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Autore: EvgeniaPsyche Rox    15/06/2013    6 recensioni
Roxas ha sedici anni, ma è un ragazzo estremamente ingenuo e non conosce quasi nulla del mondo che lo circonda; sogna comunque posti a lui sconosciuti ed è pronto a tutto pur di esplorarli, forse addirttura intraprendere un viaggio che lo aiuterà a maturare davvero.
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Roxas si guardò fugacemente attorno e si avvicinò maggiormente all'uomo, quasi avesse voluto sussurrargli un segreto di massima importanza. «Ieri sera ho visto una luce provenire da quella parte», e indicò un punto perso dietro di sé, «mi saprebbe dire che cos'era?»
Il panettiere assunse un'espressione stralunata; sbatté ripetutamente le palpebre, incredulo di fronte alle parole del ragazzo. Certo, giravano parecchie voci su di lui, ma possibile che fosse arrivato a simili livelli?
«Mi stai prendendo per il culo, ragazzino?»
Roxas sussultò appena a quel tono così aspro e a quel linguaggio che faticò a comprendere. «No signore, non mi permetterei mai.»
L'uomo sospirò pesantemente e si mise entrambi i sacchi sulle spalle, iniziando ad incamminarsi verso casa. «Perché non vai a controllare tu stesso? Quella luce la troverai sempre lì, di sera.»
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
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2. Red


Quando allungarono le loro mani appicicose e viscide, fu istintivo per lui ritrarsi e indietreggiare, come faceva sempre.
Erano volti senza espressione, senza occhi, bocca e naso. Erano individui che sembravano essere stati creati per lui, per spaventarlo, per sporcargli i sogni.
Non camminavano, si trascinavano e basta. Sguazzavano nel nulla, alla ricerca di lui, della sua anima; volevano rubargli il cuore, ne era sicurissimo, era quello a cui miravano.
E lui non aveva nulla per difendersi. Solo le gambe per fuggire, fuggire e fuggire.
Una corsa eterna che si interrompeva al sorgere del sole, per poi ricominciare al calar delle tenebre.
«Roxas?»
Il nero che vibrò appena di fronte ai suoi occhi, un dito che lo sfumava, mescolando le strane figure tra di loro.
«Roxas, forza, è ora di alzarsi.»
Si infransero nell'essenza del suo incubo, lasciandolo lì, solo, prima di essere catapultato con violenza nel mondo reale; Roxas riaprì lentamente le palpebre, infastidito dalla voce di sua madre.
«Alzati, dai. Oggi ti accompagnerò io a scuola.», e, dopo aver annunciato ciò, la donna sollevò le persiane della piccola stanza, donandole un po' di luce.
Il ragazzo si mise lentamente a sedere sul letto, osservando con aria ancora assonnata le coperte sparpagliate sul materasso; si strofinò gli occhi e voltò le iridi blu verso la finestra, scrutando i nuvoloni che annunciavano un vicino temporale.
Sua madre non voleva che si recasse a scuola da solo con la pioggia; diceva che avrebbe rischiato di prendersi un malanno e, quando un giorno lui aveva provato a chiederle perché gli altri ragazzi uscivano comunque, lei lo aveva sgridato moltissimo, come sempre d'altronde.
Appoggiò i piedi nudi sulle gelide assi di legno e rabbrividì a quel contatto; si alzò e tentò di mantenere l'equilibrio, avviandosi successivamente verso la porta mentre sua madre era già intenta a sistemare le coperte.
Scese le scale ed entrò in bagno, chiudendo la porta dietro di sé; fece scorrere l'acqua del lavandino e si sciacquò ripetutamente il volto, guardandosi poi con estrema attenzione allo specchio.
Ogni mattina era sempre la stessa storia; passava almeno tre o quattro minuti ad osservare il proprio riflesso con estrema attenzione, timoroso di trovare delle tracce lasciate dalle ombre maligne che popolavano i suoi incubi notturni.
Niente. Niente di niente. Vuoto. Zero assoluto.
Le ombre non facevano altro che scuoterlo dentro, lasciandolo comunque intatto esteriormente. E Roxas conosceva esattamente il perché di questa loro tattica; volevano semplicemente che lui non dicesse nulla a nessuno, ecco qual era la verità. Non avrebbe potuto farlo perché non possedeva alcuna prova concreta. Loro vivevano nei suoi incubi e basta; passavano la giornata sotto il suo piccolo letto ad aspettare l'arrivo delle tenebre per poter sgusciare via ed entrare così con forza nel suo sonno, tingendolo di nero.
Doveva assolutamente tornare alla fabbrica per poter prendere l'arma da donare al suo pigro guardiano.
Afferrò i vestiti che sua madre, come ogni mattina, aveva preparato e appoggiato vicino al lavandino; dopodiché si tolse velocemente il pigiama e lo piegò con cura prima di indossare un paio di pantaloni piuttosto larghi insieme ad una camicia bianca.
Successivamente fece scattare la serratura della porta e uscì dal bagno, avviandosi immediatamente in cucina dove già lo stava attendendo sua madre, seduta sulla solita sedia beige; Roxas prese posto di fronte alla donna e afferrò il cucchiaio, iniziando a mangiare la quotidiana dose di uova strapazzate, ascoltando nel frattempo con aria un po' distratta le notizie alla radio.
«Allora Roxas, quali materie avrai oggi?»
Il ragazzo si strinse impacciatamente le spalle e si pulì le labbra leggermente sporche con il tovagliolo, affrettandosi poi a rispondere: «Matematica, due ore di biologia, ginnastica e-»
«Ginnastica?»
«Sì.»
«Sai che cosa devi al maestro, vero?»
Roxas annuì in un gesto meccanico. «Sì, che non mi deve far affaticare troppo.», mormorò piano, ottenendo un sorriso di approvazione da parte della donna che si alzò, sistemando il proprio piatto nel lavandino; il giovane nel frattempo assunse un'espressione malinconica e osservò intensamente la bevanda calda all'interno della tazza bianca. In realtà avrebbe desiderato ardentemente dire al maestro che ormai era diventato un atleta, sì, uno di quei famosissimi atleti che correvano per chilometri e chilometri senza stancarsi mai. Avrebbe voluto raccontargli che di notte era riuscito a scavalcare la piccola altura di casa sua senza alcun aiuto; avrebbe voluto narrargli di come era arrivato correndo fino al mare; avrebbe voluto parlargli delle novantanove scale che aveva fatto per raggiungere il punto più alto della fabbrica. A quel punto il maestro gli avrebbbe sicuramente dato il massimo dei voti e tutti i suoi compagni si sarebbero alzati e gli avrebbero applaudito. Un applauso lungo e intenso, tutto per lui, per Roxas Persson.
Sì, sarebbe andata sicuramente così, se gli avesse raccontato tutto.






«Verrò a prenderti.»
«Cosa?»
Sua madre sollevò istintivamente un soppraciglio, reggendo nel frattempo l'ombrello verde militare tra le mani. «Verrò a prenderti, Roxas.»
«Ma... Ma...», iniziò a balbettare il figlio, sperando di assumere un tono convincente. «Magari... Magari potrebbe smettere di piovere, dopo! E magari uscirà il sole!»
La donna scosse la testa con aria severa e si strinse maggiormente nel cappotto. «Non voglio rischiare di farti tornare a casa da solo con la pioggia. Si può sapere che cos'hai in questi giorni, Roxas? Perché mi fai tutte queste domande? Lo sai che quello che faccio io è esclusivamente per il tuo bene.»
Il biondo, che si era allontanato leggermente dall'ombrello, bagnandosi un poco le ciocche dorate, si limitò ad annuire lentamente e sospirò. «Sì, lo so mamma.»
«Allora ci vediamo dopo.»
«Sì. Ciao mamma.»
«Fai il bravo, mi raccomando.», e, dopo aver detto ciò, la signora Persson si voltò e si incamminò verso il cancello, ottenendo lo sguardo di tutti i ragazzi presenti che iniziarono immediatamente a scambiarsi sussurri tra di loro.
Roxas si strinse la cartella sulle spalle e si avviò verso il portone della scuola, sentendo di sfuggita un aspro commento da parte di un suo compagno: «Ehi Roxas, perché 'sta mattina la mammina ti ha accompagnato? Aveva paura che l'acqua ti bruciasse i capelli?», sogghignò beatamente il ragazzo, facendo ridere altri suoi amici accanto a lui.
Il biondo, dal canto suo, si voltò e sbatté ripetutamente le palpebre, scuotendo la testa. «Oh, no, l'acqua non può bruciare, a meno che non sia davvero caldissima. Ma non ti preoccupare, è impossibile che l'acqua piovana sia così calda.»
A quella risposta il suo interlocutore scoppiò in una grassa risata e si piegò in avanti, seguito a ruota dagli altri presenti. «Dimmi che stai scherzando, ti prego! Non puoi dire sul serio, cazzo!»
L'esclamazione finale sembrò turbare particolarmente Roxas perché corrugò la fronte, arricciò le labbra e riprese la parola, leggermente infastidito. «No, io non sto scherzando. L'acqua non brucia, è che mia madre non voleva che io mi raffreddassi». Sperò vivamente che quella risposta riuscisse in qualche modo a zittirli, ma ottenne il risultato contrario; loro non fecero che ridere, ridere e ridere.
Continuarono a ridere, e Roxas si accorse di quanto fosse brutto essere preso in giro in maniera così ostinata.






