Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Glitch_    04/06/2013    1 recensioni
Dopo la fine della scuola superiore, c'è chi ha fatto del basket il proprio stile di vita ma non una scelta per il futuro, chi ha rincorso il proprio sogno in America e chi invece è scappato dalla propria ombra; c'è chi sa che si può sempre ricominciare grazie a ciò che si è avuto e chi pensa invece che sia tutto finito e i cocci da buttare.
Il basket li ha fatti incontrare, il basket li porterà a riunirsi e a restare ancora insieme.
[Kagami/Kuroko, Kasamatsu/Kise, Midorima/Takao + Aomine(onesided)/Momoi]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ryouta Kise, Takao Kazunari, Tetsuya Kuroko, Yukio Kasamatsu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A due passi e un respiro da qui'
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Capitolo 3


"It's so loud inside my head
with words that I should have said
and as I drown in my regrets
I can't take back the words I never said"
Words - Skylar Grey


"Tetsu-chan, ho comprato del gelato!"
Letto il messaggio ricevuto, Kuroko sospirò afflosciando le spalle e poi rimise il cellulare in tasca.
Non era un codardo, ma certe volte avrebbe preferito che le questioni spinose fossero sempre come dei cerotti da togliere con un gesto secco: sarebbe stato molto più facile farle presenti e affrontarle, invece ogni volta si ritrovava fra le mani problemi delicati e complicati.
Takao era una persona semplice che sapeva godersi il piacere delle piccole cose: era uscito di casa per andare al lavoro part time – cameriere in un karaoke – beandosi del bel tempo e cianciando dell’inizio della primavera, e ora era stato così contento di tornare a casa con del gelato da averglielo pure scritto per messaggio. In che modo avrebbe potuto fargli cadere quel "mattone" sulla testa? Kuroko si sentiva come se stesse per negare a Tetsuya #2 un bis delle sue crocchette preferite.
Aveva appena ponderato di nascondere le birre come mossa preventiva – non ci teneva a "rallegrarsi" la serata con Mariah Carey – quando sentì la porta d’ingresso aprirsi e Takao chiamarlo a gran voce – troppo tardi.
«Per te, vaniglia!» trillò contento agitandogli sotto gli occhi un gelato su stecco incartato. «Per me, pistacchio!»
Kuroko pensò che se Kasamatsu fosse stato presente, avrebbe fatto con tono rassegnato dei commenti sul verde e sul perenne masochismo inconsapevole di Takao passandosi una mano sulla faccia. Tuttavia scartò il proprio gelato e gli diede un morso, concedendosi almeno un minuto di silenziosa dolcezza alla vaniglia, grato di come Takao cercasse sempre di coinvolgerlo nei suoi piccoli piaceri pur di distrarlo – in questo caso dal ritorno di Kagami. Si erano sempre presi cura l’uno dell’altro in quei due anni e a conti fatti trovava ciò straordinario e prezioso: non avrebbe mai immaginato di poter trovare con così tanta semplicità e immediatezza una sorta di nuovo "compagno" dopo Kagami.
Deglutì con forza e si decise a esordire. «Takao-kun, devo dirti una cosa».
Lui lo fissò perplesso tenendo lo stecco in bocca. «Uh?»
«Poco fa ho parlato con Akashi-kun». Vide Takao lanciare il solito sguardo sospettoso e ironico all’ambiente circostante, come a indicare teatrale le fantomatiche microspie di Akashi. «Lui e Kise-kun hanno un messaggio da riferirti, si tratta di Midorima-kun». E Takao tacque.
Si tolse il legnetto dalla bocca e diventò serio, quasi impassibile. «Gli è successo qualcosa?»
Kuroko scosse la testa. «No, sta bene, solo che è qui in città».
Takao restò ancora fermo per un lungo attimo, forse incredulo quanto stupito, poi tirò su col naso. «Ah». Sprofondò sul divano arancione cominciando a mangiucchiare il bastoncino, pensieroso. «E come mai?»
«Per un convegno di fisioterapia: è un evento molto particolare, ci andrà anche Kise-kun; Akashi-kun l’ha immaginato e gli ha chiesto se per caso lui e Midorima-kun potevano andarci insieme». Preferì tagliare la parte della richiesta di ospitalità, tanto non ne valeva neanche la pena.
«Ah» ripeté di nuovo, fissando il pavimento.
«Resterà qui pochi giorni, non è detto che vi incontrerete» tentò di rassicurarlo, anche se sapeva benissimo che in realtà c’erano altissime probabilità che i due si vedessero: troppe conoscenze e ambienti comuni.
Takao sbuffò un sorriso amaro. «Non che io voglia evitarlo a prescindere: non sono una persona crudele o che ama ostentare indifferenza, io».
«A me invece non dispiacerebbe evitarlo» ribatté serafico, «Midorima-kun è una brava persona, ma non andiamo d’accordo».
Lui ghignò. «Questo credo che sia dovuto al fatto Shin-chan stesso si sia fissato sul non poter andare d’accordo con te per via dei vostri gruppi sanguigni e dei vostri segni zodiacali».
«Infatti, in genere come si può andare d’accordo con persone con credenze simili?»
Takao accennò un sorriso nostalgico e si lasciò cadere all’indietro per sprofondare nello schienale troppo morbido del divano arancione. «Con pazienza? Dedizione
«Forse coraggio» suggerì.
Lui inspirò a fondo e socchiuse gli occhi. «Sì, mi sa di sì, e ce ne ho messo davvero tanto di coraggio».
Kuroko gli diede delle pacche sulla testa come se fosse un cucciolo o un bambino, un gesto ironico per una dimostrazione di affetto e appoggio incondizionato che altrimenti sarebbe stata un po’ troppo patetica e poco virile fra due ragazzi ventenni. Takao rise, un po’ triste ma rise, e sospirando appoggiò la testa sulla sua spalla.
«Tetsu-chan, fammi un po’ da cuscino».
«Sei pesante» fu l’unica protesta che sciorinò monocorde, ma lo lasciò stare. Ognuno si consolava come poteva, chi cercando un nuovo cuscino, chi facendo da cuscino per qualcun altro.


Midorima ce la stava mettendo tutta per capire per quale stupida ragione si fosse lasciato coinvolgere in tutto ciò.
A fine convegno, Kise l’aveva trascinato nel bagno per gli uomini, chiedendogli di tenergli la giacca mentre lui si cambiava in uno dei cubicoli. Stare lì davanti alla porta con una giacca altrui in mano era stato a dir poco imbarazzante, si era sentito una di quelle ragazze che vanno in bagno a due a due.
Almeno Kise aveva fatto in fretta, uscendo con addosso un paio di pantaloni più comodi e sportivi rispetto ai jeans che portava prima.
«Sto andando dalle mie piccole, vuoi venire con me?» gli aveva proposto con una nonchalance da fare invidia al baro più sfacciato.
In risposta aveva inventato un paio di scuse su due piedi, fra cui una essenzialmente sincera – non avevano ancora mangiato, la fame si stava facendo sentire – ma Kise gli aveva detto che al parco avrebbero trovato un sacco di venditori ambulanti di cose buonissime – possibilmente preparate e cotte con scarsa igiene, appuntò Midorima – e che comunque doveva spicciarsi a decidere perché non poteva mica fare attendere le sue bambine. Riflettendoci era stato per via dell’esaurimento nervoso che gli stava provocando Kise che aveva accettato l’offerta.
E ora si trovava lì, nel parco, circondato da alberi, giochi e bambini starnazzanti, e nonostante tutto si chiedeva ancora perché.
«Kise sensei! Kise sensei!» Sentì chiamare, e subito dopo vide tre bimbe circondare Kise e provare ad attirare la sua attenzione aggrappandosi alle sue gambe e alle sue braccia.
Kise le salutò tutte con pacche affettuose sulla testa e stupidi complimenti per le loro clip per capelli con i pupazzetti. Poi passò alle presentazioni.
«Nana-chan, Yuri-chan, Sakura-chan, lui è Shintaro onii-san».
Prima che il sopracciglio di Midorima potesse scattare pericolosamente verso l’alto, le tre bambine risposero in coro, chi dondolando sul posto, chi fissandolo con gli occhioni grandi e curiosi e chi dando una manata distratta all’orlo mal ripiegato dei propri pantaloncini.
«Ciao, Shintaro onii-san» cantilenarono.
Midorima le fissò per qualche secondo, alla fine si arrese e sospirò spingendosi indietro gli occhiali sul naso. «Salve».
Kise gli rivolse un ghigno felice e poi insieme alle piccole pesti lo trascinò al campetto da gioco per bambini.
All’inizio aveva pensato che le bambine avrebbero fatto a gara per mettersi in mostra davanti a Kise – che ne avesse memoria, era in genere ciò che facevano tutti gli esseri di sesso femminile intorno a quel bastardo – ma dovette ricredersi quando le vide giocare e imparare da lui con puro spirito competitivo.
Si sedette su una piccola panca all’ombra a osservarle: erano ancora giovani, immature, inesperte eppure tanto appassionate; se l’aria lì sembrava più fresca non era certo per una mera questione ambientale, era meritoloro.
Ad un tratto sentì un fruscio alle spalle, si voltò a guardare e vide una bambina allontanarsi da lì di scatto; era più bassa delle altre tre, con i capelli rossi raccolti in un piccolo codino sulla nuca. Nonostante fosse stata sorpresa da lui, restò a fissare le altre giocare, anche se più lontana di prima, con gli occhi avidi e un piede pronto a scattare all’indietro qualora Midorima l’avesse ripresa.
