16
anni:
Il
soffio
del vento gli accarezzava piano le guance, senza riuscire a cancellare
le
lacrime salate.
Era
stanco.
Così
stanco che avrebbe potuto anche lasciarsi cadere da quel balcone del
sesto
piano e chiudere gli occhi per sempre, ma sarebbe stato
controproducente: era
quasi un anno ormai che era fuggito dalla Svezia, sua patria, e si era
rifugiato in Groenlandia, sparendo nel nulla. Lì, dove
nessuno lo conosceva,
aveva ricominciato inseguendo la bellezza, con successo. Dieta ferrea,
solo
cibi salutari, esercizi tutti i giorni per rimanere in forma, solo i
prodotti
migliori per pelle e capelli… stava funzionando. Era sempre
stato carino, ma
ormai stava diventando ogni giorno più bello.
E
pessimo.
“Non
sono
una troia…” sussurrò al cielo
sfregandosi con rabbia gli occhi, ma il respiro
profondo del ragazzo che dormiva nudo nel letto non gli dava ragione.
In
un modo o nell’altro devo tirare avanti.
Era
sempre quella la scusa che si dava quando si faceva portare a casa ogni
giorno
da qualcuno, senza nemmeno saperne il nome.
Da
loro posso dormire, mangiare, lavarmi…
rubare oggetti preziosi, i trucchi delle madri, mogli o sorelle, i loro
vestiti
o quelli dei figli.
Non
aveva
problemi con i ragazzi che se lo portavano a letto in assenza dei
genitori, ma
per i vecchi provava veramente disgusto. Uomini
sposati, con famiglia, che si eccitavano a toccare un ragazzino.
All’inizio li
evitava, li rifiutava, li sfotteva… poi aveva dovuto
abbassarsi ancor più.
In
un modo o nell’altro devo tirare avanti.
Era
fuggito in cerca di fama, gloria, successo, bellezza… questa
almeno l’aveva
ottenuta. Certo, con prodotti rubati o regalati, ma ce
l’aveva fatta.
Ormai
quasi si divertiva a ricattare i vecchi, minacciandoli di urlare al
mondo le
loro perversioni ed ottenendo in cambio prodotti di bellezza ed abiti
alla
moda.
Sì,
forse
era una puttana, ma con stile.
Doveva
solo riuscire a mettere a tacere il suo cuore in lacrime e rinchiudere
i
sentimenti in un angolino.
Lui
che
era fuggito rincorrendo il paradiso era caduto all’inferno.
Ma con i demoni non
si trovava bene.
Ci
sarebbe riuscito.
Ci
si
sarebbe abituato.
Non
sarebbe mai tornato a casa: lì non era nessuno.
Almeno
ora… cosa? Come si poteva sperare di ottenere qualcosa da
quella vita? Allora
perché non si decideva a tornare indietro?
Perché
era stupido ed orgoglioso: non avrebbe mai ammesso di aver fallito.
Doveva
solo imparare a mentire anche a se stesso e sarebbe stato meglio.
Forse,
con il tempo, avrebbe ottenuto qualcosa… forse se ne sarebbe
dovuto andare
di nuovo. Polonia,
Finlandia, Austria…
il mondo era grande.
Arrivare
in Groenlandia non era stato difficile: aveva radunato le sue cose,
rubato
tutto ciò che c’era di prezioso in casa e con
quello era fuggito mentre i suoi
erano al lavoro.
Semplicemente
era sparito nel nulla.
Era
incredibile quante cose avesse fatto grazie alle persone che gli era
stato
insegnato a chiamare criminali.
Ariel
Kalevi Aphrodite era morto e al suo posto era arrivato Daniel. Un nome
molto
meno importante e molto più banale.
Il
sole
stava sorgendo: doveva muoversi. Non aveva tempo da perdere piangendosi
addosso: aveva voluto fare una cazzata e ora ne doveva affrontare le
conseguenze. Punto.
Tornò
silenziosamente nella stanza lanciando un’occhiata al ragazzo
mulatto che
dormiva tranquillo. Nemmeno sapeva come si chiamava.
Radunò
i
propri vestiti, si lavò con la velocità che
quella nuova vita gli aveva
imposto, rubò qualche abito del ragazzo, i trucchi della
madre e l’argenteria.
Tornò nel bagno, nascondendo tutto nella propria valigia blu
con cui aveva
detto addio alla Svezia, sorrise al proprio riflesso nello specchio e
fuggì.
Di
nuovo.
Quel
ragazzo, come tutti gli altri, si sarebbe vergognato troppo per dire la
verità
ai genitori. Per non parlare dei vecchi pervertiti: con loro era
persino più
facile.
La
polizia della Groenlandia era inefficiente e lui, per loro, non
esisteva.
A
casa,
in Svezia, c’era solo Aphrodite. Lì, Daniel.
Si
allontanò veloce, nel buio, fino a quando la casa non fu che
un puntino
lontano.