Rotolò sull'erba fino ad andare a sbattere contro un albero; Roxas allora soffocò a stento un urlo e si mise entrambe le mani sulla fronte addolorata, massaggiandosela ripetutamente.
Doveva fare certamente più attenzione. Andando avanti di questo passo si sarebbe procurato un sacco di lividi.
Successivamente si sdraio su quei fili tinti di un verde smeraldo e mantenne lo sguardo in alto, tuffandosi nell'azzurro del cielo così immenso, alto ed infinito.
Le nuvole si rincorrevano l'un l'altra, facendo a gara per chi assumeva la forma più strana; vide un gatto, un fiocco di neve, un cespuglio e addirittura un'arcobalena.
Socchiuse gli occhi, inspirando l'aria fresca a pieni polmoni.
Ma se le nuvole assumevano sempre forme strane, si chiese improvvisamente, allora qual era il loro reale aspetto?
A quel dubbio così insistente Roxas si mise a sedere di scatto, assumendo una smorfia pensierosa, quasi imbronciata, per chissà quale assurdo motivo.
Qual era il reale aspetto delle nuvole?
Ma soprattutto, esse possedevano un reale aspetto? O erano soltanto un ammasso di bianco, un qualcosa di indefinito, degli esseri che esistevano semplicemente per imitare?
Un po' come gli specchi, si ritrovò a pensare il giovane.
Gli specchi senza qualcosa da riflettere non sono nulla.
Era triste ed ingiusto. Perché c'erano cose che non potevano avere una propria forma, una propria caratteristica? Perché dovevano per forza limitarsi ad imitare ciò che incontravano? Chi glielo aveva imposto?
Forse avrebbe potuto chiederlo al generale, una volta incontrato.  Avrebbe anche potuto domandarlo alle nuvole stesse, ma in quel momento sembravano così spensierate e felici che proprio non gli andava di rovinare la loro gioia.
Strofinò leggermente la mano sull'erba e la scrutò attentamente, in attesa.
Che cosa c'era sull'erba, solitamente? Insetti? O forse farfalle? O magari entrambi?
Un raggio di luce particolarmente forte forò una nuvola, infrangendola del tutto; Roxas allora si alzò di scatto, stupito da quell'improvvisa interruzione.
Pensò che il sole si era comportato proprio in maniera scorretta nei confronti delle nuvole. Che fosse geloso della loro bravura nell'imitare il mondo?
Questa volta, in un impeto di improvviso coraggio, fece per domandarglielo, tra il curioso e l'arrabbiato, quando si accorse che ciò che aveva distrutto la nuvole non era il sole; i fili d'erba sotto di sé tornarono ad essere delle monotone assi di legno, così come l'albero su cui si era scontrato assunse il suo aspetto naturale, ovvero quello di un banale comodino leggermente impolverato.
E, al tempo stesso, il cielo così azzurro e intenso mutò colore, tornando ad essere una soffitta immersa nelle tenebre.
Le nuvole svanirono magicamente, lasciando posto alla luce della fabbrica che, come ormai ogni sera, sembrava divertirsi particolarmente ad infastidire i viaggi del ragazzo.
Quest'ultimo rimase perfettamente immobile al centro della stanza, intento a scrutare il nuovo ospite, anche se ormai non era più così nuovo. «Lo so che mi stai chiamando, ma ora non posso venire».
La luce continuò ad esplorare la stanza in una voragine apparentemente infinita.
«Rischierei di farmi male di nuovo.», spiegò con aria seria Roxas, disegnando qualcosa di indefinito con il piede sinistro sulle assi del pavimento. «comunque domani verrò, non ti preoccupare. Tu di' al generale che ci sarò e chiedigli scusa da parte mia per essere scappato come un codardo.»
La luce gli illuminò parte del volto, facendolo sussultare appena; il sedicenne allora immaginò che quello simboleggiava sicuramente il fatto che gli stava dedicando la sua totale attenzione. Poi voltò lo sguardo verso la piccola finestra chiusa e si perse tra i propri pensieri.
E se il generale gli avesse chiesto il motivo della sua fuga? E se proprio a causa di quella fuga aveva iniziato a detestarlo? E se avesse già cambiato prescelto?
Scosse la testa, sforzandosi in ogni maniera di interrompere il flusso di tutte quelle domande: in fondo era normale che in un primo momento avesse provato paura o addirittura terrore. Avrebbe raccontato al generale che aveva semplicemente temuto che fosse un nemico, una di quelle ombre maligne pronte a risucchiarlo via; lui sicuramente lo avrebbe compreso, gli avrebbe tirato una pacca sulla spalla e gli avrebbe sorriso. Sì, ne era più che sicuro. Il generale era severo, ma anche amichevole.
Poi gli avrebbe finalmente donato l'arma; sarebbe stata una spada, la più affilata di tutte, o magari, chissà, un'ascia, la più tagliente del mondo. Un'arma in grado di tagliere le ombre, di scacciarle via. 
E anche se non sarebbe riuscito ad incontrare il suo guardiano, se ne sarebbe occupato di persona. Avrebbe sconfitto lui stesso le ombre maligne e sarebbe finalmente riuscito a dormire bene, indisturbato dai soliti incubi che si presentavano ogni notte senza interruzioni.
No, il generale non avrebbe potuto scegliere un altro prescelto, soprattutto perché la luce era ancora lì, ad osservarlo, a girare nella stanza, girare, girare e girare.
Ma certo. La luce era lì per sorvegliarlo, per controllare che stesse bene, per assicurarsi che fosse tutto in ordine, per accertarsi che avesse ricevuto il messaggio; la luce era lì, avrebbe passato la notte accanto a lui e poi, di giorno, sarebbe corsa dal generale per narrargli di lui, di Roxas Persson, del prescelto.






«Che hai, ti sei imbambolato?»
Roxas sussultò leggermente, alzando le iridi blu di fronte a sé, incrociando così gli occhi severi del panettiere che gli porse il solito sacchetto di carta. «Tieni, adesso va' a casa.»
«Aspetti», si affrettò a mormorare il giovane, appoggiando le mani sul bancone. «avrei una domanda da porle.»
«Che diavolo c'è adesso?». Roxas allora lanciò una fugace occhiata all'ambiente circostante, leggermente perplesso, sicuro del fatto che non ci fosse nessuna sorta di diavolo nei dintorni. Dopodiché si scrollò le spalle, decidendo comunque di riprendere la parola: «Volevo chiederle se nel pane ha messo un po' di coraggio. Sa perché adesso ho deciso d-»
«Sìsì, c'è tutto quello che vuoi», lo interruppe bruscamente l'uomo, facendogli cenno di prendere immediatamente il sacchetto perché altrimenti non si sarebbe fatto scrupoli a lasciarlo cadere per terra; il biondo a quel punto lo afferrò velocemente tra le mani, assumendo un'espressione quasi preoccupata. «Ne è sicuro?»
«Sì, ma per l'amor Dio adesso vattene!». A quell'esclamazione così dura e severa Roxas sobbalzò istantaneamente; dopodiché si voltò e corse dalla parte opposta rispetto al solito viale che imboccava per ritornare a casa.
Non era esattamente sicuro di ciò che stava facendo, ma al tempo stesso sapeva che non esisteva altro modo per incontrare finalmente il generale.
Corse, corse velocemente, veloce come aveva fatto qualche sera prima, e gli sembrò davvero di tagliare in due l'aria con una spada invisibile.
In quel momento desiderò ardentamente incontrare il suo professore di ginnastica; sperò davvero di vederlo correre per i quartieri della città, come faceva spesso, indossando le sue amate tute blu. Sperò di incontrarlo per poter ricevere le sue lusinghe, i suoi complimenti che lo avrebbero fatto sentire in qualche modo importante. Poi magari, chissà, avrebbero potuto correre insieme e lui si sarebbe sentito meno solo. Non avrebbe nemmeno avuto bisogno del coraggio che il panettiere aveva versato nel pane.
Ma come avrebbe fatto a capire se l'aveva messo o meno? Che cosa significava ''possedere il coraggio dentro?''
Si intrufolò con il pensiero tra i cassetti dei ricordi della sua mente, sperando così di trovare la strada che aveva imboccato quella sera, la sera in cui aveva fatto la figura del codardo di fronte al generale.
Continuò a correre, mantenendo lo sguardo puntato di fronte a sé; dopo un paio di minuti si illuminò alla vista di un lampione particolarmente vecchio, riuscendo a individuarne i tratti.
Sì, la sua memoria non lo stava prendendo in giro. Era la strada giusta, ne era più che sicuro.
Un'odore particolarmente piacevole gli invase le narici e Roxas aumentò ulteriormente la velocità, riconoscendo la brezza marina che nel frattempo gli stava già scompigliando giocosamente i capelli, incitandolo quasi a seguirla.
No, non sarebbe più fuggito di fronte al generale.