Incuriosito da quel comportamento, sorrise fra sé e sé e fece finta di non averle prestato attenzione; un paio di minuti dopo, chiamò Kise e glielo disse.
«Uhm» ponderò l’altro guardando alle sue spalle, oltre la rete, «è ancora lì che ci guarda. Credo che voglia giocare con noi».
«Con voi, semmai» precisò lui, infastidito.
Per tutta risposta, Kise si abbassò a cercare qualcosa nel borsone che aveva portato con sé: un pallone di riserva. «Perché non vai da lei e le chiedi se le va di unirsi a noi?» gli porse la palla.
«Non ho mica velleità da balia come te!»
«Dai, non ti fa tenerezza?»
«No» sbottò sconcertato.
«Shintaro-niiiiiiiiiiiiiiiiii!» li interruppe Sakura correndo verso di lui e chiamandolo a gran voce. Prima che lui potesse anche solo provare a restare esterrefatto e irritato per il modo in cui l’aveva chiamato, la bambina gli mise le mani sulle ginocchia e si avvicinò fin troppo al suo viso, col fiatone e le gote arrossate. «È vero che sei bravo a tirare?»
Di sottecchi vide Kise sporsi verso di loro per ascoltare la sua risposta, con faccia tosta e falsa ignoranza. Fu inutile chiederle chi gliel’avesse detto.
«Sì» fu la sincera, ovvia e scontata risposta.
«Mi insegni?»
«Sì, Midorimacchi» intervenne Kise con espressione infantile e supplichevole, «le insegni?»
Stava per risponderle "Ma anche no", quando lei premette di più le manine sulle sue ginocchia e si avvicinò ancor di più al suo viso fissandolo con degli occhioni enormi nascosti dietro un paio di occhiali.
«… va bene».
Si alzò dalla panca e Sakura gli trotterellò dietro felice, battendo le mani; Kise sorrise soddisfatto – bastardo – e con il pallone in mano uscì dal campetto per raggiungere la bambina dai capelli rossi; lo vide parlare con lei stando accovacciato a terra, alla sua altezza, sorridendole e invitandola a prendere la palla; poco dopo li raggiunse insieme a lei e la presentò come Tsubaki.
Midorima non seppe come, ma a un certo punto si ritrovò a doversi togliere il maglioncino di cotone e restare in camicia, troppo accaldato ma non ancora abbastanza stanco da smettere di giocare: non gli accadeva da anni di sentirsi così, di sudare ma essere divertito come un bambino. Era dura ammetterlo, ma in fondo poteva capire perché Kise tenesse così tanto a giocare con quelle bambine.
Sakura si attaccò a lui con una naturalezza e semplicità che solo una bambina poteva avere, lo seguì con una sincera ammirazione che per qualche ora lo fece quasi sentire "importante", o forse invincibile come quando era ancora troppo giovane. Alla fine la piccola, prima di tornare a casa, gli si accomodò di fronte con l’implicita e muta richiesta che fosse lui a controllarla e darle da bere prima di lasciare il campetto.
Midorima era seduto a terra, lei s’inginocchio fra le sue gambe e lo guardò come se lui sapesse già cosa fare – e invece no. Lui si voltò a guardare cosa Kise stesse dicendo alle altre e cercò di imitarlo alla meglio con gesti goffi e un po’ meccanici.
Le prese le manine e gliele guardò. «Tutto a posto? Ti sei graffiata da qualche parte?» Lei scosse la testa in cenno di diniego; le passò una bottiglietta d’acqua. «Strani dolori?»
«No» rispose dopo un grosso sorso. «Shintaro-nii, tu giochi ancora a basket?» domandò curiosa.
«No, ho smesso» replicò prima di bere a propria volta da un’altra bottiglia.
«Ti sei fatto male come Ryo-nii?»
Probabilmente fu tutto l’insieme, sentire chiamare Kise Ryo-nii, vedere con quanta beata innocenza e naturalezza lei lo fece dopo averlo chiamato per tutta la giornata sensei e sentirsi domandare se si fosse "fatto male", ma gli andò il sorso di traverso. «N-no, ho smesso perché non mi andava più» cercò di essere onesto, ma anche stringato e semplice.
«Ma ti piace ancora giocare?» chiese stupita.
«Sì».
«Pure a me piace, per questo non vorrei smettere mai, perché tu invece l’hai fatto?»
Capì subito che se si fosse affrettato ad aprir bocca avrebbe solo boccheggiato come un idiota, preferì quindi aspettare e rifletterci bene prima di darle una risposta, e si accorse di sottecchi che accanto a lui Kise – che teneva Nana sulle ginocchia – sembrava proprio tutt’orecchi, anche se malinconico.
«Perché a volte le cose che più ci piacciono possono cominciare a farci male».
«E come?» incalzò stupita e perplessa.
«Perché le facciamo così tanto, così tante volte al giorno, che capita non di rado che si leghino anche a dei momenti brutti che preferiamo non ricordare. Se fai qualcosa di bello insieme a una persona a cui tieni» semplificò la spiegazione, «poi quando litighi con quella persona ti dispiace rifare quella cosa bella, perché ti ricorda anche del litigio».
«Con chi hai bisticciato?» chiese apprensiva.
Rise, una risata nervosa e priva d’allegria, ma anche piena di tenerezza per tanta ingenuità. Avrebbe voluto risponderle "Con me stesso, perché ci tenevo a restare fedele a quel che ero, con il basket stesso e con l’unica persona in grado di accettarmi per come sono". «Con un mio caro amico» rispose invece, e in effetti era un po’ la sintesi di tutte e tre le cose.
«E quindi non ci parli più con lui?»
«No, non parliamo più».
«Ma è triste!» protestò imbronciata.
«Lo so» sospirò, aggiustandole una clip fra i capelli: la presa si era allentata, delle ciocche le cadevano davanti agli occhi e le davano sicuramente molto fastidio, ma impegnata com’era stata a chiacchierare appassionata con lui non se l’era sistemata.
Lei lo sorprese con un bacino sulla fronte. «Passerà» gli disse fiduciosa come se si trattasse di una sbucciatura al ginocchio.
Le sorrise, e con affetto, e fissò meglio la clip dopo aver finito di sistemargliela: sopra c’era applicata una piccola margherita di una tonalità di arancione che gli provocò una fitta di nostalgia al petto… era arancione Shutoku.
«Carina questa clip» le mormorò, un po’ per imitare i modi di Kise ed essere meno impacciato e un po’ perché lo pensava sul serio.
«Ti piace?» si entusiasmò. «Me l’ha regalata Kazu-nii!»
Midorima sentì il sangue gelarsi nelle vene. Restò impassibile per un attimo, poi, benché sapesse che fosse molto plausibile che lei lo conoscesse, chiese conferma. «Kazunari? Takao Kazunari?»
«Sìììì! Lui! Lo conosci?» ribatté estasiata.
Cosa dirle? «Sì, ma non ci sentiamo da moltissimo tempo». Era la verità.
«Dopodomani è sabato, Ryo-nii e Kazu-nii tutti i sabato giocano con gli altri al campetto dei ciliegi, perché non vieni anche tu? Così vi incontrate!»
«Veramente…» provò ad argomentare, ma lei lo strattonò per le maniche della camicia.
«Daiiii!»
Kise lo guardò un po’ malinconico ma non certo dispiaciuto per la piega che aveva preso la situazione – probabilmente anzi quella piega l’aveva calcolata benissimo, il bastardo. «Perché non fai contente le bambine? Vieni!»
Nana annuì prontamente e Yuri l’imitò. «Sì, vieni anche tu, onii-san!» Tsubaki stese zitta e un po’ confusa, perché ancora ignara delle abitudini del gruppo, ma si aggregò anche lei alle altre annuendo.
«Ma non so se posso approfittare dell’ospitalità altrui ancora per un altro giorno…» tentò di correre ai ripari.
Kise sorrise tranquillo e sadico. «Parlerò io con chi ti ospita, gli spiegherò la situazione».
Sakura lo fissò speranzosa e supplichevole. «Allora vieni, Shintaro-nii?»
Si sentì in trappola, dovette arrendersi. «Sì».
«Urrà!» gridò Sakura gettandogli le braccia al collo; ricambiò l’abbraccio di lei in modo impacciato e troppo tardi si rese conto che nel farlo immaginò quante volte Takao avesse giocato o stretto a sé quella bambina.
Quella era stata davvero una trappola.


«Tetsu-chan, hai visto che non abbiamo fatto così tardi?» sorrise trionfante guardando l’orologio da polso per controllare che ore fossero.
Kuroko sbuffò stringendo meglio i manici della busta della spesa. «Takao-kun, perdi sempre comunque troppo tempo a guardare tutti gli snack che ci sono al supermercato per decidere quale prendere».
«Su, su! Che anche per questa volta dopo aver fatto la spesa insieme riusciremo a cenare presto!» sorrise dandogli una pacca sulla spalla.
Takao sentiva il bisogno di distrarsi: il giorno dopo avrebbe visto Midorima al campetto, Kise l’aveva avvisato e aveva pure cercato di fare di tutto per dare la colpa a Sakura – poverina – quando era palese che fosse tutto un suo piano. Kise coinvolgendo le bambine aveva evitato di dover ricevere dei diretti rimproveri da Kasamatsu, sicuro, benché Takao pensasse che di certo il senpai l’aveva comunque preso a calci lo stesso.
Non poteva però biasimare Kise: in fondo, sarebbe stato riprovevole e davvero infantile se lui e Midorima non si fossero incontrati, perché considerando tutte le loro conoscenze comuni e lo stare finalmente nella stessa città, sarebbe stato logico che ciò volesse dire che si stessero cocciutamente evitando; non era da lui essere un codardo.
