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Autore: NotFadeAway    22/06/2013    1 recensioni
E' la storia di una donna, disabile e forte, Eve e un uomo, che lei chiama Ombra, sembra che il loro amore sbocci dal nulla, come nelle favole, ma un segreto oscuro verrà prima o poi alla luce...
Questa storia nasce da un'ispirazione che mi è venuta in seguito alla visione del film "Sette anime", non ho voluto portarla per le lunghe, sarà di soli due capitoli. E' una storia d'amore, ma non lasciatevi ingannare dall'inizio, il mio consiglio è di andare fino alla fine prima di additare questa storia come troppo melensa.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Severus Piton
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Durante l'infanzia di Harry
Capitoli:
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Erano passati due anni dal nostro primo incontro e parecchie cose erano cambiate: adesso io ed Ombra vivevamo assieme, avevamo comprato una nuova casa, dopo esserci trasferiti più a Nord, in Scozia. Adesso avevamo un bambino, aveva pochi mesi e si chiamava Jules. Adesso io non ero più su una sedia a rotelle e Ombra era un mago.
Non potrò mai dimenticare la volta in cui mi rivelò la verità su di lui, fu la notte più folle della mia vita.
 
Era il maggio dell’85 e noi avevamo scoperto da pochi giorni di aspettare un bambino. Io ero felice, e lo era anche Ombra, ma quella sera avevo iniziato a rimuginare su una serie di cose e non riuscivo a prendere sonno.
Eravamo stesi tra le coperte del nostro letto ( abitavamo ancora a casa mia, allora), lui stava leggendo un libro scritto in strani caratteri e, al posto di sfogliare la mia solita rivista, io guardavo il soffitto su cui si proiettavano tutte le ombre della stanza.
-Ombra. C’è una cosa che non ti ho mai detto – esordii. Il cuore iniziò a pompare più forte il sangue.
Lui chiuse il libro, lasciando un dito tra le pagine, per tenere il segno, e si girò a guardarmi.
-Che cosa? –
-Un tempo, prima che ti conoscessi, io ero cieca – dissi, senza avere il coraggio di guardarlo, - Poi, quattro anni fa, il 5 novembre del 1981, mi è arrivata una chiamata, dall’ospedale: c’era un donatore. Fui portata lì d’urgenza e il giorno dopo ebbi il trapianto. Il mio corpo accettò i nuovi organi e iniziai a vedere. – continuai, senza dargli la possibilità di potermi interrompere – Non te l’ho mai detto perché prima di quel 5 novembre è stato il periodo più buio della mia vita, in tutti i sensi che si possono attribuire alla parola “buio”. Non ero mai riuscita ad accettare di essere cieca, nonostante alla fine mi fossi rassegnata a essere costretta su quella cosa – indicai la sedia a rotelle.
Sentii un frusciare i lenzuola: era Ombra che si era fatto più vicino.
-Non importa, Eve. Non più . – mormorò.
-Non capisci? Io ero cieca dalla nascita. E se nostro figlio dovesse essere come me? –e senza accorgermene scoppiai a piangere, sentivo tutto il peso del senso di colpa: il mio egoismo mi avrebbe portato a far nascere un’altra creatura condannata a quella vita, come me. – Io non voglio questo per lui!  Non voglio che sia costretto su una carrozzella tutta la vita, come la madre! Non voglio che, ad accoglierlo in questo mondo, ci sia il buio! –
Le lacrime mi scivolavano giù tra gli occhi e mi bagnavano i capelli, sentii la sua mano ruvida intervenire e arrestarne una.
-E’ giunto il momento che anche io ti dica una cosa, Eve – c’era qualcosa di solenne in quelle parole – La verità su di me –
Tutta la mia attenzione fu catturata dalle sue parole. I misteri su di lui erano solo aumentati negli anni.
-Non sarà facile da accettare, Eve. Probabilmente crederai che sono diventato pazzo o che ti sto prendendo in giro, ma ti posso assicurare che nessuna delle parole che ti dirò si discosterà dalla realtà – aggiunse, toccandomi una mano tra le lenzuola.
-Falla finita. Voglio sapere! – dissi, sbranata dalla curiosità.
-Va bene – fece lui – Sono un mago – e detto questo mi guardo, grave.
La mia reazione non fu difficile da interpretare: molto semplicemente gli risi in faccia.
-Eve, per favore, sono serio –
Io cercai di arrestare il mio attacco di risa, con cui stavo sfogando tutti i miei nervi.
-Intendi … intendi che sei un prestigiatore? –
-No, un mago – e senza che neanche finisse di parlare, fece spuntare una sorta di bacchetta magica da non so dove e la luce si accese.
La sorpresa, per un attimo m’impedì di continuare a ridere, poi mi resi conto che doveva essere solo un trucco e glielo dissi.
-Ah sì? E questo … - si alzò in piedi sul letto, fece un mezzo giro su se stesso e… scomparve. Riapparve due metri più in là, vicino alla porta - … è un trucco? –
Io mi ero portata le mani alla bocca e avevo gridato per lo spavento. Lo guardai preoccupata che si inerpicava di nuovo sul nostro letto.
-Oh mio dio! Non è possibile. Ci deve essere sotto qualcosa! – stavo farfugliando.
-Perché i Babbani sono sempre così restii a credere alla magia? – rispose lui, anche se non afferrai il senso di tutte le sue parole.