E infatti non lo fece.
Non fuggì, bensì si nascose.
E in quel modo la situazione cambiava? Probabilmente no. O forse sì. Nascondendosi avrebbe davvero fatto la figura del codardo. Almeno fuggire simboleggiava un minimo di coraggio nel muovere le gambe, nel voler sfidare il proprio nemico.
Nascondersi invece no. Anche perché, era ovvio, prima o poi lo avrebbero trovato.
E questo Roxas lo sapeva fin troppo bene.
Aprì impacciatamente il sacchetto, stando ben attento a non fare rumore; dopodiché staccò un pezzo di pane e se lo infilò immediatamente in bocca, masticandolo con estrema lentezza, sperando così di tastare tutto il potere che gli avrebbe trasmesso.
O almeno, che gli avrebbe dovuto trasmettere.
Appoggiò le mani su un'asse di legno e tentò di rannicchiarsi il più possibile dietro il barile, aspettando nel frattempo l'effetto del pane che, a quanto pare, tardava sempre di più ad arrivare.
Sentì addirittura un fastidioso pizzicore agli occhi e temette seriamente di essere sul punto di piangere a causa della situazione estremamente insidiosa in cui si era andato a cacciare; si affrettò comunque ad asciugarsi le palpebre e staccò un altro pezzo di pane, ingoiandolo molto più velocemente di prima.
Dov'era il coraggio?
Forse non esisteva. Non esisteva alcun coraggio; o meglio, il panettiere non gliel'aveva messo.
Perché? Magari per dispetto? O forse se l'era semplicemente dimenticato? Eppure lui gliel'aveva chiesto ben due volte. Gli aveva domandato se era sicuro di aver versato questo famigerato coraggio e lui aveva risposto di sì.
E allora perché non faceva effetto? Perché il suo cuore non smetteva di battere all'impazzata? Perché le gambe continuavano a tremargli?
Era giunto di fronte al mare, proprio come aveva desiderato. La sua mente non lo aveva ingannato e la strada se l'era ricordata perfettamente. Aveva così alzato immediatamente le iridi blu e aveva visto la torre, o meglio, la sua amata fabbrica.
Eppure non era riuscito a raggiungerla. Non era neanche riuscito a fare il primo passo, che si era accorto della presenza di qualcuno.
Anzi, non di qualcuno. Di tanti. C'erano persone, persone che quella sera non aveva visto. C'era gente, gente che andava e veniva, principalmente uomini, i quali erano intenti a trasportare numerose casse.
C'era gente, troppa gente. Gente che non aveva mai visto. Erano persone diverse, non uomini della città. Erano stranieri. Perché erano lì, accanto alla sua amata fabbrica? Perché non se ne andavano via?
Perché? Perché? Perché?
Roxas aveva avuto paura. Tanta paura. E allora si era nascosto dietro quel piccolo barile di legno.
E se lo avessero scoperto? Che cosa gli avrebbero fatto? Lo avrebbero sgridato? O magari peggio, lo avrebbero picchiato?
A quel pensiero si strinse maggiormente le ginocchia al petto, tremando.
Era la fine, se lo sentiva. Avrebbe dovuto svolgere la sua missione in meno di un'ora; avrebbe dovuto salire le scale, incontrare il generale e prendere l'arma. Poi sarebbe dovuto tornare a casa in fretta e furia per non far preoccupare sua madre. Si sarebbe inventato una scusa per il suo ritardo. Le avrebbe detto che aveva incontrato una lunga coda dal panettiere. Una lunghissima coda, una coda infinita, piena di persone, persone che conosceva però, quelle della città, non gli stranieri.
Ma come poteva inventarsi una scusa per un ritardo del genere? Che cosa le avrebbe detto?
E se quegli uomini stranieri avrebbero rivelato tutto a sua madre?
Fece per aprire nuovamente il sacchetto, sperando un'ultima volta nel coraggio, quando accadde l'inaspettato.
Il barile venne improvvisamente spostato e Roxas si sentì spogliato della sua unica protezione; il suo cuore accelerò immediatamente il battito e temette seriamente di perderlo, di morire, morire a causa della tensione, dell'ansia.
E allora capì.
Capì che il panettiere non si era semplicemente scordato di versare il coraggio: non aveva voluto metterglielo, ecco tutto.
Roxas lo sapeva. Ne era sicurissimo. Ne era sicuro perché era impossibile che qualcuno si potesse dimenticare una cosa così importante, una cosa che gli avrebbe impedito di provare un'ansia così forte e tagliente.
Il sacchetto gli scivolò dalle mani e i panini rimanenti rotolarono via contemporaneamente, sporcandosi leggermente di polvere.
Tum. Tum. Tum. Rimbalzarono sulle assi di legno, provocando un rumore sordo alle orecchie del giovane, il quale era rimasto praticamente paralizzato.
Ebbe l'impulso di piangere, ma perfino le lacrime sembrarono essersi magicamente cristallizzate all'interno delle sue iridi, così come tutto il resto del corpo.
«Ma si può sapere che diavolo ci fa una ragazzina da queste parti?»
Il giovane fanciullo dalle ciocche dorate alzò di scatto gli occhi, come un animale condannato al suo triste destino, ovvero quello di essere finito in una trappola mortale; rimase lì, in silenzio, senza muovere alcun muscolo, limitandosi ad osservare con aria terrorizzata l'uomo sopra di lui, ancora intento a reggere il barile.