Adesso doveva solo provare a distrarsi per arrivare al pomeriggio successivo il più rilassato possibile, e comunque le cose non potevano andare davvero così tanto male.
Mise un braccio intorno alle spalle di Kuroko. «Stasera cucino io! Cosa vuoi che prepari, Tetsu-chan?»
Il marciapiede era discretamente affollato, quindi non si sorprese più di tanto quando la sua spalla si scontrò per sbaglio col braccio di qualcun altro, più che altro gli sembrò strano avere l’impressione che quel tipo, che veniva dalla direzione opposta alla loro, si fosse fermato di colpo contribuendo così a quello scontro. Ciononostante alzò subito lo sguardo chiedendo scusa con espressione sincera.
«Scusa, non…»
E il mondo sembrò fermarsi.
Si disse che il posto era sbagliato, lui non avrebbe dovuto essere lì, ma poi si ricordò che sì, era possibile incontrarlo per caso in quel momento, visto che erano nella stessa città. Davanti a lui c’era Midorima Shintaro che lo fissava pietrificato.
«Salve» ruppe l’atmosfera Kuroko, e la sua solita inespressività risultò sia ridicola che sarcastica, considerando la situazione.
«Ciao» li salutò Midorima, senza troppo entusiasmo; Takao sentì i suoi occhi su di lui, insistenti, ma si limitò a guardarlo di sottecchi.
«Ciao» ricambiò atono ma con voce più ferma possibile.
Kuroko prese le redini del discorso. «Non ci aspettavamo di incontrarti qui».
«Neanch’io». Fu strano e amaro insieme quanto quella replica suonò sincera.
«Sapevamo però dell’appuntamento di domani» continuò Kuroko.
«Sì… Kise mi ha detto che mi mandavate i vostri saluti».
Non era vero, e lo sapevano tutti e tre che Kise se l’era inventato di proposito per farli stare meno tesi il giorno dopo. Bastardo.
Kuroko e Midorima non erano certo di per sé gente da compagnia e fra di loro non andavano per niente d’accordo, lui e Midorima erano… erano come erano, quindi quella situazione stava diventando sempre più assurda e patetica. Dov’era Kise una volta tanto che serviva davvero?
«Domani sarà interessante giocare di nuovo con te» parlò di nuovo Kuroko.
«Già, lo credo anch’io» ribatté Midorima sistemandosi meglio gli occhiali sul naso. «A domani, allora».
«A domani» ripeté Kuroko; Takao tacque.
Midorima li salutò con un altro cenno del capo e poi proseguì per la sua strada; Takao non si voltò a guardarlo.
Nessuno dei tre aveva posto la domanda "Come va?", nonostante fossero passati anni dall’ultima volta che si erano visti. Era stato un incontro pessimo e imbarazzante, patetico.
«Takao-kun, stai bene?» gli chiese Kuroko sottovoce.
No, non stava per niente bene, probabilmente era anche impallidito di colpo. Non gli rispose, strinse forte la propria borsa per la spesa e corse veloce verso casa.
Seguì la strada a memoria in modo automatico, senza rendersene conto, urtò un paio di persone per sbaglio ma stavolta non si fermò a chiedere scusa; macinò forse circa un paio di chilometri con la mente talmente vuota da spaventarlo – era così agghiacciato – e andando così forte da sentire i polmoni bruciare e il cuore sul punto di esplodergli nel petto.
Una volta arrivato a casa, posò malamente la spesa a terra e corse in bagno, ma arrivato lì non seppe che fare. Lavarsi la faccia? Guardarsi allo specchio e vedere quanto era atterrito? Aprire gli armadietti alla ricerca di calmanti? Ficcarsi due dita in gola per vomitare?
Gli tremarono le mani e rise di sé, sarcastico, e cominciò a dare deboli pugni al lavandino e alla piastrelle.
Non era stato preparato a vederlo così all’improvviso e quell’espressione dura che gli aveva rivolto e tutto quel silenzio imbarazzato non l’avevano aiutato di certo, anzi era stato tutto una riproposizione della sua dannata confessione: si era sentito addosso di nuovo la sensazione nauseante e dolorosa di essere stato rinnegato, con il rinnovato terrore della certezza di aver perso tutto.
Aveva appena rivisto la persona che aveva riempito anni della sua vita e caratterizzato il più bel periodo della sua esistenza, la stessa persona che poi un bel giorno l’aveva fissato come a volerlo cancellare dalla faccia della Terra dopo che gli aveva mostrato il fianco dicendogli quel che provava per lui. Ovvio, che ora non stesse bene.
Non stava per niente bene.
Voleva vomitare.
O spaccare qualcosa.
O ridere isterico.
O ridere isterico spaccando qualcosa per poi vomitare.
Stava provando esattamente le stesse sensazioni di allora, era orrendo.
Si artigliò le mani sul volto e con un ghigno amaro scivolò lungo la parete fino a sedersi a terra. Poi finalmente Kuroko lo raggiunse.
«Takao-kun? Takao-kun?» lo richiamò provando a scrollarlo per le spalle.
Lui rise ancora fino a piangere. «Sono ancora innamorato di lui» ammise rassegnato, e ciò era davvero terribile. Scoppiò in singhiozzi e Kuroko lo strinse a sé; lo lasciò sfogare.


«Kazu-nii sarà davveeeeero contento di vederti!» cantilenò Sakura al suo fianco. Midorima guardò la piccola – i capelli castani scuri raccolti in due codini sulla nuca, gli occhioni lucenti e un pallone stretto fra le braccia – e cercò di dissimulare alla meglio come si sentiva rivolgendole un sorriso impacciato e un po’ storto.
No, Takao non sarebbe stato contento di vederlo, per niente.
Dopo aver salito le scale di pietra, ormai in prossimità del campo – si vedeva già la rete – Sakura prese per mano la silenziosa Tsubaki e iniziò a correre con le altre due, lasciando indietro lui e Kise.
Midorima si guardò intorno: quel posto era semplice e aveva un’aria vagamente malinconica, per certi versi era perfino affascinante. «Bel campetto» commentò atono.
Kise sorrise. «È stato Takao a trovarlo e a suggerirci di venire a giocare qui».
Tacque, ma quello non fu un vero colpo basso come sentire all’improvviso la risata di Takao.
Erano giunti davanti alla rete che circondava il campo, gli altri ragazzi erano già lì a giocare, Takao compreso.
Quando il giorno prima l’aveva visto per caso lungo il marciapiede, si era pietrificato, così tanto che Takao gli era finito addosso, o forse era stato lui stesso in maniera inconscia a fare in modo che ciò accadesse. Takao non l’aveva neanche guardato in faccia, lui invece non era riuscito a togliergli gli occhi di dosso ponendosi decine di inutili domande al secondo: perché chiamava Kuroko Tetsu-chan? Takao era sempre stato il tipo da invadere facilmente gli spazi altrui, ma perché il contatto che aveva con Kuroko sembrava così intimo e naturale? Quando aveva deciso di portare i capelli più corti? Perché non aveva più lo stesso orologio da polso che indossava sempre ai tempi delle superiori, si era rotto? Era una sua impressione o era davvero diventato più alto di un paio di centimetri?
Con fredda ostinazione aveva cercato sul suo viso qualcosa che gli potesse far capire l’origine di quei piccoli cambiamenti, perché non era possibile che si fosse perso così tante cose in soli due anni. O forse sì.
Quel primo incontro non previsto non era andato per nulla bene.
Invece di entrare nel campo, restò per qualche minuto a fissare Takao giocare al di là della rete; si accorse di quanto gli fosse mancato vederlo giocare: il suo stile non era particolarmente elegante o bello, o preciso e pieno di forza, ma era ugualmente bello da guardare perché era proprio come lui. Takao giocava come viveva: con irriverenza, ironia, energia, vitalità e passione. Takao giocava come viveva, come parlava, perfino come mangiava – era un tipo da far casino perfino durante un pasto, rovesciando cibo dappertutto per errore – metteva interi pezzi di se stesso ovunque e spesso li cacciava con forza anche dentro alle persone, come aveva fatto con lui.
Non c’era mai stata persona migliore di Takao per raccogliere e accogliere tutte le sue debolezze.
Kise era al suo fianco, lo guardò malinconico. «Guarda che se vuoi posso davvero raccontarti di lui, di cosa ha fatto in questi anni…»
«Non m’interessa» rispose cocciuto, ed entrò in campo proprio quando Sakura corse ad abbracciare Takao.
«Kazu-nii, sorpresa! Oggi è venuto a trovarci Shintaro-nii!»
Non potevano certo deludere la bambina, che stava fra di loro guardandoli curiosa ed eccitata tenendo la testa in alto: Takao allungò la mano verso di lui, lui fece altrettanto; fu una stretta di mano discreta contornata da sorrisi accennati e forzati.
«Ti trovo bene» osservò Takao con un piglio ironico che suonò troppo artefatto.
«Anch’io». "Quanto sei cambiato mentre io non cambiavo per nulla?"
La fiera delle situazioni scomode e dell’impaccio però continuò, visto che lì c’erano anche altre persone. Kuroko gli sembrò come al solito fastidiosamente poco comprensibile grazie all’apparente maschera di indifferenza e apatia, Furihata parve invece sul punto di voler scappare per motivi a lui sconosciuti – esattamente come l’ultima volta che l’aveva visto, tra l’altro – e Sakurai era né più né meno patetico e ridicolo di quanto ricordasse. Kasamatsu però fu quasi una sorpresa: lo trovò nell’aspetto esteriore un po’ più maturo e rude insieme, ed era palese che lo stesse fissando con desiderio omicida, Dio solo sapeva perché. Con l’aggiunta di Kise, che continuava a essere Kise, gli sembrò chiaro che quella fosse una banda di matti male assortiti con cui avere poco a che fare, quindi era meglio spicciarsi con i finti saluti cordiali e andare via.
