Clair de Lune.
Perchè è quando
guardi la luna,
che ogni emozione
si annulla
devota alla sua
misteriosa bellezza.
La luna era alta nel
cielo, chiara, bella e malinconica.
Si stagliava fiera e
maestosa sullo Stretto di Messina e il suo riflesso rischiarava gli ambienti,
anche se le luci arancioni dei lampioni ne dimezzavano la bellezza. A quell’ora
vi erano poche persone intente a passeggiare, mentre un solo ragazzo stava correndo in mezzo ai
passanti rimasti, creando piccole nuvole
di condensa a causa della corsa.
Era alto e bello. Una di
quelle bellezze semplici, dagli occhi verdi e i capelli biondi.
Chiuse gli occhi e
sospirò, auto insultandosi per aver ritardato anche quella volta.
Aveva tirato troppo la
corda con Daniel e adesso era stato piantato per l’ennesima volta, anche se era
una conseguenza diretta del suo ennesimo ritardo.
Era colpa esclusivamente
del principale e del fatto che le clienti facessero richiesta esplicitamente di
lui e dei suoi cocktail, al bancone; lui si sarebbe tolto la divisa in meno di
un secondo, se non gl’avessero chiesto di fare uno di quei straordinari spacca
schiena ma estremamente visibile sul portafogli.
Improvvisamente si sentì
perso. Perso semplicemente per il fatto
che fosse solo, a pregare per l’impossibile e a chiedersi come avesse potuto far
tardi anche quella volta.
Gli piaceva da impazzire
Daniel e lui non aveva creduto all’ultimatum mormorato dalle sue labbra,
cullandosi sul fatto che si erano appena dichiarati.
<< Aaah! >>
dal suo metro e ottanta era troppo facile vedere le teste delle persone, ma
nessuna aveva quella colorazione d’alabastro puro.
Si rannicchiò su se stesso
in una posizione fetale, incurante degli sguardi dei pochi passanti, e
mordicchiò l’unghia del pollice destro, mentre l’altra andava a posarsi in
testa.
Da dove proveniva lui, uno
di quei paesi montani dimenticati perfino dagli stessi Siciliani, il mare era
solo la fervida immaginazione di quelli che desideravano vederlo, espresso da
disegni infantili e temi sulle condizioni dei ghiacciai durante medie e
superiori. A lui era bastato il diploma
per cercare un lavoro pulito e mettersi in testa che l’Italia stava andando
allo scatafascio.
Si alzò in piedi e si
mosse con l’intento di tornarsene a casa e pensò bene di chiamare Daniel,
promettendosi di portarlo a ballare al M’Ama quel sabato sera, così da sentirsi
meno in colpa.
Con un sospiro teatrale
Jacopo tagliò per le rotaie saltò sul
marciapiede opposto, superò la strada a doppio senso di percorribilità
all’altezza di Perigolosi, la gelateria seconda solo a Santoro a Piazza
Cairoli, scavalcando anche la recinzione nuova di mesi, fatta per dividere la
zona portuale dalla strada, e atterrò
sul molo bagnato dalla salsedine annusando a pieni polmoni ciò che Daniel
chiamava tanfo.
Lui trovava quell’odore
come caratteristico e affascinante.
Poi quella sera doveva
essere la sua notte fortunata: la luna era alta in cielo e veniva riflessa dal
mare presente nello Stretto, mentre la tranquillità delle onde che si
infrangevano contro le pietre sembravano una cantilena atta ad affermare la
bellezza della luna stessa. Da dove era posizionato lui, si riusciva a vedere
perfino il Pilastro di Messina e
<< Non pensi che sia
tardi per mandarmi un messaggio? >> la voce perennemente bassa e roca di
Daniel lo fece saltare sul posto., facendogli quasi perdere la presa
sull’Iphone. Con il display illuminò la persona che gli era al fianco, in piedi
con le mani nelle tasche, un leggero fiatone, in tenuta da corsa con una
semplice felpa primaverile a coprirlo e dei pantaloni aderenti che mettevano in
risalto le gambe non troppo muscolose ma atletiche.
I suoi occhi verdi,
incontrarono quelli ambra di Daniel, mentre i capelli d’ebano si confondevano
con le ombre in giochi poco chiari di colori: cos’era più scuro?
Jacopo boccheggiò un paio
di volte e Daniel s’accomodò al suo fianco, togliendo dalle orecchie anche
l’altra cuffia dell’Mp3 per andare a posarlo dentro l’unica tasta davanti la
felpa blu notte che indossava.
L’altro incassò ancora di
più la testa fra le spalle e si scusò. << Mi hanno trattenuto fino le due
al bar senza darmi tregua. >> si giustificò poi, vedendo che l’altro
continuava ad avere la sua solita faccia inalterabile e fredda e guadava il
panorama.
<< Jacopo… >>
disse ad un tratto Daniel. << Sono stato ad aspettarti fermo per più di
tre ore. Avevamo appuntamento alle undici e mezza: cosa ti costava prendere
quello stupido aggeggio e mandare un messaggio? >> in viso nessun
cambiamento, solo una labbro leggermente arricciato e la voce accigliata.
<< Comunque… >> aveva sospirato il corvino rimettendosi in piedi.
<< Io t’avevo avvertito. >>
E così come era arrivato
alle sue spalle, dopo essersi rimesso in piedi, stava andandosene.
I passi di Daniel erano
silenziosi, in una corsa leggera e senz’affanno, anche se manteneva un ritmo
serrato, abbastanza veloce.