Ebbe voglia di fuggire, fuggire il più lontano possibile e non azzardarsi mai più a spingersi oltre i suoi ristretti confini, ma non lo fece.
Non per un impeto di coraggio, no, assolutamente no. Al contrario, rimase immobile proprio a causa della paura, la quale ormai sembrava averlo completamente in pugno.
Era quella la trappola, in fondo. La paura.
«Ci sei? Oh ragazzina, mi senti?»
Si sforzò di fare almeno un cenno impercettibile con la testa, senza però ottenere alcun risultato concreto. Il suo sguardo era troppo intento a divorare con terrore gli occhi dell'uomo che a sua volta non smetteva di fissarlo.
O meglio, l'occhio.
Sì, perché tralasciando l'aspetto poco raccomandabile e la maglietta sudicia, ciò che certamente spiccava era il fatto che aveva un occhio bendato da una strana fascia nera.
Era sicuramente un alleato delle ombre. Senza alcun dubbio.
L'uomo allungò allora il braccio, intenzionato probabilmente a sollevare di peso la suddetta ''ragazzina'', quando Roxas si alzò di scatto e iniziò a correre davanti a sé, tuffandosi nel piccolo trambusto creato da tutte quelle persone che andavano e venivano.
«Ma dove cazzo vai?!», sentì gridare dall'uomo dietro di sé, e quel linguaggio sembrò infastidirlo particolarmente, tanto che il leggero brivido che gli stava attraversando la schiena bastò per distrarlo, facendolo così inciampare rovinosamente su un'asse di legno, proprio come gli accadeva spesso nella sua piccola stanza.
In un attimo si ritrovò a terra, con il mento dolorante e lo sguardo confuso, il che ormai era una divenuta una sensazione familiare per lui.
Sbatté ripetutamente le palpebre, forse per scacciare altre lacrime che erano pronte a rugargli il viso, o forse semplicemente per un bisogno naturale, quando si accorse di un'altra presenza estranea proprio  sopra di sé.
La prima cosa che notò furono le strambe scarpe di un bianco sporco, del medesimo colore dei pantaloni; alzò ulteriormente le iridi e vide una t-shirt nera, probabilmente anch'essa insudiciata di qualche macchia meno evidente.
Roxas sollevò leggermente la testa e incrociò così un altro sguardo straniero. Occhi differenti, lineamenti del volto diversi dagli abitanti del posto, labbra che avevano assunto una piega storta, quasi di scherno, un'espressione che di solito non vedeva nelle persone che lo circondavano.
Aveva un soppraciglio sollevato e a Roxas parve un pennello magico in grado di disegnare sul volto delle persone qualsiasi emozione esistente all'interno della loro anima.
Vide un volto spigoloso, due occhi verdi, verdissimi, come i prati su cui amava rotolarsi di sera; e i capelli folti, strani, non aveva mai visto dei capelli così lunghi su un uomo.
Li trovò ammaglianti.
Erano rossi, rossissimi. Rossi come... Come il suo quaderno di matematica. O forse più rossi, sì, erano più rossi. Erano di un rosso acceso, che non aveva mai visto. Non poteva paragonarli a nulla, al massimo avrebbe potuto fare il contrario; se un giorno avesse incontrato qualcosa di quel rosso, il suo pensiero sarebbe certamente andato a quegli strani capelli che sembravano sfidare qualsiasi forza di gravità.
Erano perfettamente ritti in aria, non molli e disordinati come i suoi.
Gli piacevano quei capelli. Gli piacevano davvero tanto. Profumavano di rosso. Ne era sicuro. Il rosso ora aveva un profumo, grazie a quei capelli.
«Ehi, ragazzina, smettila di correre!». Prima ancora che l'uomo dai capelli rossi avesse potuto dire qualcosa, comparve nuovamente l'alleato delle ombre nere e Roxas allora si alzò di scatto, impaurito.
«Oh, ti sei fermata finalmente! Guarda che ti è caduta 'sta roba», mormorò l'individuo dall'occhio bendato, porgendo il sacchetto in cui aveva rimesso il pane privo di coraggio; il biondo si limitò ad indietreggiare di qualche passo, estremamente spaventato dalla situazione.
L'alleato delle ombre nere dal canto suo si grattò la testa, confuso di fronte al comportamento del giovane. «Non le capisco proprio queste ragazzine... Ma siete tutte così da queste parti?», e, nonostante la domanda fosse rivolta a Roxas, l'individuo bendato alzò lo sguardo verso l'altro presente, sperando in una spiegazione da parte sua.
Il fulvo allora sollevò leggermente un soppraciglio e lanciò una fugace occhiata al compagno di fronte a sé prima di scrutare con estrema attenzione il fanciullo dai capelli dorati; lo osservò per secondi interminabili e, improvvisamente, scoppiò in una grassa, grassissima, risata.
Una risata forte, squillante, piena, un raggio di sole che in un attimo era in grado di infrangere tutte le nuvole. Un raggio di sole che dentro sé conteneva tutti i colori dell'arcobalena.
Roxas non aveva mai sentito ridere così una persona. Sua madre non rideva poi molto, al massimo accennava i suoi sorrisi un po' stanchi, ma mai una risata così intensa e lunga.
I suoi compagni, invece, ridevano in maniera strana; loro parlavano di altre persone, spesso di lui, lo indicavano e ridevano. Ma non era una risata colorata, quella dei suoi compagni. Non era un raggio di sole, né tanto meno un'arcobalena.
Era la prima volta che sentiva una risata così viva. La risata di un essere umano; una risata tastabile, concreta, una risata che si poteva udire nell'aria.
A Roxas piaque immediatamente la risata di quell'uomo.
«Ma si può sapere che cazzo ti prende?», domandò con aria stralunata l'uomo bendato.
Il rosso continuò a ridere, per nulla intenzionato a smettere, anzi, addirittura inclinò la testa all'indietro, con gli occhi rivolti verso l'alto, e Roxas pensò immediatamente che, molto probabilmente, il cielo gli stava donando tutti i colori nascosti dell'arcobalena per permettere alla sua risata di proseguire all'infinito.
All'infinito.
Non gli sarebbe dispiaciuto per nulla. Magari, se i suoi occhi si fossero abituati a risucchiare completamente quella risata, sarebbe riuscito anche a vedere i colori dell'arcobalena filtrare attraverso le iridi di quell'uomo.
«Xigbar, mi sa che il tuo unico occhio sta perdendo colpi!», riuscì finalmente a parlare il fulvo tra una risata e l'altra, reggendosi nel frattempo lo stomaco dolorante.
Aveva un accento strano, particolare, le parole uscivano dalla sua bocca in maniera differente da quelle degli abitanti della città. Le sue frasi sembravano quasi saltarsi addosso, correvano insieme, e a Roxas pareva quasi di vederle giocare. Le lettere che fuoriuscivano dalle sue labbra vibravano in maniera distinta, quasi avessero vita propria.
Quell'uomo parlava, e Roxas vedeva le sue parole vivere, raccontare una storia propria.
Quell'uomo parlava per davvero, non si trascinava le frasi con pesantezza, con fatica, come faceva sua madre, come facevano gli altri abitanti del posto.
Roxas sentiva le sue parole respirare per davvero.
«Ma che diavolo stai dicendo? Non dirmi che hai bevuto di nuovo?»
L'altro scosse la testa, soffocando con estrema fatica l'ennesima risata. «Xigbar, ti prego! Ma non lo vedi? Ci credo che è scappato via, l'avrai offeso a morte!»
«Che cazzo stai dicendo?!»
«E' un ragazzo!», trillò il fulvo, lasciandosi poi travolgere dall'ennesimo attacco di ilarità.
A quella sconvolgente scoperta Xigbar spalancò gli occhi, o meglio, l'occhio, allibito; dopodiché deglutì rumorosamente e si avvicinò al giovane, il quale, al contrario, indietreggiò nuovamente.
«Oh, merda!», tuonò allora l'uomo bendato, tirandosi una manata sulla fronte. «Ma è vero! Ragazzo mio, quanti anni hai? Quindici? Sedici? Lo sai che io alla tua età avevo già una barba che era aveva praticamente la lunghezza della circonferenza dell'Equatore? E hai mai visto Xaldin? Lui aveva dei peli ch-»
«Xigbar, piantala! Non vedi che è già abbastanza sconvolto? Credo che tu gli stia bloccando la crescita.», fece notare con aria divertita il fulvo, rivolgendosi poi al ragazzo: «Allora, come ti chiami? Dai, fa' vedere a questa sottospecie di ciclope che sei un vero uomo.»
L'interpellato fece per indietreggiare nuovamente, quando si accorse che le proprie gambe si erano completamente irrigidite, come circondate da uno spesso strato di cemento; la morsa dell'ansia tornò nuovamente a farsi spazio nel suo corpo e Roxas appoggiò automaticamente lo sguardo afflitto sul sacchetto tra le mani dell'uomo bendato.
«Andiamo Xigbar, non fare il ladro, ridagli la sua roba.»
«Ladro, io?!», tuonò il diretto interessato, indicandosi. «Ma se mi sono messo a corrergli dietro per riportargli questo maledetto sacchetto!»
Il fulvo fece per ribattere, quando il terzo presente schiuse leggermente le labbra e si sforzò finalmente di farsi sentire: «Non... Non importa». A quel mormorio quasi incomprensibile Xigbar aprì il sacchetto e vi infilò la mano dentro, tirandone fuori un pezzo di pane. «Allora posso mangiarmelo? Tanto era per terra!»
Roxas annuì timidamente, al contrario del rosso che scosse la testa con fare esasperato di fronte  all'immagine di Xigbar che divorava in pochi attimi tutto ciò che conteneva il sacchetto, commentando infine con un sonoro: «Delizioso! Certo che da queste parti il cibo è davvero ottim-»
«E' la stessa cosa che dici ogni volta, Xigbar.», gli fece notare con affilata ironia il fulvo, lasciandosi poi sfuggire una leggera risata; l'altro, profondamente ferito, fu pronto a replicare, quando una nuova voce fece voltare i tre presenti: «Xigbar, Axel! Si può sapere che diavolo state facendo? Abbiamo fatto una pausa meno di trenta minuti fa!»
«Oh, no, ecco Mr ''Chissenefrega se non sono il capo, voglio rompere lo stesso i coglioni a tutti.''», commentò spudoratamente l'uomo dai folti capelli rossi, ricevendo un applauso particolarmente rumoroso seguito da un fischio di entusiasmo da parte del compagno.
«Hai detto qualcosa, Axel?», sputò il nuovo arrivato una volta che ebbe raggiunto gli altri, incrociando le braccia al petto. «Allora? Vi volete dare una mossa o- Ehi, un momento...»
Era piuttosto alto, ma non quanto gli altri due uomini, poiché era evidentemente più giovane; i suoi capelli avevano un colore particolare, erano argentati, proprio come la carta stagnola che utilizzava la madre di Roxas in cucina, ed erano anche piuttosto lunghi, oltre che perfettamente lisci.
I suoi occhi si divertivano a saltare dall'azzurro al verde; era difficile identificare esattamente il loro colore principalmente perché erano semicoperti dal ciuffo.
Così si presentava, questa persona che non sembrava stare particolarmente simpatica a Xigbar e al rosso. Roxas lo capì da come ne avevano parlato poco prima, dal linguaggio che avevano utilizzato, dalle parole del fulvo.
«Che cosa c'è?», Xigbar, che nel frattempo aveva gettato a terra il sacchetto di carta, si grattò la testa, confuso dall'espressione indagatoria del nuovo arrivato.
«Ma tu...», fece sordamente quest'ultimo prima di spalancare leggermente gli occhi: «Tu sei  quello che ho visto qualche sera fa sulla torre!»
Roxas sussultò e sentì un tuffo al cuore: il ragazzo dai capelli argentati era il... Generale?
Dunque quei due uomini erano i suoi soldati?