«Ti va una partita tre contro tre?» gli propose Kise con un sorriso sfacciato.
Midorima lo fissò inespressivo, non ebbe neanche la forza di inarcare un sopracciglio o risistemarsi gli occhiali sul naso.
Kise ovviamente prese il suo silenzio per un assenso, gli circondò le spalle con un braccio e con l’altra mano afferrò Kuroko per la manica della maglia. «Noi tre giocheremo insieme!» annunciò entusiasta.
Furihata mise le mani avanti. «Io mi tiro fuori, giocate pure voi!» E Midorima non se ne meravigliò: si respirava tensione pura su quel campo in quel momento, e quel ragazzo non era mai sembrato il tipo da sopportare certe pressioni.
«Ok» sbuffò secco Kasamatsu, «voi tre contro me, Takao e Sakurai». L’ultimo nominato si profuse in un bizzarro inchino verso i tre avversari.
«Non mi dispiace dover giocare contro Midorima».
Midorima notò che Takao fissò Sakurai perplesso, come a dire "E tu che diavolo ne sai di me e Midorima?", ma prima che potesse succedere altro, Kasamatsu diede un sonoro calcio a Sakurai dandogli dell’idiota. A quanto sembrava quel campetto era in realtà un ritrovo per comari pettegole. Benissimo.
Stavolta si tolse in anticipo il maglione e lo consegnò alle bambine, messe a "fare la guardia" ai borsoni, poi raggiunse i due compagni della squadra improvvisata.
Kise gli rivolse un ghigno soddisfatto. «Come ai vecchi tempi?»
«Più o meno» ribatté vago.
Non era proprio in pessima forma, visto che ogni tanto giocava ancora e ci teneva a restare allenato – dopo così tanti anni di basket sarebbe stato un peccato perdere tutto il lavoro fatto – ma tuttavia non aveva più il ritmo di una volta e uno dei suoi avversari era un giocatore professionista che sembrava addirittura avercela con lui: non si prospettò una partita facile fin dai primi tentativi di attacco, e proprio per questo la cosa lo divertì tantissimo.
Aveva dimenticato quanto potessero essere fastidiose le lagne di Kise durante una partita, o l’ostinato silenzio di Kuroko, ma dovette ammettere che gli erano mancati. C’era competizione fra di loro, ma c’era anche poco spazio per vecchie rivendicazioni e rivalità mai sopite: c’era solo voglia di giocare, una passione che forse in lui era rimasta assopita per troppo tempo.
«Il basket ci ha portati a stare insieme e penso, anzi credo, che ci unirà sempre» aveva detto Kise, e faceva perfino male quanto avesse ragione.
Quello che però faceva più male ancora era la vicinanza con Takao, perché il fatto che fossero avversari implicava più contatto fisico per via di una vicinanza più o meno volontaria: era sempre Takao a marcarlo ed era sempre lui a marcare Takao; non sapeva dire come fosse successo, ma era palese che su quel campo si stessero cercando, e pure con un pizzico di rabbia repressa.
A ogni marcatura poteva facilmente sentire il calore del suo corpo e il suo odore, ricordando tutte le volte che da ragazzini si erano allenati insieme fino a tardi. In passato si era chiesto più volte se era stato in uno di quei momenti che Takao si fosse accorto della forma che avevano preso i suoi sentimenti; da parte sua non sapeva quando fosse successo, ma di sicuro aveva preso coscienza di quanto ritenesse Takao suo verso la fine del secondo anno, poco dopo la Winter Cup. All’epoca non aveva voluto dare un nome a quel sentimento, si era limitato solo a prenderne atto e riconoscere che ci fosse, ma metterlo in atto e dirlo a voce alta no, e non per paura o vergogna: l’aveva trovato solo inutile; era inutile esternare qualcosa di palese che comunque non avrebbe aggiunto o tolto niente al loro rapporto.
Quell’errore di valutazione gli era costato caro.
Takao a un tratto, mentre lo marcava affinché Kuroko non gli passasse la palla, fu sul punto di perdere l’equilibrio: lui l’afferrò artigliandogli le mani sui fianchi, un gesto inconscio e spontaneo che lo portò quasi a stringerlo a sé da dietro. Takao gli sfiorò appena una mano con la propria in modo distratto e forse involontario, prima che lo lasciasse andare.
Era stata una disfatta, davvero, e in tutti i sensi: persero la partita.
Mentre beveva da una bottiglietta e Kasamatsu gli dava delle pseudo pacche consolatorie con cui avrebbe anche potuto stendere un elefante – ma perché ce l’aveva così tanto con lui? – osservò Takao prendere in braccio Sakura, che esultava con lui per la vittoria. Era certo che Takao non avesse dimenticato il suo pugno – era ben visibile da come si comportava – ma se provava ancora qualcosa per lui, almeno abbastanza da perdonarlo, era una questione che non riusciva del tutto a sciogliere: era una coincidenza che Sakura, così portata per i tiri da tre punti, fosse la sua preferita? Le aveva pure regalato quelle clip bizzarre con i colori della Shutoku… e in più per tutta la partita l’aveva cercato… Lui comunque non si sentiva nella posizione di concedersi il lusso di potersi illudere di qualcosa, questo era poco ma sicuro. Tuttavia, non appena Sakura si allontanò da Takao, andò verso di lui.
«Ti trovo bene» esordì.
Takao sbuffò un sorriso ironico, o forse sarcastico. «Questo ce lo siamo già detti».
Restò impassibile. «Volevo precisare che lo penso sul serio».
Alzò lo sguardo verso di lui, era serio ora, pure troppo. «Non sei cambiato affatto».
«Lo so». Fece una pausa prima di aggiungere altro. «Tu invece sei cambiato in meglio».
Stavolta Takao fu senza dubbio sarcastico, scosse la testa ridendo amaro. «C’è qualcosa che vuoi dirmi di preciso, Midorima?»
Nella sua mente risuonò come lo chiamava da ragazzini.
«Shin-chan? Shin-chan!»
Mille immagini andarono in pezzi.
Cercò di restare esteriormente impassibile, deciso a mostrarsi in qualche modo maturo e composto come sempre – o forse come non lo era mai stato prima. «Credo di doverti delle scuse. Per il pugno».
Takao restò stupito per qualche secondo, poi si scrollò e divenne più sarcastico di prima; parlò gesticolando e tenendo la bassa voce, forse per non attirare l’attenzione delle bambine. «Tu credi di dovermi delle scuse per il pugno? E cosa ti fa credere che dopo due anni io voglia sentire le tue scuse per un cazzotto
«Non è stato un bel gesto, l’ammetto» provò a restar fermo e calmo.
«E tu sei venuto fin qui, dopo due anni, a parlarmi solo del gesto
Non si trattenne, quasi ringhiò a denti stretti. «Di cosa dovrei parlare, allora? Sentiamo».
Takao fece per aprire bocca, poi ci ripensò e scosse la testa ridendo sarcastico. «Sai che ti dico? Fottiti».
Midorima fece per allungare le mani verso il suo colletto per afferrarlo e picchiarlo, ma lui lo bloccò solo fissandolo mortalmente serio.
«Non ti azzardare a mettermi le mani addosso, non una seconda volta. Ho sempre tenuto conto di cosa significasse avere la tua fiducia» gli puntò un dito contro il petto, «tu hai dato la tua mano alla tua squadra e a me, io ti ho dato la mia e molto di più. Di pugni fra ragazzi ne scappano tanti e il più delle volte sono inopportuni, ma per quel molto che ti ho dato…» la voce gli si incrinò e rise di nuovo amaro, forse rise anche di se stesso, «chiediti in che modo sei andato a schiacciare quel molto e poi ne riparliamo. Se mi va». Afferrò veloce la propria giacca e l’indossò rivolgendogli le spalle e andando via.
Kise si avvicinò a lui, perplesso e anche vagamente minaccioso: doveva aver visto tutto. «Non credevo tu volessi concedergli un bis col tuo sinistro».
E aveva ragione, non voleva. «Ho cercato di cominciare bene, gli ho chiesto scusa per il pugno» ribatté freddamente raccogliendo da terra il maglione e la giacca.
«E poi hai cercato di dargliene un altro?»
«Non è facile restare calmi quando sei armato di buone intenzioni e qualcuno ti replica sarcastico» "e cerca di farsi spazio per mettere meglio il dito nella piaga" aggiunse col pensiero. "Avrei voluto iniziare con delle scuse, poi ne avremmo riparlato". «Mi irrito facilmente, lo sai».
«Lo so» replicò irriverente, «e sei lunatico perché sei del cancro» lo prese in giro.
Midorima gli rivolse un’occhiataccia, per un attimo ponderò se sfogarsi prendendo a pugni lui. Non era però da lui prendere a pugni le persone, lui era un tipo rigido e composto, con una morale – o almeno supponeva di esserlo – eppure ogni volta davanti a Takao diventava tutt’altro: le sue debolezze venivano fuori e quando Takao in un modo o nell’altro evidenziava ciò – confessandogli che l’amava o dicendogli in modo sottile, come pochi minuti prima, che piuttosto che ammettere i propri sentimenti continuava a comportarsi in modo duro e freddo girandoci attorno – scoppiava e sentiva l’impulso di agire subito e in modo avventato, anche picchiandolo. Solo Takao era in grado di fargli quell’effetto, pensò che probabilmente avrebbe voluto continuare a stargli accanto anche per questo, per avere dei momenti in cui essere quel tutt’altro.
