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Autore: dilpa93    25/06/2013    9 recensioni
“Alcuni dicono che il tempo sana tutte le ferite. Io non sono d’accordo. Le ferite rimangono. Col tempo la mente, per proteggere se stessa, le cicatrizza, e il dolore diminuisce, ma non se ne vanno mai”
Rose Kennedy
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Rick Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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-Il terrore dell'inaspettato-




Cinque ore prima
 
“Ehi ragazzi, trovato qualcosa?” Lascia scivolare la leggera giacca di lino beje sullo schienale della sedia alla sua scrivania prima di sedervi ed accendere il computer.
Sulla spalla può sentire il calore irradiato dalla mano di Castle; un rapido movimento circolare che le dona sollievo, lasciando che un appena accennato brivido di piacere le solletichi il collo, e poi lo vede allontanarsi verso la sala break con passo deciso e le mani nelle tasche che probabilmente giocherellano con le chiavi, o forse con qualche monetina rimasta sul fondo.
“Abbiamo fatto un controllo incrociato tra le vittime. Abbiamo controllato conti bancari, locali frequentati, possibili incontri per lavoro, ma…”
“Ma non davano alcun risultato, Thomas Coltrane e Robert Cajal non sembravano avere alcuna correlazione.” Conclude il detective ispanico con una finta aria afflitta.
“Sembravano?”
“Esatto, fino a che non ci siamo messi a curiosare tra le loro mail. Abbiamo trovato messaggi inviati ad una certa Abby Shine.”
“Scoperto qualcosa su di lei?”
“Un indirizzo, è una casa in affitto. Non è intestata a lei, ma dai suoi spostamenti vi si reca quasi ogni giorno.”
“Lasciatemi indovinare, è un agente immobiliare, oppure...” I due tendono gli orecchi aspettando frementi la risposta. “Un’agenzia di escort.”
“Bingo!”
“Qualcuno ha detto escort?”
Non ha bisogno di voltarsi per capire a chi appartenga quella voce; l’aroma di caffè appena fatto le aleggia attorno, e può osservare la sua grande mano posare la tazza in ceramica blu proprio di fronte a lei.
“Grazie”, mormora.
“Allora, dove si va?”
“Tu da nessuna parte, ci pensiamo io e latte miele questa volta.”
“Andiamo, fatemi venire con voi!” Li implora sfoderando, dopo aver ricevuto una scrollata di spalle da parte di entrambi, il suo sguardo da cucciolo verso Kate.
Stacca le labbra dal bordo della tazza mandando giù un sorso; il labbro superiore brucia. Ha talmente bisogno di caffeina che non ha aspettato neanche che si raffreddasse un po’. L’ultima tazza l’ha bevuta quella mattina, adesso sono già le sei.
“Non andrai con loro Castle.”
L’uomo si sporge lungo la scrivania arrivando a pochi centimetri dal suo profilo, “paura di bruciare dalla gelosia Kate?”
“Non ci spererei Rick. Resteremo qui cercando un’altra possibile pista nel caso quella della escort si rivelasse un buco nell’acqua. Voi andate e tenetemi aggiornata, e non divertitevi troppo, soprattutto tu Espo.”
Guarda l’espressione compiaciuta di entrambi mentre le porte dell’ascensore si chiudono con un velato cigolio coprendo le loro sagome.
Ruota sulla sedia, riprendendo poi a bere il caffè ora tiepido; chiude gli occhi gustandosi il momento, rilascia un forte sospiro prima di riaprirli e lasciare che un sorriso si dipinga sulle sue labbra trovando Castle ad osservarla con sguardo sornione.
“Perché mi guardi così?” Sussurra timida sistemandosi bene a ridosso dello schienale.
“Perché sei splendida, qualsiasi cosa tu faccia. Che tu beva il caffè picchiettando con le dita sulla ceramica vicino al manico, che sovrappensiero porti i capelli dietro l’orecchio, che stressata resti sul divano a mangiare un biscotto dopo l’altro mentre guardiamo un film insieme, che nel sonno sbadigli, rigirandoti poi più volte fino a che non ti avvicini col tuo corpo al mio anche nelle sere più calde... sei splendida, sempre.”
Cerca di non sorridere, altrimenti l’impulso di baciarlo si farebbe troppo forte e reprimerlo diventerebbe impossibile. Si mordicchia la guancia interna storcendo un po’ il naso, abbassando poi lo sguardo imbarazzata.
“D’accordo Casanova, ora rimettiamoci al lavoro.”
“Sicura? Non ti andrebbe prima una... gita allo sgabuzzino delle scope?” Bisbiglia tanto vicino al suo orecchio da farla rabbrividire.
Lo allontana scuotendo il capo con falso disappunto “al lavoro playboy, avremo tempo questa sera per fare altro”, ammicca ponendo particolare enfasi sull’ultima parola.
“Dici sul serio, lo prometti? Perché ti ricordo che... È più di una settimana che non facciamo altro.” Dice mettendo il broncio rivolgendo uno sguardo poco amichevole al capitano, responsabile delle sue nottate lontano da Kate.
“Dico sul serio.”
 