O forse erano dei prigionieri?
Non lo sapeva, non lo sapeva proprio. Stava succedendo tutto troppo velocemente. Ebbe nuovamente l'impulso di fuggire, ma si ricordò che non poteva fare nuovamente la figura del codardo di fronte al generale, altrimenti non l'avrebbe più aiutato.
Era il prescelto, non doveva dimenticarsene.
«Eh?», fece Xigbar, sempre più disorientato dalla situazione, al contrario di Axel che sollevò nuovamente il soppraciglio sinistro: «Ne abbiamo già parlato, Riku. Ti sarai fumato qualcosa e avrai sognato un fantasma. Chi vuoi che salga lì nel bel mezzo della notte? Non c'è un cazzo da rubare.»
«E invece ti dico che era proprio questo ragazzino.», replicò apaticamente l'albino, lanciando poi un'intensa occhiata al diretto interessato che stava cercando le parole giuste per iniziare finalmente una conversazione con il famigerato generale.
«Ma piantala!»
«Avevo una lanterna, quindi l'ho visto benissimo. E' lui, ne sono più che sicuro.»
«Perché non gli chiediamo direttamente se era lui o no?», intervenne improvvisamente l'uomo bendato, ottenendo l'attenzione degli altri due che, molto probabilmente, stavano per trasformare la conversazione in una discussione particolarmente vivace.
Il fulvo allora si infilò una mano tra i folti capelli e sospirò pesantemente; fece per riprendere la parola, rivolgendosi direttamente al biondo, quando quest'ultimo, dopo essere finalmente riuscito a scavare dentro sé per poter tirare fuori il coraggio anche senza l'aiuto del pane, fece un passo avanti e si avvicinò all'albino. «Io sono Roxas. Roxas Persson.»
«Hai visto?», si intromise nuovamente Xigbar, voltandosi verso il rosso. «Te l'avevo detto che è una ragazza! Roxas è un nome da-»
«Adesso basta, Xigbar», lo interruppe severamente il ragazzo dai capelli argentati, incrociando le braccia. «Penso sia meglio che tu e Axel torniate a lavorare.»
«Io non mi muovo da qui.», replicò il rosso, incrociando a sua volte le braccia in gesto di sfida; Xigbar, dal canto suo, si voltò all'indietro, notando che proprio in quel momento Xaldin stava cercando di attirare la sua attenzione. Si scrollò così le spalle e iniziò ad incamminarsi verso il compagno, preferendo di gran lunga il solito massacrante lavoro che comprendere quell'assurda situazione.
Roxas, che non aveva staccato lo sguardo dal generale neanche per un attimo, si morse leggermente il labbro inferiore e si sforzò di continuare il proprio discorso: «Io sono... Sono venuto qui per... Per l'arma...»
L'albino assunse un'espressione leggermente perplessa, piuttosto spaesato di fronte al discorso del biondo. «Non ho la più pallida idea di che cosa tu stia parlando. Piuttosto, vorresti spiegarmi che cosa ci facevi alla torre qualche sera fa? Non lo sai che è vietato salire lì?»
Per Roxas quelle parole furono come un pugno nello stomaco. Come un coltello conficcato nel petto, come quando i suoi compagni ridevano alle sue spalle, come quando qualche rumore interrompeva i suoi viaggi in luoghi inesplorati.
Sentì un male inesorabile espandersi in tutto il corpo ed ebbe seriamente voglia di piangere. Piangere non solo per il fatto che il generale non l'aveva nuovamente riconosciuto, ma per tutto, tutto quanto.
Volle piangere per il panettiere crudele che non gli aveva versato un pizzico di coraggio nel pane e volle piangere per sua madre che si ostinava ad accompagnarlo a scuola.
Allora non era il prescelto. Non era speciale, né tanto meno particolare. La luce probabilmente era indirizzata a qualcun altro. Era una luce un po' biricchina, ecco, una luce che si era presa gioco di lui. Ma che colpa ne aveva, quindi? Nessuna. Forse doveva far notare al generale che il suo messaggero non aveva svolto il suo incarico a dovere.
«Beh?». Roxas sobbalzò leggermente, accorgendosi che l'albino esigeva una risposta al più presto.
E se non fosse il generale? E se fosse stato tutto un equivoco?
Ma allora chi era? Perché l'aveva visto alla fabbrica? Era forse un lavoratore, o un soldato? Eppure utilizzava un tono autoritario, proprio come un vero generale.
Il sedicenne allora decise finalmente di riprendere la parola, lasciando però senza risposta la domanda dell'albino: «Tu... Sei il generale?»
Il diretto interessato rimase in silenzio per diversi secondi, sconvolto dalla domanda a dir poco stramba: o quel ragazzino aveva sbagliato persona, o aveva dei seri problemi mentali.
«Beh, non esattamente, il capitano in realtà è-»
«Chi, Riku?! Generale?! Ma ti prego, ci mancherebbe altro!», si intromise Axel, mettendosi una mano sulla fronte con aria teatrale. «Ascolta Roxas, credo che tu non abbia capito come funzionino esattamente le cose. Questo qui è solo un pallone gonfiato, altro che generale!»
«Pallone... Gonfiato?», ripeté con fare confuso il giovane dai capelli dorati, non riuscendo a capire l'espressione utilizzata dall'altro per descrivere l'albino; quest'ultimo, dal canto suo, lanciò un'occhiataccia ad Axel e si affrettò a riprendere la parola. «Qui l'unico pallone gonfiato sei tu. E comunque non sono il generale, qui il capitano è Xemans, che si trova sulla nave attualmente. Ah, e non vuole ricevere nessuno, quindi, se volevi parlargli, puoi tornartene pure a casa.», e, dopo aver spiegato ciò con aria alquanto aspra, si rimboccò le maniche, pronto ad abbandonare finalmente la conversazione per poter riprendere il proprio lavoro.
«Non badare a questo spaccone», lo ammonì Axel, ghignando. «Dice solo balle. Non è vero che non ci sono generali, qui; questo perché il generale sono io!»
Riku allora roteò lo sguardo da una parte all'altra dell'ambiente circostante, accorgendosi che la discussione stava seriamente cadendo nel ridicolo; si limitò dunque a mormorare un ''certo, certo, come vuoi'' prima di voltarsi ed incamminarsi verso la cassa di legno più vicina da trasportare.
Axel poi disse qualcosa, qualcosa di particolarmente divertente, una battuta forse, perché poi rise, rise forte, proprio come aveva fatto poco prima.
Roxas però non capì le sue esatte parole, poiché si era perso nella sua precedente rivelazione: ''Questo perché il generale sono io!''
Il generale.