Ci volle un’ora perché riuscisse a convincermi che quello che diceva era vero: Ombra non era un prestigiatore, era proprio un mago! Mi mostrò che poteva muovere, duplicare e far scomparire gli oggetti senza neanche toccarli, mi diede la prova che poteva leggermi la mente (anche se quando definii così la sua abilità mi fece uno sproloquio di mezz’ora sul perché non si doveva parlare di “lettura della mente”. Ma ovviamente avevo ragione io); mi fece vedere che poteva creare uno scudo, fare esplodere qualcosa e riaggiustarlo all’istante, e mi mostrò persino alcuni incantesimi inventati da lui stesso.
Era notte fonda ormai, e noi eravamo ancora tutti presi da quella situazione, io avevo colto il lato sensazionale della cosa e continuavo a chiedergli cosa potesse o non potesse fare. Quando ebbi esaurito le richieste, lui prese a spiegarmi dove lavorava e mi raccontò ogni cosa del mondo magico che viveva proprio sotto gli occhi di tutti, ma che nessun Babbano (le persone senza poteri magici le chiamava così) mai notava.
Alla fine sentimmo l’orologio chiamare le quattro del mattino.
-Cavolo, è tardissimo! E chi dorme ora? – esclamai io.
-Adesso te lo do io il vero motivo per non dormire, Eve – rispose lui.
Attimo di pausa.
– Io posso guarirti –
Sentii il cuore mancarmi un colpo e tutta l’aria, all’improvviso , uscirmi dai polmoni. Mi girai lentamente verso di lui, con i battiti così profondi e forti che facevano eco in tutta la stanza.
-Che vuoi dire?-
-Che quella – e indicò la sedia a rotelle, – presto  non ti servirà più. – e mi fece il sorriso più bello che mi avesse mai fatto prima.
Le lacrime tornarono a irrorare i solchi che avevano lasciato prima, e mentre piangevo, cercai il suo abbraccio.
Si dice spesso che un uomo ti può stravolgere la vita, nel mio caso non c’era niente di più vero.
 
Aveva passato gli ultimi mesi a studiare il mio caso e alla fine aveva imparato come trattarlo.
Il mattino seguente, fece apparire nella stanza una sorta di barella, mi fece spogliare e mi stese su di essa. Poi prese una boccetta di vetro, mi versò qualche goccia sulla lingua e mi bagnò i polsi. Non era un’operazione vera e propria, ma era lunga e dolorosa lo stesso, quella pozione (l’aveva chiamata così) mi avrebbe conciliato un sonno profondo e assicurato l’insensibilità.
Non so quanto tempo dopo, mi risvegliai; avevo una nausea fortissima, la testa che mi pulsava dolorosamente e uno strano sapore pungente sulla lingua. Ombra era appoggiato con le mani al lettino da un lato e l’altro delle mie spalle e mi fissava: aveva occhiaie così marchiate, che sembrava avere gli occhi pesti, ma per il resto era bellissimo come sempre.
-Ben svegliata, Eve. Come ti senti? – mi chiese.
Io per tutta risposta feci leva su un gomito e vomitai per terra. Ombra mi tenne i capelli lontano dal viso, poi ripulì tutto agitando la sua bacchetta e mi porse un cucchiaio.
-Tieni, questo ti farà stare meglio  - disse – Allora, non mi chiedi com’è andata? –
Io tirai fuori una voce flebile e tremolante.
-Com’è andata? –
-Guarda tu stessa – mi sorrise.
Io mi fissai i piedi e, come avevo tentato centinaia di volte, mi concentrai sulle dita e provai a muoverle: stavolta, senza alcuno sforzo, le mie dieci dita obbedirono al mio comando, salutandomi da laggiù.
-Oh mio dio! –
-Avanti, puoi fare di meglio, Eve. Andiamo – fece lui e mi porse il braccio e una vestaglia.
Io lo afferrai e mi coprii e, prima una gamba, poi l’altra, le spostai giù dalla barella e sfiorai il pavimento con le punte: sentii il tocco ruvido della moquette. Strinsi le labbra e gli occhi mi brillarono per l’emozione.
-Piano adesso – disse Ombra.
Al suo tre, mi drizzai sulle mie gambe e, dopo un primo attimo di sorpresa in cui mi cedettero, assieme a lui mossi i miei primi passi.
Erano due giorni che Ombra non chiudeva occhio, perché tanto era durato l’intervento, ma non si tirò indietro e trascorse tutta la mattinata a insegnarmi a camminare, e poi, non contento, accettò di fare l’amore con me, che finalmente potevo muovermi, una cosa sola, assieme a lui.
 
Decidemmo per questo di cambiare casa, tutti quegli appoggi, i mobili su misura e i sostegni non volevo vederli mai più, erano la memoria di un passato che ora apparteneva solo alla morte.
 
Quel giorno, invece, quel maledetto giorno, iniziò come tutti gli altri.
Era l’alba e la luce filtrava a malapena tra le veneziane, disegnando un chiaroscuro di strisce sul nostro letto. Jules non ci concesse nemmeno quella mattina il beneficio di arrivare alle sette, così alle cinque Ombra era già filato verso la culla.
-Ci penso io – aveva detto, assonnato.