Non aveva mai imparato a smettere di raggirare i propri veri sentimenti esternando l’opposto di ciò che sentiva, o meglio, non l’aveva ancora imparato, era rimasto fermo e immaturo e ciò era una sconfitta personale bruciante. Non gli piaceva perdere, era frustrante. Inspirò a fondo per calmarsi e chiuse la zip della giacca, pronto per andar via.
«Dopotutto sembra davvero che io non abbia più niente da spartire con voi» osservò asciutto. «Posso sperare almeno che dopo questo non mi farai più dei discorsi sentimentali, Kise?»
Lui sbuffò e si strinse nelle spalle. «Mi dispiace per come sono andate le cose, ma questo non vuol dire che debba rassegnarmi».
«Hai preso lezioni da Kuroko su come non arrendersi mai?»
Prima che Kise potesse ribattere, sentirono entrambi qualcuno correre e poi fermarsi davanti a loro col fiatone; si voltarono e videro una bambina dai capelli molto corti e degli strani occhi blu; li stava fissando con un’espressione serissima.
«Mi chiamo Kinoshita Ayame e ho recentemente capito che mi piace il basket. Per favore, Kise sensei, insegnami a giocare!» concluse con un inchino secco e profondo.
Midorima restò allibito quanto perplesso, Kise invece sorrise e arruffò subito i capelli alla piccola.
«Non c’è bisogno di essere così cerimoniosi e formali! Certo che ti insegnerò a giocare, Ayame-chan!»
La bambina restò seria, ma fu evidente che ciò per lei fu uno sforzo, perché arrossì e fissò Kise con gli occhi che brillavano. «Io e Hinata abbiamo spiato a lungo al parco Kise sensei e le altre, prima di venire a chiederlo».
«Ehm, Ayame-chan, non si spia la gente, o quantomeno non dovresti dirlo dopo averlo fatto, ma a parte questo… la tua amica Hinata non è qui oggi?»
Lei gli rivolse un faccino perplesso. «Certo che è qui! Hina-chan?» si voltò. Non c’era nessuno. Strinse i pugni e gridò arrabbiata con la faccia rivolta al cielo. «Hina-chan, perché sei scomparsa anche questa volta?!»
Midorima si guardò intorno, sempre più confuso, e vide qualcosa di davvero bizzarro; indicò un punto. «Perché ho la strana impressione che stia cercando proprio lei
A qualche metro di distanza, Kuroko teneva in braccio una bambina dagli occhi grandi e i capelli chiari. «Ti sei persa?» le chiese.
Lei scosse la testa in cenno di diniego. «Um-um».
«Hina-chan» urlò ancora Ayame, «smettila di sparire e vieni subito qui!»
Kise si grattò la testa. «E con queste sono sei».
Midorima non capì a cosa si riferisse. «Cosa?»
«Niente» minimizzò agitanto una mano. «A parte ciò» continuò mentre Ayame andava a recuperare Hinata, «come già detto non mi arrenderò, né tantomeno smetterò di preoccuparmi per te».
«Perché sei uno stupido?» lo prese in giro, ironico ma non così tanto aspro.
«No, perché siamo stati compagni di squadra e in qualche modo lo siamo ancora» fu la replica schietta e sincera, disarmante.
Si spinse gli occhiali indietro sul naso e si schermì con un piccolo sorriso irriverente. «Non mi ritengo tuttavia responsabile del tuo tempo perso. Vado, domani lascerò la città».
«Mandami un messaggio con l’orario di partenza, verrò a salutarti alla stazione».
«Non ce n’è bisogno».
«Lo farò lo stesso» insisté ridicolmente entusiasta, quindi lui si sentì in dovere di dargli la solita replica definitiva.
«Muori».
Stavolta Kise gli rispose con una risata divertita.
Salutò gli altri con un paio di cenni della testa e qualche parola, niente di troppo caloroso di un vago "Alla prossima volta"; Sakura corse a tirarlo per la manica e dovette prometterle che un giorno sarebbe tornato a insegnarle altre cose; poi la vide tornare fra le braccia di Takao, che non l’aveva più degnato di uno sguardo.
Non sapeva ancora se doveva sentirsi più patetico per essere caduto nella trappola di Kise o per averci sperato. Rivolse un ultimo sguardo nostalgico ai ciliegi in fiore dietro la rete del campetto e si avviò all’uscita; restò sorpreso quando vide di sottecchi un ragazzino castano sfrecciargli accanto entrando nel campo: si voltò a guardarlo come richiamato da un’eco lontana.
«Aya-chan!» gridò il bambino. «Perché mi hai lasciato al parco e sei venuta qui da sola! Ti avevo detto che non è prudente immischiarsi con degli uomini adulti!»
Lei gli replicò indignata e furiosa. «Ren, idiota, smettila di farmi da balia!»
Quella situazione gli risultò così familiare che non riuscì a impedirsi di ridere. Scosse la testa, inspirò a fondo e si decise a lasciarsi alle spalle tutta quella marea di ricordi.


Yukio rivolse un’ultima occhiata allo spettacolo che c’era in salotto e poi tornò in cucina, dove Ryota stava prendendo un bicchiere d’acqua per provare a diluire un po’ l’alcool che Takao aveva in corpo.
Alle sue spalle si alzò un inequivocabile coro da ubriaco.
«I caaaan’t liiiiiiiive, i livudidudaut youuuu! I can’t liiiiive, I can’t live anymoooooore!»
Seguito dalla monotona protesta di Kuroko. «Takao-kun, ti avevo chiesto di imparare almeno le parole per bene».
Yukio fissò furente Ryota puntando un dito verso gli altri due. «Mi avevi detto di avere la situazione sotto controllo».
«Ma lo è» obiettò.
«Uno è ubriaco steso a terra in preda a una sbronza triste e canterina e l’altro fa castelli di lattine di birra vuote: come può essere questa una situazione sotto controllo?!»
«Perché ho fatto ubriacare di proposito Takaocchi così ci raccontava cosa gli ha detto di preciso Midorimacchi, e Kurokocchi collaborando con me in quest’impresa si è distratto e non ha pensato al ritorno di Kagamicchi!»
«Non ti rendi conto di quante falle ha questo tuo piano? Takao sta cantando quel disgraziatissimo pezzo della Carey, in casa mia
Dall’altra stanza, Takao rincarò cambiando canzone. «Turn arooooouuund, every now and then I get a little bit lonely and you’re never coming roooooouuuund!»
Ryota sorrise soddisfatto. «Ascolta, sta diversificando: è un miglioramento!»
«Come può essere un miglioramento "Total Eclipse of the Heart"?! Non lo vedi già dal titolo quant’è deprimente?!»
«Turn arooooouuund, BRIGHT EYES!»
Ryota non ritrasse. «Ma sentilo, sta diventando molto intenso sul ritornello!»
«Come potrebbe importarmi una cosa simile?! Sbrigati a portargli quell’acqua!»
Lui prese il bicchiere e prima di andar via si avvicinò a lui a piccoli passi e con un’espressione strana, sembrava esitante. «Yukicchi» ed era ancora più strano che lo stesse chiamando così, «ti volevo anche dire che comunque non penso che Ayame-chan, Hinata-chan e Rennicchi siano stati mandati da Akashicchi».
«Lo sai che io invece lo credo, quindi taci».
«Capisco» assentì appena imbronciato.
«E comunque, nonostante un pazzo stalker inquietante, un tipo strano fissato con l’oroscopo, uno ubriaco che canta in salotto e un altro che impassibile usa delle lattine come se fossero lego, nonostante tutto questo, io sono ancora qui. Chiediti perché. Anzi, ricordamelo».
Ryota sorrise divertito. «Perché tu ami davvero la tua "squadra"».
«Non è solo per questo» replicò un po’ burbero, «e tu lo sai» terminò soffocandogli il sorriso sulle labbra con un bacio un po’ rude. Li interruppe la nuova canzone di Takao.
«In the naaaaaame of LOOOOOVE! What more in the name of LOOOVE!»
Yukio restò sinceramente sorpreso. «Gli U2! Vedi, Ryota, questo sì che è un miglioramento: non contribuisce alla sua causa, ma quanto meno contribuisce alla mia!»


Midorima pensò che quella fosse una discreta giornata: almeno non pioveva, per quanto tutto il cemento della stazione contribuisse a rendere l’atmosfera lì intorno un po’ grigia.
Kise se ne stava seduto su una panca, con le braccia mollemente appoggiate sulle ginocchia, lui era in piedi con il borsone in spalla; entrambi rivolgevano lo sguardo ai binari, non parlavano, anzi sembrava che Kise fosse in posizione di ascolto, che si aspettasse qualcosa da lui, magari un’ultima parola su tutto.
C’era qualcosa di ironico, o forse perfido, nel fatto che per l’ennesima volta si trovasse ad avere a che fare con qualcuno che in maniera placida ma distruttiva gli aveva dimostrato di avere torto: Kise aveva ragione, e ciò era l’ennesimo boccone amaro da mandare giù, considerando che non c’era di certo modo di poter avere una rivincita – non c’era mica un campo di basket in mezzo, stavolta.
Incrociò le braccia al petto e si lasciò andare di schiena contro la colonna dietro di sé; esordì con un ghigno sarcastico e rassegnato. «Ho perso, la storia della mia vita».
Kise gli rivolse un’occhiata perplessa; lui continuò.