I passi di Jacopo erano
trascinati e stanchi, incespicanti, e tenevano il passo senza fatica, poiché se
Daniel compiva tre passi, a lui bastava farne uno abbastanza ampio per
raggiungerlo. << Sei irritante, Jacopo. >> borbottò il corvino e
l’altro sorrise, cercando di farsi rivolgere come minimo un’occhiata.
Daniel affrettò il passo
sul lungomare, per nulla intimorito dal freddo pungente invernale e dalla
pioggerellina che stava prendendo a cadere dal cielo e Jacopo, nella corsa, si
tolse il giubbotto a vento, per gettarlo sulle spalle del più basso,
arrendendosi al fatto che non gl’avrebbe rivolto nemmeno un insulto e se ne
andò con un sorriso sghembo in viso.
Daniel si fermò tenendo
ben salda la giacca sulle spalle e guardò dietro sé: non vide più nessuno;
automaticamente si guardò intorno e lo vide attraversare la strada deserta con
la testa infossata nelle spalle, il passo lento e mogio e un broncio degno del
miglior bambino testardo che voleva la caramella e non poteva averla.
Sospirò, trovandosi ancora
molto arrabbiato per quella serata e riprese a correre, cercando di cancellare
dal petto la delusione e la rabbia.
A lui non piacevano né i
cani, né i bambini, né gli idioti. Si chiedeva sempre come fosse riuscito a
farsi ammaliare da Jacopo e puntualmente
alzava le spalle, senza trovare risposta.
In fondo sapeva che era
impossibile psicoanalizzare se stessi, ma contava sul fatto di riuscire a
pensarsi in terza persona e a parlare di sé oggettivamente come da sempre
faceva.
Sospirò e decise che per
quella notte aveva corso abbastanza, ricordando che l’indomani aveva delle
lezioni e da lavorare.
Tornò a casa verso le
cinque meno venti del mattino e dormì tre ore prima di alzarsi e andare
all’università.
Per tutte le quattro ore,
si era sorbito le lamentele dei suoi colleghi e di Cassandra, la ragazza più
chiacchierona e pettegola del corso di pedagogia, su quanto fosse stanca di
stare al gioco di quattro vecchi bacucchi, sapendo all’ultimo momento le date.
<< Studia. >>
si era limitato a sbuffare mentre ascoltava in modo passivo il professore e
contemporaneamente la castana, in carne e dalle forme generosamente abbondanti
che, a quella risposta così disinteressata e articolata, aveva cambiato posto e
aveva preso a lamentarsi con altre ragazze.
Daniel aveva alzato le
spalle con la solita aria sfaticata e fannullona, prima di controllare
l’orologio. << No problem. Però devo essere a Provinciale prima delle
cinque. >> aggiunse, mentre il professore lo trascinava a destra e manca
per la sede, mettendolo alla prova: la sua memoria era fenomenale.
Dicevano spesso che casi
come lui erano rarissimi e quasi introvabili, specie se si riusciva a
memorizzare materie su materie in una settimana e ricordarne il contenuto a
vita.
La cosa non lo toccava
minimamente e, anzi, più domande gli facevano, più il pensiero andava a quell’idiota
di Jacopo e al fatto che non gli avesse mandato un messaggio, nemmeno per
scusarsi.
<< Dovresti
comperarti un nuovo telefono. Sai? >> alzò gli occhi dal telefono solo
per incrociare gli occhi ambra della
sorella e alzare le spalle, indicandole il posto vuoto davanti al suo con un
cenno del capo.
La sorella, il suo esatto contrario, sorrise
in modo furbo e si appoggiò allo schienale della sedia, adocchiando uno dei
camerieri del locale.
<< Com’è andata ieri
con Jacopo? >> chiese in fine, spronando il fratello a parlare.
<< Quale Jacopo?
>> lasciò intendere tutto e la sorella si batté una mano sulla fronte,
scotendo il capo.
<< Hai seguito il
tuo ultimatum? >> sospirò affranta mentre il corvino si ripuliva gli
angoli delle labbra con un fazzoletto e si dirigeva alla cassa per pagare.
<< A me piacciono le
ragazze, Sara… >> mormorò camminando sotto il sole caldo in direzione di una delle fermate del tram, guardando
di sottecchi il Tribunale e la sua spropositata cupidigia.
<< E’ un idiota.
>> ammise infine e attraversò la strada mentre Sara gli si appiccicava al
braccio con fare gioioso.
<< Non lo sono anche
io, fratello? >>
Daniel sospirò al ghigno
vittorioso della sorella e annuì sbrigativo, mentre vedeva da lontano il mezzo
pubblico.
Il suo lavoro lì
consisteva semplicemente nel fare compagnia alla signora, autosufficiente ma
con uno stato di alzheimer che la stava divorando poco a poco.
<< Sta mangiando?
>> domandò in modo piccato, notando la magrezza del volto e delle
dita affusolate.
<< Certo… >>
rispose e si andò a sedere su una delle poltroncine del grande salone
indicandogli di fare altrettanto.
Lui lo chiamava “lavoro”
quello, ma in realtà era un favore che faceva alla sua migliore amica, andata a
Londra per un corso studi di due anni, che non aveva nessuno di fidato a cui
affidarla.
E poi lui e la signora
Nina avevano un patto: quando lei non sarebbe stata più in grado di ricordare,
lui le avrebbe riraccontato ciò che lei aveva raccontato lui, senza omettere
nulla.
Il pomeriggio passò così,
fra un racconto e un altro, confermando la tesi di Daniel sulla solitudine
delle persone anziane, che sopravvivevano ai loro figli e della loro
desolazione nel petto quando raccontavano a qualcun altro le loro storie.
Il telefono vibrò per
quindici volte.