Cap
1
Due anni, un mese mesi e sei giorni dopo…
Mi stanno trasferendo in quella che probabilmente sarà la
mia ultima camera d’
ospedale, sta volta il viaggio sarà più
emozionante di camminare per qualche
metro da un corridoio all’ altro o di imboccare qualche
superstrada per una
grande città.
No, questa volta mi faranno addirittura prendere un aereo.
Sembra il colmo, dato che proprio uno di quegli aggeggi mi ha tolto
tutte le
persone che amavo, adesso sono costretta a salirvici ,per raggiungere,
quella
che pare ,la tappa più importante del mio percorso di
riabilitazione.
Sono stata in coma per due anni e quando mi sono svegliata, che dire,
avrei
preferito di gran lunga lasciarci le penne in quel letto d’
ospedale.
All’ epoca dell’incidente avevo quindici anni, e
si, ammettiamolo, ero
soprappeso.
Pesavo quasi settantacinque chili e la mia altezza rientrava nella
media.
Avevo i capelli corti, appena sotto l’ orecchio, a causa di
un ragazzino che mi
ci aveva appiccicato una gomma da masticare, una delle tante
umiliazioni che
avevo subito.
Avevo anche una ricca fioritura di brufoli sulla fronte , spesso
oggetto anche
quella di scherno.
Per mia fortuna non portavo ne l’ apparecchio ne gli
occhiali, se no il mio
livello di sfigata non avrebbe fatto che peggiorare, ma ehi, toccava
già il
fondo, dato che ero anche la secchiona della classe.
Penso che avrete capito che la scuola non era proprio il mio regno. La
situazione famigliare era tutto un altro paio di maniche.
L’ unica persona che davvero mi manca è mia
sorella minore, l’unica che mi
abbia mai capito.
Si chiamava Tessie e aveva un anno in meno di me, era completamente il
mio
opposto sia caratterialmente che fisicamente.
Ma lei non mi disprezzava come i miei genitori. Avevo preso la mia
costituzione
da mia madre, all’inizio non lo sapevo, per via delle
liposuzioni a cui si era
sottoposta, ma poi avevo trovato delle foto, e quelle erano valse
più di mille
parole.
Le ricordavo lei da giovane.
Mio padre era ubriaco dal mattino alla sera, ma per fortuna non era un
tipo
manesco, anche se riusciva ad arrivare a farti sentire uno schifo con
la
caterva d’ insulti che sapeva scaricarti addosso.
Non era facile reggere tutto quel disprezzo, ecco perché per
una volta che ne
avevo avuto l’ occasione, avrei preferito salire
nell’ alto dei cieli, e
guardare le anime ,di chi si era sempre preso gioco di me ,essere
condannate
all’ inferno.
Ma non era accaduto.
Alcuni anni precedenti al coma avevo più volte pensato al
suicidio, ma avevo
sempre avuto troppa paura di rinunciare alla mia vita attraverso un
atto con
cui sapevo perfettamente quello a cui stavo andando in contro.
Avevo ancora delle ancore di salvezza.
La mia musica e mia sorella.
Sono abbastanza brava a suonare il violino, già da piccola
prendevo lezioni.
Mi pare un secolo da l’ ultima volta che ne ho preso in mano
uno.
Siamo arrivati all’aeroporto, c’ è pieno
di gente, il mio psicologo prende le
valige, e ci dirigiamo all’ interno.
Catoptrofobia, ne sono stata affetta per due settimane, ma non penso di
esserne
ancora del tutto uscita.
La paura degli specchi.
Qui è pieno di quelle superfici riflettenti.
È l’ immagine che mi rimandano che non riesco a
riconoscere, una parte del mio
cervello continua a insistere che quella non sono io.
Mi soffermo a guardarmi mentre Riley è andato a fare il
check in per entrambi.
I capelli mi arrivano fino al seno, nessuna infermiera ha mai voluto
tagliarmeli, dicevano che erano troppo belli, io non ciò mai
trovato nulla di
speciale.
Sono mossi, castani scuro, mentre gli occhi sono color mogano, o almeno
quello
sinistro, l’altro è pieno di sfumature azzurrine,
li mancano 9 diottrie su
dieci, è quasi inutilizzabile.
So magra, anche troppo.
Mi tasto la pancia e sento la durezza delle ossa.
Nel farlo mi si scoprono appena i polsi, sono pieni di cicatrici.
Sospiro, l’ autolesionismo mi ha aiutato parecchio anche se
non ci sono più
ricascata, da quando Tessie mi aveva vista in bagno con le lamette e si
era
messa a controllarmi tutti i giorni, affinché non ripetessi
quei dannati tagli.
Una ventata d’ aria gelida mi colpisce, siamo in pieno
inverno.
Cerco di scaldarmi, vedo Riley che mi sta facendo segno di seguirlo.
<< Dobbiamo imbarcarci ? >> gli chiedo
appena sono abbastanza
vicina così che lui possa sentirmi in mezzo a tutti quei
frastuoni.
<< Si >> dice controllando di nuovo i
tabelloni.
Riley ha trent’anni, sono il suo primo “
caso”, probabilmente mi considera un
colpo di fortuna.
Ha un po’ di barba sulle guance e sul mento, la fronte
imperlata di sudore,
nascosta un po’ dai capelli biondi, indossa un cappellino di
lana grigia che
riprende il colore degli occhi.
È più alto di me di una spanna, ed è
anche piuttosto agitato.
<< Non hai un buon rapporto con gli aeri, né ?
>> gli dico dandogli
una gomitata che lo fa girare. << Non dovrei essere io a
dirlo a te?
>> risponde sorridendo.
Io mi limito a fare spallucce e in quel momento una sirena ci avverte
che l’ora
x è finalmente arrivata.
<<
Sei
pronta Bella per l’America? >>
Come se avessi il lusso di poter rispondere di no.
Mi
porto una
mano al cuore e non sento nessun battito, non ho più un
cuore, ma almeno non di
carne.
In sostanza è una macchina, una sfera per la precisione che
pompa il mio
sangue.
Non sono ancora abituata al debole ronzio che emette.
Faccio il primo passo verso quella che sarà la mia nuova
vita con l’unica
certezza che in quella terra straniera farò in modo che
nessuno si prenda di
nuovo, come in passato, la libertà di potermi ferire.