«Ho la strana tendenza a perdere contro tutti quelli che vogliono darmi una lezione: Kuroko, Akashi… te. È la storia della mia vita, ed è frustrante, sai?»
Lui sbuffò un sorriso bonario. «Sei l’eterno secondo e l’eterno vice capitano» commentò leggero, «ma non eri tu quello che diceva che la vera vergogna non sta nel cadere giù ma nel non rialzarsi dopo la caduta?»
«Infatti mi sono rialzato e sono andato altrove per studiare e cercare di diventare una persona migliore» obiettò. "Mi sono rialzato nel modo sbagliato" pensò invece.
Kise sospirò e rivolse di nuovo lo sguardo ai binari. «Takaocchi ha sempre saputo dov’eri, sai? Eppure non ti ha mai cercato, secondo te perché?»
«Perché non è uno stupido» disse con una certa fierezza, «per quanto a volte tenda a mostrarsi come una persona irriverente non è così idiota da non rispettare le scelte altrui». Era il suo Takao, non stavano mica parlando di un idiota qualsiasi.
«E questo allora non fa di te il vero stupido della situazione?» commentò Kise senza eccessiva malizia.
Storse il naso e incassò quell’ovvia e odiosa constatazione: si era scavato la fosse da solo, era molto più dignitoso restare in un mesto silenzio. Lasciò che per un po’ l’aria intorno a loro si riempisse soltanto degli annunci provenienti dall’altoparlante riguardo gli arrivi, le partenze e ritardi dei treni, poi Kise tornò a parlare.
«Akashicchi ha sempre dato modo sia a te che a Takaocchi di sapere l’uno dove fosse l’altro».
«Lo so».
«Sapeva che dicendo di te a Kurokocchi poi Takaocchi avrebbe saputo tutto».
«Ovvio».
«E che a via di dirti per caso il nome di Takaocchi per via di Kurokocchi, tu prima o poi un giorno ti saresti arreso a volerne sapere di più».
Midorima rise sarcastico. «Non credere che l’abbia fatto perché è una persona misericordiosa».
Lui sorrise malinconico eppure compiaciuto. «L’ha fatto perché se deve affrontarti come nemico, spera almeno di poterti trovare nella tua forma migliore, che mi sembra palese non sia quella attuale».
Restarono ancora una volta in silenzio per un po’, questa volta però era facilmente intuibile che i loro pensieri muti fossero rivolti al vecchio capitano.
Kise tirò su col naso e spezzò l’atmosfera tesa e un po’ triste. «Akashicchi ti inquieta ancora?»
Rispose atono ma onesto. «Ogni tanto».
«A me quasi sempre» ammise. «È difficile prendere le sue difese davanti a Yukio».
«Credo che sia difficile in generale per tutti noi cinque spiegare perché lo sentiamo ancora, ma penso che questo Akashi lo sappia e lo diverti tantissimo».
«Concordo» annuì.
Ancora una lunga pausa, poi Midorima si strinse di più nelle spalle e piegò un ginocchio per poggiare all’indietro il piede contro la colonna; fissò le piastrelle grigie della piattaforma. «Parlami di com’è stato Takao in questi anni» chiese a bassa voce e monocorde.
Kise non si mostrò sorpreso, né sorrise soddisfatto; posò il mento sul palmo di una mano e iniziò a raccontare. «All’inizio è stato lui a rincorrere Kurokocchi per il campus per cominciare ad avere un rapporto più intimo, poi gli ha chiesto se gli andava di dividere il suo appartamento, visto che Kurokocchi ne stava cercando uno».
Midorima sbuffò. «Tipico di Takao imporsi così».
«Sai» sospirò Kise, «all’inizio Yukio non era molto convinto della cosa, perché sembrava che sia Takaocchi che Kurokocchi si stessero sforzando troppo di aiutarsi a vicenda…»
Gli rivolse un’occhiata perplessa. «Aiutarsi?»
Kise gli rispose dispiaciuto e serio. «Nel senso che stessero cercando con ossessione un rimpiazzo. Nessuno di loro due ha preso bene la partenza di qualcuno in particolare: Kurokocchi quella di Kagamicchi, Takaocchi la tua. A guardarli sembrava che qualcosa in loro fosse fuori posto, o che mancasse, e si vedeva bene quanto si arrabattassero per andare avanti ugualmente».
Era la prima volta che sentiva come avesse reagito Takao alla sua partenza e si sentiva doppiamente colpevole: colpevole di averlo fatto stare male e colpevole di sentirsi un po’ felice di sapere di potergli mancare così tanto.
Decise però di togliersi un altro tarlo. «Kuroko e Takao sono stati insieme?»
Lui schioccò la lingua. «Naaaah! Io stesso ero un po’ scettico davanti ai dubbi di Yukio, benché avesse le sue buone ragioni per pensare ciò e preoccuparsi, ma in realtà l’uno ha aiutato l’altro perché così facendo era come aiutare se stessi, e poi» sorrise, «Takaocchi un giorno ha detto a Yukio che si sentiva in debito con Kurokocchi, perché una volta lui aveva aiutato una persona di sua conoscenza ad abbattere dei muri che aveva costruito intorno a sé».
Midorima sentì una strana fitta di dolore al petto, stornò rivolgendo altrove lo sguardo e chiedendo altre informazioni. «Poi?»
«Beh, Takaocchi ama ancora molto il basket, te l’ho detto che è stato lui a trovare il campetto dei ciliegi e dar via alla nostra abitudine di andare a giocare lì. Quando sono stato male e subito dopo l’operazione ho dato il peggio di me, lui è stato molto vicino a Yukio: gliene sono grato» sorrise. «In questi anni Takaocchi ha avuto i suoi alti e bassi, come tutti noi del resto, ma credo che tutto sommato stia bene ora, direi che è… stabile».
«Altro di particolare?»
«Ogni tanto, quando passiamo la sera tutti insieme, si ubriaca; non capita spesso, ma quando succede inizia a cantare delle canzoni occidentali: non so di preciso di che tipo siano, ma Yukio mi ha spiegato che sono delle vecchie glorie sdolcinate e tristi degli Anni Ottanta e Novanta – lui se ne intende più di me».
Per un attimo si perse dietro un senso di invidia: c’era sempre della velata e tenera nostalgia di sottofondo quando Kise parlava di Kasamatsu e pronunciava il suo nome, come se gli mancasse sempre quando non erano insieme e parlare di lui attutisse la cosa e lo facesse stare meglio. E nonostante tutto appariva anche sempre sicuro quando parlava di lui: Kise non sembrava mai avere dubbi su chi appartenesse l’altro e a chi appartenesse lui stesso. Lo invidiava, sfacciatamente.
«Inoltre» continuò Kise, «ha avuto un paio di brevi storie con dei ragazzi».
Midorima credette di aver capito male, ma l’espressione seria quanto neutrale dell’altro non lasciò alcun dubbio: non stava nemmeno scherzando.
«Nulla di troppo serio» aggiunse, «la prima relazione è durata poco meno di tre settimane, l’altra non è arrivata al secondo mese. Ha provato ad andare avanti» commentò senza molto entusiasmo.
Non seppe se sentirsi tradito o meno: lui non aveva mai avuto nessuno, né durante la scuola né dopo, ma si disse che in fondo non aveva alcun diritto di sentirsi ferito, visto che almeno Takao aveva provato a voltare pagina. Lui non l’aveva fatto, ora doveva almeno cercare di essere abbastanza maturo da non essere geloso se Takao era andato avanti senza lui.
Ci riuscì ben poco, e stava diventando sempre più frustrante collezionare dei fallimenti l’uno dopo l’altro.
Fu annunciato l’arrivo del suo treno.
«Sei ancora in tempo per restare, sai?» gli suggerì Kise. «Potrei aiutarti a trovare un altro alloggio…»
Si separò dalla colonna e accennò un ghigno. «Questa partita è finita» ironizzò amaro.
Il treno si fermò davanti a loro e aprì le porte.
Kise si alzò dalla panca e si avvicinò a lui. «Puoi sempre iniziarne un’altra di partita».
Esitò prima di replicare. «Non ora» gli concesse; voltò le spalle e si avviò verso il treno, senza nemmeno salutarlo.
«Ricordati che hai promesso a Sakura-chan di tornare!» gridò Kise in modo un po’ infantile e imbarazzante; lui invece di girarsi per dirgli qualcosa si limitò ad alzare un braccio verso l’alto e agitarlo, in un gesto che poteva voler dire sia "Sì, va bene" che "Vai a quel paese e muori".
Salito sul treno, restò in piedi, appoggiato di spalle accanto all’entrata di un vagone. Forse anche andar via era stato un fallimento, si augurò che almeno Akashi non lo chiamasse presto.
Invece lo fece dieci minuti dopo; non gli rispose, rifiutò la chiamata.


Aomine se ne stava comodamente seduto a un tavolo di un fast food a elencare i modi in cui poter infastidire Kagami, o bullarsi di lui, mentre mangiava una porzione maxi di patatine fritte.
La loro partita era finita un paio di ore prima e considerando anche che la vittoria era andata al proprio college, Aomine si sentiva davvero pronto a quell’incontro.
Per qualche minuto aveva perfino considerato di ordinare un frappé alla vaniglia e metterlo accanto a sé come se stesse aspettando anche l’arrivo di un’altra persona "a caso", giusto per godersi la faccia di Kagami, ma poi si era detto che non aveva più quindici anni. Purtroppo.
Quando vide Kagami entrare, alzò pigramente un braccio per attirare la sua attenzione; lui lo ricambiò con un altrettanto svogliato cenno della testa prima di andare al banco a prendere la consueta decina di hamburger da mangiare.