 
Castle sbadiglia da oltre un’ora; gli occhi gli bruciano stando fissi sullo schermo del computer. Tasta le tasche della giacca in cerca degli occhiali.
Sono dei semplici riposa vista, l’oculista glieli aveva caldamente raccomandati se non voleva ritrovarsi con sempre più frequenti emicranie causate dalle ore passate davanti allo schermo, molte delle quali al buio. Sembrava che l’oscurità incrementasse la sua produttività e, soprattutto, che l’ispirazione lo colpisse durante la notte, agli orari più improbabili.
Aveva acconsentito di prenderne un paio dopo che sua figlia gli aveva fatto una ramanzina sostenendo quanto irresponsabile sarebbe stato, e sul cattivo esempio che le avrebbe dato se non avesse fatto nulla per occuparsi della sua salute.
Li usa raramente, quasi se ne vergogni. Kate lo aveva sorpreso a portarli una notte, si era alzata a causa del caldo soffocante, desiderosa di un bel bicchiere di acqua fresca. Era rimasta sorpresa nel trovarlo alzato, sul divano, talmente concentrato da non sentirla neanche arrivare alle sue spalle.
Si era chinata su di lui lasciandogli un bacio sulla guancia, e lì, riaprendo gli occhi, si era accorta degli occhiali.
“E questi da dove saltano fuori?”
Aveva spostato il pc dal grembo indicandole di sedersi sulle sue ginocchia, si era tolto gli occhiali cominciando poi a rigirarli tra le mani.
“Li ho presi qualche anno fa, ordine del medico” aveva sbuffato contrariato, “odio portarli” aveva proseguito imbronciato.
Kate li prese, infilandoglieli poi delicatamente “Beh, devo dire che non ti stanno niente affatto male, ti rendono ancora più... sexy.”
Un bacio sulla guancia, uno sulla punta del naso, e poi uno a fior di labbra prima di alzarsi per tornare in camera.
“Tu resti a scrivere, o vieni?”
Inutile dire che aveva lasciato il computer sul sofà prima di seguirla.
 
Nonostante i complimenti di Kate, sono sempre rare le occasioni in cui li porta, ma ora è davvero stanco, e il mal di testa comincia a farsi sentire picchiettando sempre più forte come un martello sul chiodo.
“Qualcosa non va?”
“Devo aver lasciato gli occhiali nell’altra giacca”, si massaggia il punto di convergenza degli occhi cercando di alleviare il dolore.
Gli carezza la gamba in un gesto consolatorio, riprendendo poi a guardare tra le varie carte alla ricerca di un minimo indizio.
“Perché non vai a casa a riposarti, tanto qui non si va da nessuna parte.”
“No, e lasciarti qui da sola?”
“Prima che arrivassi tu come un tornado a stravolgere la mia vita, restavo spesso da sola.”
“Hai detto bene, prima, e poi non mi muoverò di qui finché non avremo notizie da Cip & Ciop.”
Un cellulare comincia a squillare irrompendo prepotentemente  tra loro.
“È la casa editrice, scusami.”
Alzandosi la sedia produce un fastidioso stridio, il cuoio della suola delle sue scarpe scricchiola sul parquet del distretto. Con la coda dell’occhio lo osserva picchiettare a vuoto sul distributore automatico di bevande.
Non riesce a capire cosa stia dicendo, ma il linguaggio del corpo le dice tutto quello che vuole sapere; chiude scocciato la telefonata riponendo l’iphone nella tasca dei pantaloni del completo scuro, trattenendosi a fatica dal tirare un calcio alla macchinetta.
Prima che torni si rimette china sulle carte, allungando l’orecchio per sentirlo arrivare.
“Devo andare”, sospira appena.
“E dov’è finito il ‘non ti voglio lasciare sola’?” Commenta sarcastica.
“Lo so, lo so, mi farò perdonare, ma è Gina. Se non vado ti lascerò sola per l’eternità, e non unicamente per un paio d’ore.”
Le allunga la mano, lei la stringe forte e dopo un semplice ‘a più tardi’ si separano.
 