Il generale era davvero lui? O stava mentendo? Ma perché mai un uomo doveva fingere di essere il generale? Forse per ingannarlo? O forse perché stava dalla parte delle ombre nere?
Come avrebbe fatto a distinguere la verità?
Eppure quel ragazzo dai capelli argentati, Riku, sì, proprio lui, gli era parso per davvero il generale; si era trovato alla torre e aveva quel modo severo di parlare. Era diverso, diverso da quell'uomo dai folti capelli rossi, rossissimi, che invece rideva spesso.
Roxas in cuor suo sperò che il vero generale fosse Axel.
Ma non poteva esserne sicuro. Avrebbe potuto essere un inganno, proprio com'era successo con il panettiere che non gli aveva versato il coraggio.
Il biondo allora prese un profondo respiro e chiese: «Come faccio a crederti?»
Quella domanda sembrò divertire parecchio l'altro perché rise nuovamente, scuotendo la folta chioma rossa. «Ma dai, non lo sai? E' ovvio, i generali sono sexy, e io lo sono. L'hai memorizzato?»
Roxas, improvvisamente, si sentì in imbarazzo; un lieve colorito gli invase le gote e fu istintivo per lui abbassare un poco le iridi, come se avesse voluto nascondere la propria vergogna. Avvampò non solo a causa della stramba affermazione di Axel, ma anche per il suo stesso imbarazzo. Si sentiva patetico, a vergognarsi.
Ma poi da dove era partita quella buffa sensazione? Perché si vergognava? Perché la frase di Axel lo aveva turbato così tanto?
Aveva detto di essere sexy. Sexy è come essere belli, no? O è di più? Avrebbe voluto chiedergli maggiori informazioni riguardo quel termine, ma l'imbarazzo glielo impedì.
E inoltre non era esattamente sicuro che la bellezza fosse un requisito necessario per un generale.
«Non lo sapevo.», mormorò dopo qualche altro secondo, continuando a guardarsi le scarpe.
«Adesso però lo sai.»
«Sì.»
«Quindi?». Axel sollevò nuovamente un soppraciglio, il suo pennello magico, quello che disegnava tutte le emozioni, e accennò un sorriso sghembo.
«Ancora non so se crederti.», ammise Roxas, alzando appena le spalle.
A quel punto il fulvo scoppiò in una grassa risata e si mise le mani sui fianchi; di nuovo inclinò la testa all'indietro, di nuovo l'arcobalena invisibile gli donò i suoi magici colori che gli permisero di ridere ancora, ancora e ancora. «Sei divertente, sul serio.»
Roxas, che era rimasto come incantato di fronte alla colorata risata dell'uomo, non appena udì quell'affermazione, al contrario, si sentì quasi offeso. Sul serio, gli aveva detto Axel, ma la verità è che il problema era proprio quello: lui non lo aveva preso sul serio.
«Comunque», ricominciò a parlare il rosso, infilandosi una mano tra i lunghi capelli. «allora eri davvero tu sul faro? Te lo chiedo più che altro perché poi Riku tornerà a chiederti almeno un centinaio di volte che diavolo ci facevi lì.»
Roxas inclinò la testa su un lato, leggermente perplesso di fronte alla parola ''faro'': che fosse il nome della fabbrica? Se conosceva il suo nome, era dunque il vero generale? Eppure...
«Dovresti sapere il motivo per cui sono venuto, se davvero sei il generale.»
Axel sbatté ripetutamente le palpebre, disorientato; rimase così per una manciata di secondi in silenzio, incerto se scoppiare nuovamente a ridere o meno. L'avrebbe fatto se non fosse stato per il tono dell'altro che non era stato evidentemente scherzoso.
Nonostante ciò tentò comunque di parlare, magari uscendosene con qualche battuta, quando il richiamo di Xigbar lo interruppe: «Axel, muoviti, vieni ad aiutarci!»
Il rosso allora intuì che la sua pausa inaspettata era, purtroppo, giunta al termine, poiché non poteva permettersi di venire richiamato dal capitano; dunque tirò una pacca particolarmente forte sulla spalla del biondo in segno di saluto e gli sorrise. «Adesso devo proprio tornare a lavoro, ci si vede in giro!», dopodiché corse, svanendo tra le persone, nella folla, tra gli scatoloni di legno, senza nemmeno lasciare a Roxas il tempo di rispondere.
O di fermarlo.
Il biondo si sfiorò leggermente la spalla, nell'esatto punto in cui l'uomo lo aveva toccato. Si tastò la maglietta per una manciata di secondi, spaesato, stranito da quel contatto così intenso seppur breve.
Non poteva essere il generale.
Il generale non lo avrebbe mai abbandonato senza alcuna spiegazione  e, soprattutto, il generale avrebbe certamente saputo il motivo per cui si era recato alla fabbrica.
Il generale doveva essere Riku, senza alcun dubbio. Eppure anche lui gli aveva domandato perché si trovava lì... Forse per accertarsi che fosse il prescelto? O forse era una prova?
Non lo sapeva. Si sentiva confuso, incerto su tutto. Avrebbe dovuto chiedere al panettiere il potere di distinguere la verità, altro che il coraggio. Il panettiere, sì. Lo stesso panettiere che alla fine lo aveva imbrogliato.
Immaginarsi Axel come un bugiardo e non come un vero generale lo rattristava particolarmente, chissà perché.
E il pensiero di sua madre che lo attendeva a casa lo impaurì. E, purtroppo, questa volta ne conosceva il motivo.






Piangendo, aprì l'armadio e prese il suo amato pigiama, affrettandosi ad indossarlo.
Poi, sempre piangendo, si sedette per terra e si strinse le ginocchia al petto.
Sperò di smettere presto perché si sentiva veramente stupido a piangere; il problema è che in quel momento non poteva farne proprio a meno.
Ci doveva essere una sorta di pulsante, dietro i suoi occhi. O forse una corda, sì, una corda da pizzicare durante i momenti di tristezza. Ma chi la pizzicava? Forse era sempre lui, il suo guardiano pigro, quello che non riusciva a sconfiggere le ombre nere perché non possedeva un'arma abbastanza potente.
Doveva essere proprio pigro, il massimo della pigrizia, poiché ora non cercava nemmeno di aggiustare quella corda rotta; era rotta, completamente rotta, perché davvero non riusciva a smettere di piangere.
Più si asciugava le lacrime, più esse ricomparivano, grosse e gonfie, pronte a bagnargli il volto.
E la luce intanto era sempre lì, a controllarlo, a fargli compagnia nella sua piccola stanza.
Sua madre si era arrabbiata moltissimo con lui, non l'aveva mai vista così in collera; gli aveva addirittura tirato uno schiaffo e durante la cena si era limitata a riservargli sguardi severi e aspri. Molto più aspri di quelli di Riku.
Le aveva mentito. O almeno, ci aveva provato. «I miei compagni volevano fare una passeggiata e mi avevano invitato», così aveva detto, quando sua madre, infuriata, gli aveva chiesto spiegazioni.
Poi aveva sentito un tremendo contatto tra la sua mano e la propria guancia. Era difficile descrivere il rumore di quello schiaffo. Era un miscuglio tra un bam, una porta che sbatteva, e un fffh, qualcosa che soffiava, il dolore, che aveva percorso correndo tutta la sua faccia.
Stranamente non aveva preso provvedimenti, probabilmente perché era troppo in collera; ecco, sì, sua madre si era arrabbiata così tanto che si era concentrata esclusivamente sul suo ritardo e non aveva trovato una maniera per punirlo, tralasciando lo schiaffo, ovvio.
Molto probabilmente non gli aveva creduto, poiché anche lei sapeva piuttosto bene che difficilmente qualcuno passava il tempo insieme al figlio.
Molto difficilmente.
O forse mai.
Roxas si asciugò per l'ennesima volta gli occhi e, finalmente, sembrò che il suo pigro guardiano aveva deciso di alzarsi e di aggiustare definitivamente la corda. Chissà, forse anche lui si era stancato di sentirlo piangere.
Decise così di mettere da parte per un po' ciò che era successo con sua madre per potersi concentrare esclusivamente sugli strambi incontri che aveva avuto durante il pomeriggio: Xigbar, Riku e Axel.
Non aveva capito quasi nulla di loro, alla fine. Non sapeva da che parte stavano. Xigbar aveva un'aria losca, pareva essere amico delle ombre nere, eppure aveva cercato di restituirgli il pane.
Riku era il generale, forse. Forse. Era tutto un forse, probabile, magari, chissà.
E Axel? Axel aveva la risata colorata e i capelli rossissimi. Gli ricordavano un gomitolo. Un gomitolo rosso di capelli, anche se erano perfettamente ritti in aria.
Stavano trasportando tutti delle scatole e dei barili di legno. Che cosa contenevano? Segreti? O armi per combattere le ombre nere?
Forse era una prova. Sì, la prova per constatare che fosse davvero il prescelto: doveva cercare di distinguere il vero generale, ecco perché sia Riku che Axel gli avevano posto tutte quelle domande.
E come avrebbe fatto a superare la prova? Conoscendoli meglio, ovvio.
Doveva assolutamente ritornare lì, in quel posto, sul mare, accanto alla fabbrica, per poter parlare nuovamente insieme a loro. Era l'unico modo per poter finalmente avere l'arma e sconfiggere definitivamente le ombre nere.
In questo modo sarebbe riuscito ad avere sogni tranquilli e, chissà, magari perfino la sua vita sarebbe migliorata in qualche modo. Forse tutti nella città avrebbero scoperto che lui era Roxas Persson, il prescelto, colui che aveva sconfitto le ombre nere. E allora lo avrebbero lodato all'infinito.
Si alzò in piedi e raggiunse il suo piccolo letto, coricandosi con aria pensierosa.
Quella sera non fece nessun viaggio. Si sentì troppo pieno a causa della giornata. Pieno di tutto, in particolare di tristezza.
Decise quindi di limitarsi a fissare la luce fino ad addormentarsi, lasciandosi abbandonare così tra le mani delle ombre nere.






«E oggi andrai da qualche parte con i tuoi compagni, sentiamo?»
Roxas alzò di scatto le iridi blu, spaesato dalla domanda della madre; sbatté ripetutamente le palpebre e decise dunque di rispondere, poiché non riuscì ad intuire il sottile velo di sarcasmo che lasciava trapelare il tono della donna. «Non lo so», mormorò successivamente, osservando il proprio piatto su cui era rimasto un unico biscotto.
«Roxas», lo chiamò poi con durezza la madre, facendo sussultare il biondo. «Ti prego, non farmi preoccupare così tanto. Io voglio solo il tuo bene, sei la cosa più importante che ho». Il suo tono si addolcì improvvisamente e, più che una richiesta o un ordine, divenne una sorta di supplica; nonostante Roxas non fosse bravo a capire le persone e i loro atteggiamenti, ciò riuscì in qualche modo a comprenderlo.
Non era un obbligo.
Di punto in bianco, come per magia, sua madre sembrava aver considerato l'idea di lasciargli maggiore autonomia; eppure questa sua improvvisa consapevolezza non fu per lei qualcosa di positivo, bensì l'esatto opposto.