Io avevo mormorato un flebile “grazie”, prima di risprofondare nel sonno più profondo. Quando la sveglia suonò, due ore più tardi, schioccando la lingua nella bocca secca, mi alzai e scesi finalmente in cucina, per dare il cambio ad Ombra.
Li trovai vicino al tavolo, Ombra era seduto e teneva Jules per una mano, che, tutto fiero, era riuscito a mettersi in piedi e a sedersi nel portafrutta.
-Buongiorno – esordii, annunciando la mia presenza.
-Hai visto, Jules, è arrivata mamma! – esclamò Ombra, voltandosi nella mia direzione.
-Amore, vuoi venire da me? – dissi, porgendogli le braccia, ma il piccolo fedifrago fece un mugolio di protesta e si allungò verso il padre.
-Ah, è così? Va bene, vorrà dire che dovrò prepararla io la colazione –
Misi a fare il caffè e a riscaldare il latte, poi iniziai a darmi da fare per ripristinare un senso di ordine (almeno apparente) nella stanza.
-Lascia, faccio io – fece Ombra e con solo un lieve piegamento del polso (e la sua maledetta bacchetta), ripose tutte le costruzioni di Jules nella scatola.
-Lo sai che ti odio per questo, vero? – scherzai io, guardandolo in cagnesco. – Che cosa fai oggi? –
-E’ l’ultimo giorno di esami, non dovrei fare tardi – disse, mentre Jules faceva  spiattellare con soddisfazione una prugna sul tavolo.
-Finalmente, non vedevo l’ora! Tra poco si parte! – feci io, andandogli a schioccare un bacio sulla bocca, mentre la barba mi pungeva piacevolmente la faccia.
Saremmo andati in Francia, in Costa Azzurra per la precisione, per prendere un po’ di sole che fosse degno di questo nome. Ma quello sarebbe stato solo il primo di una serie di viaggi: non appena Jules si fosse fatto più grande, saremmo volati oltre oceano e avremmo visitato ogni continente.
-Amore, perché non vieni da mamma, che ti dà il lattuccio! – dissi, poco più tardi, agitando un biberon. Jules, quel ruffiano, si lanciò verso di me, stavolta, e lasciò libero il padre di prepararsi. Questi scese di nuovo di sotto dieci minuti più tardi, in uno di quei suoi strani vestiti tutti tunica-e- mantello e sparì, come tutte le mattine, in un groviglio di stoffa nera.
Scoprii tutto per puro caso, molte ore più tardi: avevo, clandestinamente, portato Jules a giocare nello studio del padre e, in un attimo di distrazione, lui per poco non si era tirato un cassetto in testa, lasciando che si sfracellasse per terra. Allarmata per Jules, non pensai a mettere a posto, ma me lo portai alla luce per assicurarmi che stesse bene. Solo nel pomeriggio, quando il piccolo si era appisolato nella sua culla, tornai nella stanza per occultare il danno prima che Ombra tornasse.
Il cassetto che Jules aveva fatto cadere aveva rovesciato fogli dappertutto, era urtato su uno spigolo e si era distrutto, rivelando un doppio fondo. Mi chinai per rassettare e notai che le foto che sparse per il tappeto ritraevano tutte la stessa donna.
Lessi un nome e tutto fu così dolorosamente chiaro.
“Lily Evans Potter”.
 
Severus aveva appena terminato l’ultima seduta di esami e stava tornando nel suo ufficio per riporre le scartoffie, nel frattempo aveva ben chiara, nella mente, la sua prossima mossa. Contro il petto gli sbatacchiava la svolta che avrebbe condizionato il resto della sua vita. Era un anello.
Raggiunse i sotterranei ed entrò nella stanza buia, mentre pensava ad Eve e a quanto aveva imparato ad amarla. Ripose le carte e sfilò l’astuccio per controllare che l’anello fosse al suo posto. E c’era. Era lì che brillava più della candela che sgocciolava sulla scrivania: era puro estratto di luce lunare; i Babbani non ne facevano così. Sfilò la bacchetta e gli diede un ultima pulita, quindi lo richiuse e lo strinse forte in mano. Uscì dal castello,  inspirò profondamente e si Smaterializzò.
 
Apparve nell’ingresso di casa e fece subito comparire un mazzo di fiori, perché ad Eve piacevano quelle cose, poi chiamò il suo nome a gran voce. Ma, quando la individuò, seduta al tavolo della cucina, si accorse che stava piangendo.
Appoggiò i fiori sulla panchetta del vestibolo e si precipitò incontro a lei.
-Eve, che è succes …- ma s’interruppe, perché  per tutto il tavolo erano sparse le sue foto di Lily e perché l’aveva capito da solo. Lo scatolino con l’anello rotolò a terra.
Lei alzò lo sguardo verso di lui, i suoi occhi erano arrossati e pieni di lacrime
-Perché? – fu l’unica cosa che riuscì a dire, la voce era affranta e ferita e delusa.
Severus, con un groppo alla gola, si rassegnò a raccontarle una nuova verità.
-Si chiamava Lily Evans e l’ho conosciuta quando avevo nove anni, allora anche la mia vita era buia, non avevo nessun posto che potessi chiamare casa. Poi la vidi nel parco e le cose iniziarono a cambiare. Le rivelai che era una strega e diventammo presto migliori amici. Siamo andati ad Hogwarts assieme. Poi, col tempo iniziai a perderla e, all’ultimo anno, lei si fidanzò con la persona che più detestassi sulla faccia della terra, e le nostre strade si divisero.