Entrambi avevano ancora addosso la tuta della propria squadra; Aomine pensò che fosse ironico che i loro colori fossero uguali a quelle delle superiori ma invertiti, lui in bianco e Kagami in nero. "No, anzi" pensò sogghignando, "sono la perfetta rappresentazione di come ci siamo scambiati i posti: chi è ora il miglior amico di Tetsu?"
Il suo cellulare, posato sul tavolo, suonò e vibrò per la decima volta facendo un chiasso enorme: era Satsuki a chiamarlo, ancora. Storse il naso e tolse la suoneria: lei se lo poteva anche scordare di insistere a sapere qual era il posto del suo appuntamento con Kagami, non le avrebbe dato alcuna scusa per parlare di Tetsu o ricordare i vecchi tempi con Tetsu. Tetsu, TetsuTetsuTetsu, Tetsu-kuuuun! Eliminò una per una le chiamate perse a ritmo della vocina odiosa di Satsuki che non chiamava lui e che gli risuonò nella mente, credette di stare per sviluppare un tic nervoso all’occhio. Tolse la suoneria e mantenne la vibrazione.
Kagami si accomodò di fronte a lui con aria annoiata e scornata – doveva ancora mandar giù la sconfitta – quindi Aomine pensò di cominciare la conversazione al meglio.
«Ti ho trovato in ottima forma. Ma ho vinto io».
L’altro fu sul punto di tirargli un hamburger in testa – gli vide la mano tremare – ma ormai doveva essere abbastanza cresciuto da sapersi trattenere.
«Avrò la mia rivincita» infatti si limitò a dire.
«Un giorno. Intanto oggi ho vinto. Piuttosto, so che sei in partenza per il Giappone…» esordì vago.
Lo fissò accigliato. «E tu come lo sai?»
«Ho le mie fonti». Era certo che Kagami non sapesse che lui sentisse Tetsu regolarmente, voleva giocarsela bene: del resto era risaputo che lo stratega più astuto fra loro due non fosse certo Kagami, non poteva mica venir meno alla propria fama.
Kagami restò perplesso. «Momoi?» indagò senza troppa convinzione.
«No» rispose secco e cambiò argomento. «Porta i miei saluti a Tetsu, comunque».
Kagami smise di colpo di masticare e poi deglutì a fatica. Aomine godette interiormente.
«Io e Kuroko non ci sentiamo da un po’» ammise Kagami.
«Davvero?» replicò con falsa indifferenza mandando giù in gola una patatina. "Un po’, tipo due anni-quasi tre".
«La distanza e gli impegni si sono messi parecchio in mezzo» aggiunse lui monocorde.
«Quindi non sai quale materia è stata l’ultima fissa di Tetsu?» gli chiese pescando un’altra patatina dal sacchetto di carta.
Kagami lo guardò confuso quanto sorpreso. «No, come potrei saperlo?»
«Pedagogia comparata» rispose per lui; deglutì l’altra patatina. «Io e lui ci sentiamo spesso. Io e Tetsu, intendo».
Kagami sembrò sia irritarsi sia provare a non irritarsi, in una sorta di buffa lotta con se stesso che avrebbe anche potuto far ridere Aomine, se non ci fosse stato di mezzo Tetsu. Probabilmente Kagami stava cercando di scegliere se limitarsi a insultarlo come uno scaricatore di porto per l’impudenza di sentire ancora Tetsu, picchiarlo in maniera selvaggia per aver portato avanti l’argomento, infondersi calma per capire meglio cosa stesse cercando di insinuare oppure ancora prendere aria per poi chiedergli notizie di Tetsu. Kagami era pur sempre il suo miglior rivale, se Aomine non avesse saputo saper leggere bene i suoi pensieri e le sue intenzione che razza di gioco ci sarebbe stato fra di loro? – un gioco che durava da anni, ma vabbé…
Alla fine Kagami però dovette arrendersi a ripiegare sull’ultima opzione. «Hai qualcosa da dirmi su Kuroko?» Sembrava anche essere deciso a giocare a carte parzialmente scoperte.
Aomine spostò di lato le patatine fritte. «In realtà avrei parecchie cose da dirti su di lui, però… non so, tu le vuoi sapere davvero queste cose?»
Lui aggrottò la fronte. «Certo!»
Allargò le braccia con espressione sorpresa ed esasperata. «E allora perché diavolo non gliele hai mai chieste?!»
Kagami ebbe il buon gusto di non sbottare subito e rifletterci sopra. «La situazione fra me e lui si è fatta un po’ imbarazzante prima della mia partenza…»
«Come mai?» insisté.
«Beh» si grattò la testa, «era ovvio che io e lui avessimo parecchie cose da dirci prima di salutarci, credo fosse anche normale dopo tutto il tempo passato insieme, ma… non l’abbiamo fatto».
«Perché?»
«Non lo so!» stavolta sbottò sul serio. «Forse avevamo paura di usare le parole sbagliate nella circostanza più sbagliata».
Aomine si sentì in dovere di aspettare che lui bevesse prima di fare la propria esternazione. «Da come la descrivi tu, questa situazione mi sembra la cosa più gay che io abbia mai sentito dopo te e Himuro Tatsuya che vi scambiate degli anelli» disse con ironia ma senza alcuna malizia.
Ovviamente a Kagami andò il sorso di traverso. E gli arrossirono le orecchie. Bingo.
«N-non è così!»
«Ah sì? Tu e Himuro non ve la intendevate in quel senso?» domandò falsamente serio.
«No!!» rispose con un urlo strozzato.
Incalzò con un’altra domanda diretta prima di dargli il tempo di rilassarsi e realizzare dove lui volesse parare. «E tu e Tetsu, invece?»
Kagami aprì bocca per rispondere, poi capì e produsse invece un verso inarticolato e orrendo; allungò pure le mani nel vago tentativo di strozzarlo, ma lui restò impassibile e lo fissò negli occhi, serio.
«Tu e Tetsu, invece?» ripeté.
Kagami si ritrasse e sprofondò nella sedia, rassegnato. «Tu cosa ne sai di me e Kuroko?»
«Non lo so» ostentò noia, «forse tutto o forse niente, visto che so solo la parte di Tetsu. Che ovviamente non ti dirò». "Tu puoi essere tutto quello che voi per lui, qualsiasi altra cosa, ma il suo migliore amico sono ancora io e quindi taccio. Lasciami quel posto o ti ammazzo".
«Non è esattamente come stai pensando» borbottò Kagami poco convinto.
«Aiutami a capire secondo te cosa sto pensando».
«Lo sai cosa stai pensando!»
«Certo che lo so, lo sto pensando io!» Perché tirargli fuori la verità stava diventando più complesso di marcare a uomo un playmaker?
«Aomine, vorresti… Vuoi…» balbettò nervoso, agitato e irritato, «vuoi… vuoi parlare
«Guarda che sei tu quello che sta facendo di tutto per non parlare!» Ponderò per un attimo se sbattergli o meno il vassoio dei panini in testa in modo infantile – Tetsu al posto suo l’avrebbe fatto, in mancanza di una polsiera elastica – ma poi il suo cellulare vibrò di nuovo scuotendo il tavolo e attirando l’attenzione di entrambi.
«È Satsuki» gli spiegò coprendo veloce lo schermo con una mano per poi spegnere l’apparecchio. Notò che il suo brusco cambiamento d’umore non era passato inosservato a Kagami, che però non fece alcun commento, semmai ne approfittò per sfilarsi da sotto quella pressione e porsi più serio e quieto.
«Aomine, c’è qualcosa che dovrei sapere su Kuroko?... Sta bene?» mormorò preoccupato.
«Sì, che sta bene!» agitò una mano come a scacciare una mosca. «Sta una meraviglia: fresco, apatico, bizzarro, teatrale nei discorsi su luci e ombre, incline a darti infarti, trasparente e fantasmagorico come al solito! Niente di nuovo sotto il sole». Inspirò a fondo. «Ascolta, Tetsu non è… non è come me, ok? Se tiene a qualcosa, se ne accorge subito» fissò il proprio cellulare e per un attimo pensò a Satsuki, «come si accorge subito se la sta perdendo. Però essere un tipo incapace di arrendersi non vuol dire arrampicarsi sugli specchi o attaccarsi al nulla: bisogna trovare una ragione per non arrendersi, anche se piccola, anche se quella ragione è un mucchio di parole arroganti…» si riferì a se stesso e a come Tetsu non l’aveva lasciato perdere, «va bene tutto per attaccarsi e non perdere la speranza, anche qualcosa che non vorresti mai sentirti dire, perché è pur sempre meglio dell’indifferenza. Va bene tutto tranne il silenzio, quello no» sentenziò sicuro. Kagami fissò il proprio vassoio e tacque.
«Dai a Tetsu una ragione per non arrendersi, ok?» continuò. «Perché lui potrebbe anche darla a te e non va bene fare gli idioti imbarazzati e non cogliere questa opportunità, non va bene per niente» gesticolò, «come non va bene per niente fingere di non capire quello che c’è in corso».
«…speravo solo che non finisse male».
«Perfino una brutta fine può avere una sua dignità, sai?» Si riempì la bocca di patatine e parlò a bocca piena. «Come quando giochi una partita dando il meglio di te, ma perdi» mandò giù il boccone, «è brutto forte perdere così, ma se hai giocato con dignità cos’hai da rimproverarti? Tu e Tetsu non avete dato né il meglio né il peggio di voi: non avete dato proprio niente!»