«Posso andare?», interruppe il silenzio il sedicenne, ritornando ad osservare la madre.
«Così presto?»
Roxas non rispose. Non rispose semplicemente perché non se la sentiva più di mentire, di alimentare nuovamente il vaso delle loro conversazioni con altre menzogne. Lui non stava facendo nulla di male, in fondo. Non poteva spiegare nei dettagli la situazione, però sapeva che, presto o tardi, avrebbe capito. Doveva soltanto superare la prova, avere tra le mani l'arma e sconfiggere le ombre nere.
Poi tutto sarebbe stato più semplice. La sua vita a quel punto sarebbe stata liscia e tutti, perfino sua madre, avrebbero iniziato a prenderlo davvero in considerazione.
La signora Persson si limitò quindi ad afferrare il piatto del figlio, buttando nel frattempo il biscotto rimasto nel cestino dell'immondizia; dopodiché si infilò i guanti e iniziò a far scorrere l'acqua su posate, bicchieri e piatti.
Roxas interpretò quel silenzio come una sorta di risposta positiva e decise quindi di alzarsi con cautela, cercando di essere più silenzioso possibile, come se il minimo rumore avesse potuto risvegliare il cervello della donna e farle quindi cambiare idea.
Afferrò la cartella e se la mise sulle spalle, incerto se salutare o meno la madre; si strinse le spalle e rimase immobile sulla soglia della cucina per una manciata di secondi, alternando delle occhiate a sua madre e al pavimento a piastrelle.
La signora Persson, dal canto suo, non si voltò: mantenne gli occhi fissi sui piatti e sull'acqua che scorreva con un'espressione indecifrabile, fredda, distaccata, che però dentro nascondeva la rabbia, forse l'ira, e questo Roxas lo sapeva, l'aveva capito.
Poi si sentì improvvisamente male. C'erano due emozioni contrastanti dentro di lui, che però si legavano in qualche modo; era come quando da bambino suo padre lo faceva salire sulla giostra non solo una volta, ma due, tre e quattro.
E lui era felice, allegro ed emozionato, ma dentro, sulla seconda faccia della moneta, perché si sa che le monete non sono formate da una singola parte, era anche triste e i sensi di colpa gli mordevano l'animo con forza. Si sentiva in colpa a vedere suo padre, così sorridente, tirare fuori il portafoglio, infilarvi una mano e porgere quindi i soldi all'uomo che stava dietro il bancone.
E le monete svanivano magicamente nel nulla, volavano via per il suo divertimento. Suo padre pagava per lui, per la sua felicità, e Roxas si sentiva allegro, fiero della bontà di suo padre, ma al tempo stesso in colpa.
Ecco, Roxas ora stava provando la stessa sensazione: emozionato di recarsi nuovamente alla fabbrica, ma in colpa per aver ferito sua madre.
La guardò per un'ultima volta e, per un attimo, gli parve diversa, quasi più vecchia, come se fossero magicamente comparse nuove rughe sulla sua fronte stanca; c'erano quelle linee pesanti che le scavavano il volto, quelle piccole buche piene di angoscia e preoccupazione, ogni giorno più nitide e reali.
Roxas le vide, le vide per la prima volta, le lesse, e si spaventò, si spaventò perché non voleva diventare anche lui così, un giorno, con il peso della vita sulle spalle, un peso che soffocava e corrodeva la pelle.






Prima di raggiungere il mare si era fermato qualche minuto di fronte alla vetrina di un negozio chiuso.
Era rimasto immobile ad osservare il proprio riflesso scuro, come imbambolato. In quella manciata di secondi aveva ripensato a ciò che gli aveva detto l'uomo dalla risata colorata il giorno precedente: ''E' ovvio, i  generali sono sexy, e io lo sono.''
Imbarazzato da se stesso, si era poi domandato, continuando a scrutare la propria immagine, se lui si poteva considerare in qualche modo... Non esattamente ''sexy'', ma bello, carino. Si era chiesto com'era il suo aspetto fisico, ma non aveva trovato una risposta esatta.
Non sapeva cosa gli altri pensavano di lui, dei suoi biondi capelli ribelli, dei suoi occhi blu, della sua pelle dal colorito un po' pallido, del suo corpo esile. Non poteva scoprirlo, non era in grado di leggere nel pensiero, però Axel sapeva come si considerava: si era definito sexy, bello.
Roxas avrebbe voluto dire altrettanto di sé, ma proprio non ci riusciva.
Aveva anche tentato di dire la sua stessa frase, la medesima frase dell'uomo dai capelli rossi, ad alta voce, per convincersi meglio, ma niente, le sue labbra non erano state in grado di riprodurre quelle parole.
«Questo devi portarlo sulla nave!»
«Ma che cazzo dici, l'ho appena messo giù!»
«Infatti non te l'ha chiesto nessuno! Xemnas vuole che 'sta roba rimanga sopra!»
Come aveva sperato, aveva trovato nuovamente la stessa folla di lavoratori del giorno precedente; gli stessi stranieri che trasportavano barili e casse di legno.
E c'era sempre lui, che doveva cercare di superare la famigerata prova.
Un'animata discussione era scoppiata tra Xigbar e un altro uomo dai lunghi capelli marroni e le basette, quello che successivamente avrebbe scoperto essere Xaldin, e avevano attirato l'attenzione di molti altri lavoratori che avevano interrotto i propri incarichi per osservarli.
«Su chi punti?». Roxas sussultò e si voltò di scatto, notando accanto a sé la presenza dell'uomo dalla risata colorata, il quale era intento ad osservare i due litiganti a pochi metri di distanza.
Indossava dei jeans piuttosto larghi di colore chiaro insieme ad una maglietta bianca, molto più pulita degli abiti del giorno precedente. Roxas fece poi scorrere lo sguardo verso il suo volto e sgranò leggermente le iridi, accorgendosi solo in quel momento della presenza di due strani segni viola, simili a lacrime capovolte, sugli zigomi; li osservò per una manciata di secondi, cercando di intuire il loro compito.
Forse erano una sorta di pulsante che serviva a fermare il pianto; sì, magari il suo guardiano era un tipo particolarmente dinamico e li aveva concesso di possedere quei due tasti viola.
O magari il loro incarico era semplicemente quello di filtrare i colori dell'arcobalena; ecco, quella era una spiegazione certamente più plausibile.
«Cosa?», mormorò poi il biondo, non avendo capito la domanda.
«Secondo te chi ha ragione? Io scommetto su Xaldin. Xigbar, si sa, è un tipo che spara un mucchio di cazzate.»
Roxas allora abbassò leggermente gli occhi e tornò ad osservare la scena, notando che alcuni avevano addirittura iniziato a gridare ''Rissa! Rissa!''
«Io non lo so.»