- Questo – si era alzato la manica e ora si era puntato la bacchetta sull’avambraccio sinistro: il teschio e il serpente passarono da un pallido rosso ad un fervido nero, - non è un tatuaggio. È il Marchio Nero. A diciannove anni entrai a far parte dei seguaci di un Mago Oscuro e un anno più tardi origliai una conversazione che mise il capo dell’organizzazione sulle tracce di lei – e qui sfiorò una delle foto con due dita – e della sua famiglia. Terrorizzato che potesse succederle qualcosa, provai a tornare sui miei passi, chiesi aiuto e passai dalla parte giusta… Ma fu tutto inutile. La persi il 31 ottobre di cinque anni fa; fu uccisa anche e soprattutto per colpa mia – deglutì, quel pensiero gli provocava ogni volta una fitta al petto – Due anni fa, ho scoperto che nel suo testamento aveva lasciato detto che era favorevole alla donazione degli organi. E così… ho trovato te – e il suo sguardo si spostò dalle vecchie foto agli occhi verdi di Eve, che non smise di guardarlo, o di piangere. – Io non volevo fare niente, solo vederti. Ma dopo la prima volta, volevo farlo ancora. Ma solo all’inizio è stato così – si affrettò a dire - poi, da quando tu mi hai chiesto di uscire, le cose hanno incominciato a cambiare. E se in passato sono mai stato confuso sui miei sentimenti nei tuoi confronti, adesso ti posso giurare che non è più così. Sono qui per te, Eve, non per Lily.- concluse, lasciando che il silenzio strisciasse dietro alle sue parole.
Eve al suono dell’ultima frase si chinò in avanti sul tavolo, portandosi le mani alle orecchie.
-Smettila, ti prego – sembrava che qualcuno la stesse bastonando e ci mise un po’ a riprendere il controllo di sé. –Non riesco neanche a pensare come tu abbia potuto fare una cosa del genere! Come tu abbia potuto ingannarmi così! Io mi ero fidata di te – ora si era alzata in piedi e aveva preso a gesticolare –Avevo imparato a farlo, nonostante tutti i tuoi segreti, ma mai avrei immaginato che tu fossi arrivato a tanto… Perché poi?! Perché tengo i cazzo di occhi di questa cazzo di donna?! – gridò, agitando alcune delle foto e scaraventandole all’aria. Lacrime di rabbia colavano a picco sul pavimento – Tu ti rendi conto?! Questa è solo carne!  Che cos’hanno a che fare questi due pezzi di carne con quella donna? Che cos’hanno veramente a che fare con me? Non è così che funziona l’amore, Ombra, non è così! –
Severus aveva assistito alla scenata di Eve senza interromperla e dire una parola.
-Eve –fece, quando lei si fermò per riprendere fiato – Io non sono venuto in cerca di una relazione con te. Non ho mai cercato di rimpiazzare Lily con te. Io volevo solo vederti, scusami se poi mi sono affezionato a te, la prossima volta starò più attento! –
-Invece è proprio quello che hai fatto! Io sono diventata solo il macabro sostituto di quella donna!- strillò.
-No, Eve, non è così! Me lo sono chiesto, credimi, me lo sono chiesto, ma non è come … -
-E allora stai mentendo anche a te stesso, Ombra!  - sentenziò la donna, in tono secco.
L’uomo fu per un attimo paralizzato dalla risposta di Eve, poi sembrò ricomporre i propri pensieri e riprese.
-No, aspetta. Ti giuro che non è vero. Guarda! – fece e, chinandosi, riemerse con uno scatolino celeste tra le mani, aperto a mostrare un anello. Eve oscillò sulle sue gambe, coprendosi l’intero viso con il palmo delle mani. – Io ti amo, per davvero – disse, finalmente uscendo dal suo imbarazzo e pronunciando quelle tre parole.
Eve gli si fece incontro ed andò ad abbracciarlo.
-Anche io ti amo ancora, Ombra, questo è il problema. –disse, sprofondando nel suo petto.  – Ma non potrò mai più fidarmi di te –
-Ma adesso sai tutta la verità, Eve. Niente più segreti! – provò a dire lui.
-E’ un po’ tardi, Ombra, non credi? – fece, staccandosi – Prendi le tue cose, vai via – disse, quasi contro se stessa.
L’uomo la guardava, sconvolto.
-Eve … -
-Non tornare – concluse e uscì dalla stanza.
 
 
L’aria fredda della notte scozzese lo accolse, gelandogli i polmoni. Era riapparso davanti ai cancelli di Hogwarts e ora fissava, perduto, la via che lo separava dal castello. Fece un passo, ma la gambe, stanche, crollarono sotto il peso del suo corpo e lui si abbandonò a terra.
Da lì poteva benissimo distinguere tutta la siloutte di Hogwarts, che si stagliava in contrasto con lo specchio di luce argentea alle sue spalle.
Severus sentiva dentro di lui un grande vuoto e un vastissimo senso di colpa e amarezza. Tutte le parole che aveva detto Eve… e se fossero state vere? Aveva veramente trovato in lei una sostituta di Lily, che avesse quanto più possibile in comune con lei? No, non poteva essere. Lui amava Eve, voleva dividere con lei il resto dei loro giorni, Lily apparteneva al passato!
