampiro; solo in quel momento Kol si accorse di riconoscere quel posto, così come l’insolita sensazione di pesantezza che aveva avvertito fino a quel momento. Ricordò d’un tratto le scorribande nel cuore della notte di quando era bambino e il sacchetto pieno di sassi che gli gravava all’altezza della cintola.

Si voltò: Kayla lo stava osservando con il solito sorriso affilato, un secondo coltello ancora alla mano.

Che cosa stava cercando Kol Mikaelson?

“Vieni con me”  propose infine il ragazzo, facendole cenno di seguirlo.  “Ti faccio vedere.”



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Uno. Due. Tre.

Il pugno di sassolini che Kol teneva in mano iniziò a sfoltirsi lentamente, man mano che il vampiro li gettava nel pozzo. Le luci ancora accese delle casupole in lontananza spiavano indiscrete le sue manovre, ma lui non se ne curava. Continuò a far scivolare le pietruzze nel vuoto, sotto lo sguardo attento di Kayla.

Quando giunse all’ultima la soppesò per un po’ tra le mani, prima di volgere il capo verso l’alto: la luna era ancora alta nel cielo e le stelle erano appena visibili, oltre il tappeto di nubi; mancavano ancora diverse ore prima che incominciasse ad albeggiare ma, per la prima volta da quando era piccolo, Kol si accorse di non temere più il silenzio, né le ore di sonno che  lo attendevano.

Sorrise, gettando l’ultimo sassolino nel pozzo e lasciando vuoto il suo sacchetto di tela.  L’ultimo soldato era stato contato, la sua battaglia era volta al termine.

Finalmente, riuscì ad addormentarsi.

 

“Voglio dire che la morte è la cosa più innocua del mondo. Solo morire è terribile.

Lo strano mondo di Alex Woods. Gavin Extence

 

Nota dell’autrice.

*Invictus – William Hernest Henley.

È da un po’ che mi stuzzicava l’idea di scrivere qualcosa sugli originari, ma il pensiero mi intimoriva un po’ e così ho lasciato perdere più volte. Dopo aver visto gli ultimi episodi della quarta stagione ho pensato di fare un tentativo con Kol, sfruttando un’idea che ho in cantiere per un’ipotetica long incentrata maggiormente su Klaus, Corey e il branco di lupi. Gli eventi narrati in questa storia, così come i personaggi di Kayla, Corey e quel breve accenno di Adam, sono stati prelevati da lì. 

Per quanto riguarda il resto, i riferimenti al pozzo nel flashback iniziale, ripreso nella scena finale, li ho inseriti per ricollegarmi alle altre due mie one-shot sui fratelli originali: The Wolf in The Well, in cui il pozzo è un po’ il protagonista assieme a Klaus ed Elijah , e un esercito di topolini a macchie, in cui fa sfondo a Klaus e Rebekah.

Nella parte in cui si accenna ai tentativi di Klaus di farsi un branco, ho accennato (come menzionato all’inizio), al branco di Ray Sutton, in Tennessee che raggiungono Klaus e Stefan nei primi episodi della terza stagione.
New Orleans viene menzionata più volte, soprattutto perché Kol ci viveva, prima che Klaus lo infilasse nella sua amica bara; ho pensato che con l’arrivo di Corey avrebbero potuto tornare a stabilirsi lì – un po’ come sta accadrà in The Originals.

Per quanto riguarda Corey, ho pensando che essendo figlio di un vampiro, la sua crescita potesse svolgersi in modo insolito; per questo lo troviamo quattordicenne a livello anagrafico, ma non più grande di un bambino di sei o sette anni di aspetto.

Al termine della one-shot Kol muore,  così come nella serie – ma diversi anni dopo rispetto a quanto accade in TVD. Almeno quindici, tenendo conto del trascorrere nel tempo della one-shot e, in particolare, dell’età di Corey.

Per quanto riguarda la poesia che spezza le varie parti del racconto – l’ho inserita perché la trovo abbastanza azzeccata alla personalità di Kol, in particolar luogo la prima parte.


Credo di aver detto tutto. >.< 

Un abbraccio!

Laura

 

   
 
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