Axel allora inarcò un soppraciglio e accennò un mezzo sorriso divertito, voltandosi finalmente verso il giovane. «Ti piace tanto qui, eh?»
Il biondo si sentì disorientato dalla domanda e impiegò parecchio tempo per rispondere; si morse leggermente le labbra e si guardò le scarpe diverse volte.
Che cosa doveva fare? Annuire? O ammettere che semplicemente doveva superare la prova? E se Axel fosse davvero un amico delle ombre nere?
«Il mare ha un buon odore.»
Gli occhi del rosso allora si illuminarono, proprio come quando i fili d'erba dei viaggi di Roxas luccicavano grazie alla rugiada. «Sì, il mare ha un odore meraviglioso, vero? Ti entra proprio dentro, è forte, come la birra. Non ci si scorda facilmente del profumo dell'acqua marina. E sai qual'è la cosa più bella del mare?»
Roxas scosse la testa e Axel proseguì: «Che o lo comandi tu o ti comanda lui. Ogni volta il ruolo cambia; quando l'acqua è calma sappiamo dove andare, ci porta dove vogliamo. Invece quando ci sono le tempeste è veramente dura perché è lui a prendere in mano la situazione, a trascinarci nei posti che desidera. Poi non sempre è facile prevenire una tempesta. La conosci la storia di Ulisse?»
Il sedicenne, che era rimasto abbagliato da tutte quelle informazioni che gli erano giunte alle orecchie in così poco tempo, si sforzò ancora di scuotere la testa; forse ne aveva sentito vagamente parlare, ma non ricordava poi molto.
«No, davvero? Ma cosa vi insegnano a scuola? Un mucchio di stronzate, scommetto», Axel rise e fece un cenno con la mano prima di riprendere la parola: «Ulisse era un uomo che, dopo una lunga guerra, doveva tornare in patria, da sua moglie. E sai quanto ci ha impiegato per raggiungere la sua meta?»
Il biondo scosse la nuca per la terza volta.
«Dieci anni. E sai perché? Perché il mare continuava a sbatterlo da una parte all'altra. Lo trascinava in un sacco di posti strani, terre sconosciute con gente un po' matta.»
Roxas sbatté ripetutamente le palpebre e si affrettò a chiedere: «Ma non stava male, visto che era lontano da casa?»
«Beh, sì, certo, però ha anche imparato tante cose.»
«Ad esempio?»
Axel rise, fece emergere, in mezzo al racconto che si stava formando nella mente di Roxas, la sua risata colorata, e allora il biondo alzò di scatto gli occhi al cielo, sperando di vedere l'arcobalena. «Non lo so, sinceramente. Non studiavo niente quando andavo a scuola.»
«Perché, ora non ci vai più?»
«Ma figurati. Ho lasciato ai diciotto anni.», spiegò l'uomo incrociando le braccia con fare fiero, ottenendo però come risposta lo sguardo quasi sconvolto del giovane. «Come? E poi come hai fatto? Non hai più studiato, non ti svegliavi più presto, non vedevi più i tuoi compagni? E all'università? Non ti accettano se interrompi gli studi! E come lavorerai?»
Non riusciva a credere che potesse esistere qualcuno che aveva interrotto i propri studi: com'era possibile? La madre di queste persone non aveva detto nulla?
Nel frattempo la lite tra Xaldin e Xigbar sembrava essere magicamente scomparsa -Anche se di tanto in tanto si lanciavano ancora delle occhiate truci-, poiché i due, così come tutti gli altri, avevano ripreso il proprio massacrante lavoro di trasporto;  Axel dunque afferrò un barile accanto a sé e, ridendo, rispose brevemente alle numerose domande del biondo: «Io vivo alla grande, caro mio. Vivo benissimo senza università, studi, scuola e cazzate del genere. Sto già lavorando e ho viaggiato quasi ovunque.», e, dopo aver spiegato ciò, iniziò ad incamminarsi verso la nave, quando Roxas si affrettò a seguirlo. «E che lavoro fai?»

«Sono un marinaio.», rispose Axel con una certa fierezza, raggiungendo poi il ponte di legno che collegava il porto alla nave.
«E che cosa fa un marinaio?». A quella stramba domanda Axel scoppiò in una fragorosa risata e scosse la folta chioma rossa. «Certo che sei proprio strano forte, eh? Fa un po' di tutto. Qui in particolare trasportiamo merci ovunque». Successivamente fece un paio di passi lungo il ponte e si voltò, notando che l'altro non cennava a muoversi. «Beh, non vieni?»
Il volto di Roxas allora si illuminò e il ragazzo fece per raggiungere l'uomo dalla risata colorata, quando il pensiero della scuola lo bloccò. «Ora non posso.»
«No? Beh, peccato. Allora alla prossima!»
«Però vorrei.», si affrettò ad aggiungere Roxas, sentendo poi la medesima sensazione di imbarazzo che aveva provato il giorno prima; abbassò di scatto le iridi e si strinse le cartella sulle spalle. «Vorrei vedere questo... Questo coso lì, sì.»
«La nave?», lo aiutò con un sorriso divertito Axel, ottenendo un cenno positivo con la nuca da parte dell'altro. «Beh, passa dopo, quando ti va. Tanto oggi non c'è molto lavoro da fare.»
«Verrò dopo scuola.», annunciò con sicurezza il biondo, sentendosi particolarmente euforico; molto probabilmente era emozionato per il semplice fatto che avrebbe avuto modo di conoscere meglio l'uomo dalla risata colorata e così avrebbe finalmente capito chi era il vero generale.
Axel annuì e sorrise in segno di saluto prima di voltarsi e raggiungere la nave.
Roxas rimase qualche secondo immobile ad osservare inizialmente la figura del rosso, poi il vuoto che lasciò.
Quella mattina per la prima volta arrivò in ritardo a scuola, ma, stranamente, non si sentì in colpa di fronte ai rimproveri dell'insegnante.

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*Note di Ev'*
Mi dispiace tanto, ma non sono capace ad essere in orario.
Penso che le mie cellule abbiano una forte, ma che dico, fortissima avversità verso la puntualità e ciò vi assicuro che vale anche per la mia vita quotidiana.
E vabbeh, c'est la vie.
Questo capitolo l'ho scritto... Uhm, un po' tra Gennaio e Maggio, ma veramente poco, andavo avanti a singhiozzi. Poi, durante gli ultimi giorni di scuola, mi ci sono messa proprio di impegno ed eccomi qua.

Principalmente perché ho terminato il primo capitolo di una nuova long e.. Sto morendo dalla voglia di pubblicarlo, però mi sono imposta di tirare avanti almeno un po' con le altre storie, in modo da guadagnare tempo con questa nuova long e magari arrivare al capitolo tre; in questo modo eviterei prossimi ritardi.
Anyway, niente, andiamo con la solita analisi:


Il capitolo è alternato, come avrete certamente notato, dai momenti serali di riflessione di Roxas; essi forse potrebbero risultare in qualche modo noiosi, ma penso che siano essenziali, poiché rendono meglio la parte psicologica del protagonista, più strano del solito.
Ho trovato carinissime le vostre recensioni; molti di voi mi hanno addirittura chiesto se Roxas avesse dei ritardi al cervello o se soffrisse di qualche forma particolare di autismo! Ebbene... Non vi dirò nulla, poiché c'è ancora un capitolo che ci attenderà.
La parte più importante è appunto quella centrale, ovvero quella che riguarda i particolari incontri che ha avuto il biondo; egli si trova in difficoltà, poiché non riesce a distinguere il ''vero generale'' tra Riku e Axel.
In realtà, ohm, spero di avervi un po' stupito, poiché magari pensavate che l'uomo sul faro fosse Axel... E invece no, è un marinaio, olè!
E niente... Non ho neanche molto da dire perché penso di aver vomitato tutto in questo capitolo; e vorrei aggiungere che sono assai stanca, dato che ho passato la mattinata e la serata a rileggere tutto per correggere eventuali errori.
Sì, insomma, si sa; a grandi linee, Roxas sta iniziando un po' a guardarsi attorno. Oltre ad aver scoperto l'esistenza del mare, del mestiere del marinaio, si è anche in qualche modo accorto che la figura del panettiere non è particolarmente simpatica. Certo, se n'è accorto tramite le sue fantasie, però accontentiamoci del suo passo avanti.
E, un altro dettaglio di fondamentale importanza, è il fatto che non solo sta iniziando a dare uno sguardo più accurato all'ambiente circostante, ma ha cominciato perfino a guardare la propria persona, grazie all'affermazione di Axel.
Vedremo, vedremo nel capitolo successivo...
Oh, ecco, a proposito.
Mi dispiace tantissimo di non essere riuscita a terminare la storia; vi avevo martellato i coglioni, nel capitolo precedente, con il fatto che la storia avrebbe avuto soltanto due capitoli, ma è stato veramente impossibile. 'Sta mattina, terminando finalmente la trascrizione, mi sono accorta che era una cosa veramente chilometrica. Sul documento Word Pad il primo capitolo è da 43,6 KB... Questo da... Omg, 65,6 KB °-°
E ho ancora tante, troppe cose da scrivere. E vabbeh, vorrà dire che i capitoli non saranno due, ma tre.
Fine dell'analisi.



Allora, allora... Sono iniziate le vacanze estive, sia ringraziato il Signore!
Io... Io non lo so. Per me Mercoledì è stato l'ultimo giorno di scuola e boh, adesso finalmente potrò lanciarmi a capofitto nei miei vari impegni riguardanti la scrittura. Finalmente non avrò ansie, compiti (Sì, ovvio, ho una miriade di esercizi, versioni e chi più ne ha più ne metta, ma chissenefotte) e cose del genere.

Solo mare, piscina, uscite, libri e scrivere, scrivere e scrivere all'infinito.
Mi auguro che le vostre vacanze siano iniziate bene, poiché, a parer mio,  Giugno è il mese più bello, dato che si ha la mente completamente priva di pensieri riguardanti gli impegni scolastici.
E niente... Se avete letto questo capitolo vi obbligo a suon di bastonate incito a commentare, poiché siamo in un sito in cui il confronto è essenziale, e... Sì, le vostre recensioni sono il mio ossigeno, ohw.
Niente, mi dileguo. Il mio prossimo aggiornamento spero riguardi ''Insidie Interiori'', lala.
Alla prossima, people.
E.P.R.


Ps. Qualcuno sarebbe così gentile da consigliarmi un buon sito per l'HTML? No perché questo che sto utilizzando è buono, però quando faccio ''Copia-Incolla'' ad ogni riga lascia uno spazio e io sono costretta riguardare tutto per renderlo più ''attaccato'', quindi è un lavoro veramente massacrante.

   
 
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