 Ma quel pensiero gli fece male.
Come aveva potuto anche solo formularlo?
Si abbandonò steso sul prato, divorato dal dubbio che Eve aveva insinuato in lui, poi trovò un modo per rispondervi.
Per la prima volta, dopo anni, Severus appellò il suo Patronus. La luce argentea si sprigionò dalla sua bacchetta e rapidamente prese forma. Era una cerva.
Sentì il cuore stringersi e pianse amaramente: Eve aveva avuto ragione. Lily era sempre lì.
 
Dopo quella notte, per undici anni Severus non ebbe notizie di Eve, né di suo figlio Jules, perché non lo meritava. Adesso erano solo un’altra manciata di foto, aggiunte al suo album “fotografie che ti farà male riguardare”, e altro dolore da smaltire. Era il suo modo per punirsi, per aver deluso anche l’unica altra donna a cui avesse mai tenuto.
Un altro anno stava per iniziare ad Hogwarts, era tutto come sempre, tranne che, stavolta, era lui il Preside: al centro del tavolo non ci sarebbe stato più il vecchio con la barba argentea ed i suoi caldi discorsi d’accoglienza.
Presto ebbe inizio la sfilata degli alunni del primo anno che, sotto gli occhi di tutta la sala, si arrestò a pochi metri dal tavolo degli insegnanti, davanti al Cappello Parlante. La McGranitt spiegò loro cosa avrebbero dovuto fare e diede inizio allo Smistamento. Ragazzi e ragazze anonimi si susseguirono su quello sgabello traballante dov’erano passate generazioni di studenti e furono distribuiti per le quattro Case, poi Minerva arrivò alla “P” e chiamò il nome di “Prevert Jules”.
 
Durante tutto l’anno, Severus ebbe modo di osservare suoi figlio più volte. Si era fatto così grande, che non l’avrebbe mai potuto riconoscere… Aveva i capelli neri, come i suoi, e gli occhi chiari, che dovevano essere quelli di sua madre. Tuttavia non osò mai parlargli, perché i motivi che glielo sconsigliavano erano troppi e più efficaci del suo desiderio di farsi riconoscere dal figlio: per prima cosa, erano in guerra e Severus era in una posizione talmente delicata, che al minimo errore, avrebbe potuto saltare tutto per aria; non poteva trascinare Eve e Jules in questo, aveva già  avuto abbastanza sangue per le mani. E poi, per il ragazzo sarebbe potuto essere uno shock, magari non sapeva nemmeno della sua esistenza, magari Eve aveva trovato un altro uomo e Jules credeva di essere figlio di quest’ultimo. Infine, la sua reputazione, al momento, era pessima a tal punto, che, se si fosse rivelato in quel momento, Jules lo avrebbe sicuramente odiato. Eppure un tempo gli voleva bene.
Poi, però, quando la guerra proiettò la propria ombra su Hogwarts, le priorità cambiarono.
Era la notte del primo maggio, aveva sentito il Marchio Nero bruciare secondo il segnale prestabilito: Potter era nel castello, il Signore Oscuro era in volo e Minerva lo aveva costretto ad abbandonare la scuola. Per sfuggire all’attacco congiunto di quest’ultima, di Vitious e di Lumacorno, infatti, si era catapultato giù dalla finestra e ora volava per i terreni, in attesa di potersi Smaterializzare.
“Mi prometti che farai tutto il possibile per proteggere gli studenti di Hogwarts?”
Le parole di Silente non lo abbandonavano. Stava fallendo: non aveva possibilità di essere creduto dal resto dell’Ordine, la scuola presto si sarebbe chiusa in assedio e l’Oscuro Sicnore era pronto a sbaragliare le loro difese e dare alle fiamme il castello, pur di ottenere ciò che desiderava. Doveva assolutamente trovare Potter prima di lui, doveva fargli sapere a cosa andava in contro, era in pericolo…
Poi fu folgorato da un altro pensiero: Jules! Anche lui era ancora dentro.
Agì senza pensare, fece inversione e volò verso la Torre di Corvonero, più veloce che poteva. In pochi secondi fu davanti alla finestra della Sala Comune, che pullulava di studenti. Frantumò il vetro, provocando un grido di spavento generale, ed entrò.
-Dov’è Jules Prevert? – disse, perentorio.
Seguì un vociare confuso dal quale si distinse la voce di una ragazza in prima fila.
-Perché lo vuole sapere? –
-Deve venire con me –
-Be’, allora, con tutto il rispetto, vada a farsi fottere, Preside –rispose quella.
Severus s’irrigidì e solo ricordando quanto stretti fossero i suoi tempi, mantenne la lucidità. Notò che un gruppo di ragazzini si stavano agglomerando attorno a qualcosa o, più probabilmente, a qualcuno. Cercò di farsi spazio, ma la ragazza sfoderò la bacchetta e gli lanciò contro una fattura. Severus la parò senza alcuno sforzo e ritentò la sua manovra di avvicinamento, ma il groviglio si era infittito e, in più, altri studenti stavano iniziando a tirar fuori le bacchette.
Perdendo la pazienza, spiccò un volo e con un incantesimo d’Appello riuscì a strappare Jules dalle mani dei suoi compagni e a proiettarsi, di filata, oltre le mura.