«E tu sei certo che…»
«Gli manchi» buttò lì, «ma non ti dirò né come né perché: questi sono cazzi che devi risolverti da solo» sentenziò asciutto.
Restarono in silenzio per qualche secondo, poi Kagami sbuffò ma restò sulle sue. «Cosa fa Kuroko adesso?»
«Chiedilo a lui».
«Gioca ancora ogni tanto?»
«Chiedilo a lui».
«Sa che oggi hai giocato contro di me?»
«Chiedilo a lui».
«C’è qualcosa che posso chiedere a te?» sbottò.
«Sì» rispose annoiato, «tipo che ore sono».
Batté un pugno sul tavolo e lo guardò furioso. «Che ore sono?» domandò quasi ringhiando.
«Le 18,35» ribatté indifferente guardando l’orologio da polso, «quindi mi sa che devo andare a recuperare Satsuki, prima che mi scagli contro altre improbabili ingiurie o degli auguri pochi signorili» si alzò dal tavolo.
Kagami ghignò. «Non che tu sia signorile».
Lo fissò mortalmente serio. «Stiamo parlando di Satsuki» precisò.
Mise le mani avanti. «Ok».
Aomine riprese il proprio borsone e sospirò afflosciando le spalle. «Ci vediamo al prossimo torneo, idiota di un Kagami» sbuffò.
Lui alzò una mano in cenno di saluto. «Avrò la mia rivincita».
«Sì, credici» ghignò. «Manda i miei omaggi a Hyuga e signora! E i miei saluti a Tetsu!» gli voltò le spalle.
«Va bene, alla prossima!» e poi aggiunse a voce più bassa «E grazie».
Lui non si voltò, accennò un ghignò e alzò il braccio per accennare un vago saluto; uscì dal locale.
Riaccese il cellulare e controllò subito se avesse ricevuto dei messaggi; sorrise quando ne vide uno da parte delle cagne infernali. A esser sinceri le cheerleader del suo college erano soprannominate lupacchiotte infernali, ma Aomine pensava che cagne infernali rendesse centomila volte meglio l’idea, e i suoi compagni di squadra concordavano con lui.
Le cagne gli avevano appena inoltrato un link per scaricare una cartella compressa contenente parecchie foto di Kagami Taiga completamente nudo. Sotto la doccia.
Tetsu avrebbe di sicuro apprezzato: solo lui poteva competere con se stesso per essere il migliore amico di Tetsu.


Yukio era stato costretto a una settimana di riposo dagli allenamenti per un dolore alla gamba, niente di grave però, solo dei muscoli e dei tendini sotto stress; ne aveva approfittato per fare compagni a Ryota quando andava al parco dalle bambine.
Le piccole ora erano in sei – più Ren, l’impavido e tragicomico protettore di Ayame – e per quanto lo seccasse notare delle strane coincidenze, lo divertiva anche osservarle e notare in cosa somigliavano o differivano rispetto alla Generazione dei Miracoli.
Ayame era senza dubbio uno strano incrocio fra Aomine e Kagami, ma più introversa e meno irascibile di loro, anche se piena di energia. Era fraintendibile perché parlava poco e quando lo faceva era tagliente – troppo schietta e sincera – ma sapeva essere affidabile e protettiva. Era ambiziosa quanto bastava, sarebbe diventata un asso nobile e cocciuto perché lo era già in ogni fibra del suo – ancora – piccolo essere.
Nana rispecchiava Kise sia per il carattere che per le alte capacità di apprendimento veloce, ma al contrario di lui non copiava le mosse altrui, anzi le comprendeva e assimilava smontandole pezzo dopo pezzo e poi dalle ceneri ne costruiva delle nuove per contrattaccare, o difendere; non stava sviluppando delle capacità da ala piccola come Kise, Nana sarebbe stata invece un ottimo centro – stava pure diventando sempre più alta.
Su Sakura c’era poco da discutere, il ruolo di guardia tiratrice le calzava a pennello, ma era buffo come il suo carattere richiamasse più quello di Takao che quello di Midorima – ma anzi era a dir poco una fortuna.
Yuri, seppur ancora piccola, aveva già un incredibile fisico da atleta perché la madre era una campionessa di ginnastica artistica specializzata nel volteggio che avrebbe voluto inculcare alla figlia la passione per la propria disciplina, visto che come lei era nata con delle buone predisposizioni fisiche, ma come si poteva ben vedere non ci stava riuscendo: la bambina stava preferendo il basket, sport ben lontano dalla ginnastica. Yuri era allenata e preparata, aveva grandi riflessi e una buona resistenza fisica, e queste solide basi derivate anche da un’eredità materna naturale e non richiesta rendevano la sua storia personale simile a quella di Murasakibara, ma al contrario di lui, lei amava il basket a prescindere e lottava con forza per far capire a sua madre che era quella la sua strada, non la ginnastica artistica. In più Yuri non sembrava affatto un centro, ma un’ala piccola.
Hinata rispecchiava Kuroko, anche se non aveva la tendenza a sparire perché dotata di poca presenza fisica, era lei stessa che si nascondeva sempre o si mimetizzava con l’ambiente per osservare gli altri non vista, perché era molto timida e riservata, ma anche furbissima. Non era neanche molto debole rispetto alle altre, anzi era quella che correva più veloce pur essendo la più bassa, ed era una "specialista" proprio perché osservava tutto e sapeva quindi come comportarsi in ogni occasione e gestire al meglio le proprie mosse.
Tsubaki era invece la preferita di Yukio.
All’inizio quel suo essere introversa e silenziosa e i suoi capelli rossi gli avevano ricordato troppo Akashi, poi aveva scoperto che nonostante le apparenze si era molto legata alle altre e che in generale non era da lei dimostrare affetto con le parole o con i gesti, andava a sentenze assolute: se un bambino osava prendere in giro una delle sue amiche, lei impassibile e silenziosa gli lanciava un pallone in testa; se vedeva che qualcuno era triste, si sedeva accanto a lui e senza proferire parola divideva una merenda con lui. Era schiva quanto protettiva, e la sua violenza nel picchiare gli stupidi gli ricordava il modo in cui lui prendeva a calci Kise ai tempi della scuola – solo che lui lo faceva anche urlando.
Per quanto Yukio non potesse di certo giocare con le bambine per via della gamba, in quei giorni si era divertito molto a dispensare consigli e suggerire mosse, e quasi gli dispiaceva dover rinunciare a quei momenti.
Spifferò all’orecchio di Tsubaki un altro suggerimento con finto fare cospiratorio per caricarla, poi le diede una piccola pacca sulla testa invitandola a tornare a giocare; Ryota si sedette al suo fianco sulla panchina.
«Un giorno potresti allenare una squadra come Kagetora-san» gli suggerì il suo ragazzo.
«Non so» rispose Yukio sincero, «non ho mai valutato la cosa… anche se stare con chi ha voglia di imparare come loro» indicò le piccole, «beh, mi dà molta energia e nostalgia insieme, perché mi riporta ai tempi in cui il basket era meno competitivo e non professionale per me, solo passione». Sospirò. «Non che io voglia mollare la prima professione, ovvio» sorrise, «però come tutti i lavori ogni tanto il mio pesa troppo».
«Lo so» gli replicò sospirando apprensivo. «Ci sono notizie sulle convocazioni in nazionale?»
Il peso delle aspettative era tanto, e per giunta lui si era infortunato quando avrebbe dovuto mettersi in mostra dando il meglio di sé. «Ancora no».
«Ti chiameranno» annuì fiducioso Ryota intrecciando le dita alle sue.
Lui sbuffò un sorriso. «In ogni caso sarò di sicuro solo una riserva».
«Per ora» continuò sullo stesso tono.
Tsubaki corse verso di loro. «Acqua» chiese inespressiva seppur col fiatone.
Yukio le porse una bottiglietta e lei ne bevve a grandi sorsi. «Stai diventando sempre più brava!» le disse sorridendo scostandole una ciocca di capelli rossi dagli occhi. «Un giorno sarai una grande playmaker!»
Lei annuì e poi parlò tutto di un fiato, a voce bassa ma sicura. «Diventerò una playmaker, vincerò il campionato di basket sia alle medie che alle superiori e così poi potrò sposare Kasamatsu-sama». Arrossì sull’ultima parola e tornò veloce a giocare con le altre.
Per un lungo attimo i due restarono impassibili, poi Yukio si rese conto che francamente gli stava scappando da ridere, ma Ryota era serissimo.
«Yukio, perché una mia protégé vuole sposare te
«Non lo so».
«Non è divertente».
«Lo so».
«Non ridere».
«Puoi sempre dare la colpa ad Akashi».
«Ripeto, non è divertente».
«E ti immagini se andrà alla Rakuzan?»
«Non è questo il punto: non deve sposarti, deve togliersi quest’idea assurda dalla testa».
Yukio lo fissò divertito. «Ti preoccupi perché sai che preferisco quelli più giovani di me?» e lo vide sforzarsi di non cedere: Ryota l’accusava sempre di essere troppo burbero e poi finiva sempre col diventare più flessibile quando una volta tanto lo vedeva ridere. Ogni tanto andava bene giocare sporco.
«N-non vale» balbettò Ryota, cocciuto.
Yukio scoppiò a ridere e nascose la testa nell’incavo del collo di lui: convocazione della nazionale o meno, tutto quello che voleva davvero dalla vita era già accanto a lui.





Note: le canzoni cantate da Takao sono in ordine "Without you" di Mariah Carey, "Total Eclipse of the Heart" di Bonnie Tyler e "Pride" degli U2 :)
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo!
Ciaps!
Fall.

   
 
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