Il ragazzino si divincolò per tutto il volo, piangendo e inveendo con quello che credeva essere il suo rapitore. Poi abbandonarono il parco di Hogwarts e entrambi furono risucchiati dalla Materializzazione.
Il numero 16 di Cedarwood Road comparve davanti agli occhi di padre e figlio.
-Vai – disse Severus, spingendolo verso il vialetto di ghiaia.
-Che cosa vuoi farci? – chiese lui, con lo sguardo sbarrato.
-Niente. Adesso vai da tua madre – rispose l’uomo, in tono calmo.
Il bambino sembrava perplesso, ma anche troppo spaventato per non correre incontro alla porta di casa e chiamare subito il nome di Eve.
Dopo qualche minuto di forsennati scampanellii, la donna aprì la porta, con un verso di sorpresa.
-Jules?! Che cosa ci fai qua? -  e si lanciò in un abbraccio cieco del figlio, che ancora singhiozzava.
Quando riuscì a calmarlo, provò nuovamente a ottenere delle risposte: - Come sei arrivato qui? È successo qualcosa? –
Il bambino, tirando su con il naso, si girò e indicò il viale alle sue spalle.
-Ombra…-
Severus sentì il cuore sobbalzare: erano anni che nessuno usava più quel nome. Eve gliel’aveva dato perché diceva che quando stava sulla sedia a rotelle, lui era stato la sua ombra, che spesso era l’unica cosa che vedeva a quel tempo.
-Mamma, che succede? – il ragazzino guardava ora con preoccupazione le lacrime che rigavano la faccia di lei.
-Niente, amore. Vai dentro, che devo un attimo parlare con questo signore –
-Mamma, stai attenta. È pericoloso…–
-Può darsi …  Ora vai – e lo spedì dentro con uno scalpellotto.
Si avviò a percorrere il vialetto e, se prima aveva un’espressione dura, questa si sciolse appena fu davanti all’uomo in nero, che subito abbracciò.
-Mi sei mancato così tanto! – disse, senza preamboli, riempendosi le narici di una delle poche cose che di lui non erano cambiate: l’odore.
Severus fu spiazzato dalla sua reazione, ma non esitò ad accogliere l’abbraccio.
-Non sei più arrabbiata con me? – chiese, stupito.
-Certo che sono ancorafuriosa con te. Ma sono anche ancora innamorata di te – disse, dandogli una stretta al petto. – Sapessi quanto ti ho cercato in tutti questi anni. Non ti ho mai trovato… dov’eri, Ombra? –
-Sono tornato a vivere ad Hogwarts. Avevi detto di non tornare più… –
-E non hai mai imparato che non bisogna mai dare ascolto ad una donna, quando spara queste sentenze? –
-Non era giusto, Eve. Non dopo quello che ti ho fatto. Con che faccia potevo ripresentarmi da te? –
-Con la solita, con questa – gli accarezzai una guancia – magari con il pizzetto sarebbe stato ancora meglio – scherzò. Severus si era tagliato quel pizzetto a cui si riferiva lei non appena era ritornato ad Hogwarts, aveva cercato un modo per dimenticare. – Però, adesso che sei qui, non andare via – mormorò Eve – Vieni dentro –
La donna lo prese per mano e lo trascinò dentro casa.
-Jules non sa di me, vero? – chiese Severus, mentre i dettagli della sua vecchia abitazione riaffioravano nella memoria.
-No, non gli ho mai raccontato di noi. Ho pensato che fosse meglio così… - rispose, mentre raggiungevano la cucina – Ma ora che tu sei di nuovo qui… un momento! Non mi hai ancora detto perché sei qui! È successo qualcosa? Perché hai portato Jules da me? –
Severus la guardò, con lo sguardo grave.
-Stava per scoppiare una battaglia nella scuola, Eve. Di certo avrai sentito che siamo in guerra … -
-Sì, so qualcosa… - fece quella, appoggiandosi al piano cottura.
-Il Signore Oscuro sarebbe arrivato a momenti e presto il castello sarebbe stato assediato. Non potevo lasciarlo lì. –
-E gli altri? -  chiese, seriamente preoccupata.
-Me ne devo ancora occupare. Sono in buone mani, comunque.-
-Grazie, Ombra – e andò ad abbracciarlo di nuovo, sentiva il bisogno del suo contatto fisico. –Aspetta, mi stai dicendo che te ne stai andando? –
Severus la guardò.
-Solo per un poco, devo sistemare questa faccenda, Eve. Non posso abbandonare la battaglia: ho un compito da portare a termine. – ribatté, preso – Se tutto andrà  bene, prestò sarò libero – abbozzò un sorriso, sentendosi come se si fosse disabituato a quelle cose.
-Sì, ma torna, Ombra, e poi, ti prego, non te ne andare mai più – fece lei.
-Come puoi avermi perdonato? – chiese Severus, confuso.
-Perché io ti amo. E non m’importa più per quale motivo, ma so che anche tu ci tieni a me –
L’uomo la guardò di ritorno, era uno sguardo che significava “Anche io ti amo”, ma era passato troppo tempo, non le sapeva più dire quelle parole. Ma quando  si baciarono, dopo tanti e tanti anni e, per pochi secondi, fu come se quel tempo non fosse mai passato.
E poi, quando ormai erano senza fiato, si senti un suono di protesta.
-Mamma! –
Era Jules che, sceso di sotto, si era trovato di fronte alla visione di Eve e Severus stretti l’una all’altro. I due si separarono subito, imbarazzati.
-Che …che stavi facendo? – c’era quasi orrore nelle sue parole.
-Amore – fece quella, cercando di ridare un senso ai propri capelli. Si avvicinò al figlio  - È arrivato il momento che tu lo sappia. Permettimi di presentarti tuo padre –
Severus fece un passo avanti, ma  il bambino sembrava sconvolto.
-Che cosa?! – gridò -Mamma, quell’uomo è un Mangiamorte e un assassino! Ha ucciso il vecchio Preside della Scuola, Silente. Non può essere mio padre! –
Eve guardò incredula l’uomo in nero, che, proprio in quel momento si era afferrato il braccio sinistro. Se lo scoprì, il Marchio si era acceso e lampeggiava a scatti, una, due, tre volte, poi pausa, e di nuovo tre volte. Era il suo segnale: quella chiamata era per lui.
-Devo andare – disse, quasi tra sé, ma Eve lo sentì e gli andò incontro.
-Ombra, aspetta. È vero quello che ha detto Jules? Hai ucciso un uomo? –
-Sì, Eve, ma non è come sembra… devi credermi! È complicato – disse stringendo i denti per le fitte provocatigli dal Marchio Nero. Prese la bacchetta e diede il segnale di risposta, ottenendo così un sollievo dal dolore.
-Che cosa significa tutto questo? Quello che hai detto non ha alcun senso, Ombra – gli occhi di Eve lo guardavano supplichevoli che gli dicessero che Jules stava mentendo.
-Non ho tempo per spiegartelo adesso. Ti dirò tutto più tardi –
Eve si avvicinò, fino ad abbracciarlo per la terza volta.
-Però torna –
-Sì. Devo veramente andare ora. Ciao, Jules – il figlio lo salutò, guardandolo storto, con un cenno della mano poco convinto – Ciao, Eve –
Un ultimo bacio.
-Ciao, Ombra –
 
Ma Ombra non torno più. Perché Ombra morì quella stessa notte.
Lo venni a sapere quando, nella tarda mattinata del giorno dopo, alla porta non venne a bussare lui, ma una lettera, che invitava tutti gli studenti a tornare ad Hogwarts per l’indomani, giorno in cui si sarebbero tenuti i funerali delle vittime. C’era un elenco di nomi, subito sotto il testo della lettera, nel panico i miei occhi scesero alla “O”, ma non trovarono nulla, un crudele attimo di sollievo lasciò che nel mio cuore si liberasse la speranza, poi la memoria mi suggerì il vero nome di Ombra. E quello, quello c’era.
Rimasi con quella lettera in mano per molto tempo, senza piangere o dire niente, poi, senza smettere di guardarla, i miei piedi mi portarono alla stanza che avevo tenuto chiusa per ormai  undici anni. Girai la chiave e con una spallata, entrai nel vecchio studio di Ombra.
La polvere mi solleticò i polmoni ed io tossii, in cerca dell’interruttore, ma illuminare la stanza fu una pessima idea, perché mi fece vedere le disastrose condizioni in cui essa versava. Il mio istinto mi portò, senza che me ne accorgessi, alla scopa e al secchio dell’acqua, così mi rimboccai le maniche ed iniziai a dare una profonda pulita a quel posto. Impiegai un’ora per darle l’aspetto che desideravo, faceva un caldo tremendo, e mentre tante piccole goccioline di sudore mi colavano dalla fronte, queste presero a mescolarsi con le lacrime. Ma non smisi di lavorare freneticamente. Solo quando fui sfinita, mi sedetti a terra, con le spalle contro il muro, per riprendere fiato.
Avevo pianto senza accorgermene e adesso sentivo le guance incrostate di sale. Mi guardai attorno, riesplorando quella stanza perduta: c’erano ancora alcuni degli strumenti di Ombra, un paio di libri, alcuni fogli di pergamena e su uno scaffale tutti gli album di foto che avevo riposto lì, appena se n’era andato di casa.
C’è sempre un momento in cui, liberamente, consapevolmente, ti dai al masochismo, perché senti di averne bisogno. Ebbene, quello fu il mio.
Prolungai le braccia, tirai giù i raccoglitori polverosi e riguardai tutte le nostre foto, dalla prima all’ultima. Non erano molte, Ombra odiava farsi ritrarre, quindi c’erano solo alcune foto con noi due, e altri scatti rubati da me di lui. Quelle più vecchie, poi, erano in bianco e nero, ma le più recenti erano a colori e si muovevano. Ci aveva messo mano Ombra, che diceva che si facevano così le foto nel mondo dei maghi. Ce n’era una così di quando mi insegnò ad andare in bicicletta, si vedeva la mia figura impacciata traballare sulla due ruote, e se la guardavo intensamente, riuscivo ancora a sentire Ombra ridere (quel giorno ebbe la sua rivincita su tutte le mie risate della sua prima volta in bicicletta). Un’ altra ritraeva noi tre, c’era anche Jules, all’ospedale. La foto era stata scattata da una delle ostetriche, subito dopo il parto, e mostrava me bianca e con le labbra frementi che sorridevo come una scema, Jules che guardava con gli occhi sgranati il soffitto e Ombra che invece di fissare l’obiettivo, guardava me e il bambino. E poi c’era una delle mie preferite, l’avevo consumata quella foto a furia di riderci su, in passato. Ritraeva solo me ed lui, ma la scena era andata così: Ombra era appena uscito dalla doccia (e già questa era di per sé una cosa sorprendente) ed io, che mi ero appostata fuori la porta con la macchina fotografica pronta, avevo avviato immediatamente l’autoscatto e gli ero corsa incontro, lui colto alla sprovvista mi prese in braccio (perché forse sarebbe più corretto dire che gli ero saltata addosso… ) e in quel momento la fotocamera scattò. Ombra, alla vista del flash, si era indispettito, quindi aveva una faccia imbronciata e ridicola, mentre io, con un sorriso idiota sulla faccia,  troneggiavo tra le sue braccia. Detestava a tal punto quella foto che non volle trattarla, quindi non si muoveva, ma faceva così ridere… erano i bei vecchi tempi.
Ormai ridevo e singhiozzavo allo stesso tempo, le due cose si erano piacevolmente confuse, dandomi una sensazione di essere estremamente felice ed estremamente triste contemporaneamente. Jules fu presto attirato da tutto il casino che stavo facendo, lo vidi oscurare il filo di luce che proveniva dalla porta socchiusa.
-Mamma… sei qui dentro? Tutto bene? –
-Ti sei svegliato, Jules? – dissi io, sottolineando una cosa palesemente ovvia. – Vieni dentro – Jules non era mai stato in quella stanza, o almeno non vi era mai rientrato dopo quel giorno.
La porta cigolante annunciò la sua entrata.
-Che è successo, mamma? – chiese, preoccupato.
Con il mento, gli indicai la lettera che avevo poggiato sulla scrivania, lui la lesse, ma ci mise più tempo di me, perché scorse tutti i nomi.
-Oh – fece, inciampando anche sul quello di Ombra – Mi dispiace – disse poi, abbassando il foglio.
-Anche a me – mi asciugai con il dorso della mano gli occhi bagnati – Avanti, vieni qui – e gli indicai il lembo di pavimento accanto al mio. – Devo mostrarti una cosa… -
Con due dita, scorsi velocemente tra le foto (quelle disordinate, che non erano state messe in nessun album), poi ne tirai fuori una: c’ero solo io, io e la mia sedia a rotelle.
-Questa ero io –
Jules fissò stravolto quell’immagine, quasi senza capire.
-Ma… come? –
-Tuo padre – risposi, orgogliosa fin nelle viscere. - È stato lui a guarirmi, così come ha guarito te – dissi, cauta, appoggiandogli una seconda foto sulle ginocchia, che stavolta mostrava un piccolissimo Jules con le gambine rigide e debolucce.
-Qui, invece, ci siamo tutti e tre – e gliene porsi un’altra, sottraendogli alla vista il prima possibile, le foto di prima.
Jules prese quest’ultima con attenzione tra le mani e fissò avido il viso dell’uomo che gli aveva salvato la vita. Due volte.
 
Dopo la battaglia di Hogwarts, era nato un nuovo, fin troppo vasto, cimitero. Un prato di lapidi si estendeva poco oltre i confini della scuola, di modo che anche i Babbani potessero venire a visitarlo.
Era estate, ma l’erba in Scozia non seccava mai, quindi era ancora verde e silenziosa sotto i passi di Eve.
Nessuno portava mai i fiori ad Ombra, e sulla sua lapide, allora, c’erano solo la carcassa di vecchi crisantemi. Era il due luglio, l’anniversario del loro primo incontro; erano passati quattordici anni da quel giorno.
La donna si fermò davanti alla tomba e sostituì i fiori ischeletriti con dei nuovi, forti, dal gambo verde. Poi si sedette tra l’erba che le solleticava le gambe scoperte, a guardare la foto, nel frattempo si rigirava qualcosa tra le mani: era un anello.
Lo prese tra due dita, stirando il sorriso solo da un lato della faccia.
-L’ho trovato ieri – disse – E comunque la risposta sarebbe sì –.
 
Sembrava strano e folle morire in quel momento. Eve, Severus lo sapeva, sarebbe stata furiosa con lui, non appena l’avesse  scoperto, ma ora lui non ci poteva fare più niente. Era per terra, su un duro pavimento, che lentamente stava irrorando con il proprio sangue, le mani alla gola che non erano servite a impedirne la fuoriuscita. Sentiva il resto del proprio corpo lontano, la soglia della coscienza gli stava lentamente sfuggendo di mano. E lui aveva ancora tante cose da fare, prima tra tutte avvisare Potter, ma sembrava che le sue forze non gli consentissero nemmeno di elencarle.
In quel momento, come un miracolo, Potter apparve dal nulla e si chinò su di lui. In un ultimo sprizzo di lucidità, Severus gli diede i suoi ricordi, ma ora faceva anche fatica a rialzare il petto per respirare, quindi non seppe come fece a parlare, un attimo più tardi.
–Guar… da… mi… - mormorò.
Il ragazzo, perplesso, ma fortunatamente senza esitare, lo fece. Ombra ebbe solo una frazione di secondo per guardare gli occhi di Eve, poi Severus si concesse il suo ultimo attimo per guardare quelli di Lily, e, così, scivolò tra le mani della morte.
Sì, Eve sarebbe stata davvero furiosa.
   
 
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