 
Quando rincasa è già buio; posa la giacca sull’appendiabiti dirigendosi subito verso il frigo.
Lo sguardo viaggia frenetico tra i vari ripiani, individuando finalmente il suo obiettivo. La luce fioca illumina debolmente le goccioline di condensa che, dal collo della bottiglia, scendono lente fino alla base.
Afferra la birra, rovistando poi con l’altra mano nel cassetto alla ricerca del cavatappi; la apre ascoltando il suo respiro interrotto dallo scoppiettio delle bollicine a contatto con l’aria, la schiuma raggiunge in poco tempo le sue labbra, e una sensazione immediata di refrigerio lo avvolge.
Guarda il cellulare lasciandolo cadere poi sul bancone della cucina sbuffando. Aspetta una chiamata dal distretto, non vuole telefonare e disturbare, ma non gli dispiacerebbe affatto sapere a che punto siano arrivati.
Si butta sul divano; prende ancora un sorso dell’alcolico poggiandolo poi sul tavolino. La giornata lo ha letteralmente distrutto, ed è certo che non riuscirebbe a sopportare altro.
 
 
Arrivato alla Black Pawn aveva sorriso cortese alla giovane segretaria, intrattenendosi con lei un paio di minuti ponendo le solite domande di circostanza, ma realmente interessato alle risposte che questa gli dava. Un ticchettio assordante si era avvicinato loro come un tuono presagio di tempesta.
“Rick, subito nel mio ufficio. Ti pago per lavorare, non perché tu ti intrattenga con i dipendenti.”
“A pagarmi sono i miei libri, e se non sbaglio buona parte del mio guadagno ti arriva con una certa regolarità con un bell’assegno che non ti trattieni certo dallo sperperare per scarpe, borse e quant’altro, e il solito massaggio settimanale con Greg... è ancora lui, vero?” Si era voltato finalmente a guardarla, incrociando il suo sguardo pungente misto al disappunto per quelle parole dette davanti ad altri che non avrebbero dovuto essere resi partecipi di certi dettagli. Le unghie picchiettavano la pelle delle braccia incrociate sotto al seno sorretto da un reggiseno a balconcino, il cui pizzo si intravedeva appena sotto la scollatura del vestito color crema di Gucci.
“Nel mio ufficio, ora” aveva sibilato a denti stretti.
Alzate le sopracciglia e roteato gli occhi, aveva sbattuto la mano sul ripiano in marmo facendo sorridere, a causa dell’espressione buffa, l’innocua impiegata.
 
“Chiudi la porta”, lo scrittore abbassò la maniglia accostando delicatamente la porta in legno con sottili inserti in vetro.
“Sorvolando su ciò che hai detto prima e sulla tua maleducazione... dov’è il mio capitolo conclusivo? Avresti dovuto consegnarmelo due settimane fa.”
“Ci sto lavorando, l’ispirazione non arriva a comando. Sono anni ormai che lavoriamo insieme, dovresti saperlo.”
“Davvero? Perché in questi anni, Rick,  mi è sembrato che tu facessi il poliziotto, e non lo scrittore.”
“Qual è il vero problema Gina, che non ti abbia ancora dato le bozze, oppure è Kate?”
“Parli sul serio, credi che mi interessi davvero la tua storiella? Non mi importa con chi esci, con chi vai a letto, fai quello che vuoi, ma ricordati che hai preso un impegno e mi sono stancata dei tuoi continui ritardi, ho sopportato abbastanza. Se non rispetterai le scadenze sarò costretta a prendere provvedimenti.”
“Tipo?”
“Dovrai interrompere questa farsa della collaborazione, oppure ti rescinderò dal contratto con la casa editrice, mi sono spiegata?”
“Perfettamente.” In quel momento fu costretto ad ammettere a se stesso che, per quanto il ruolo di moglie non le si addicesse, e tanto meno quello di fidanzata, in ambito lavorativo era una donna molto capace, doveva riconoscerglielo. “Chiarito questo io andrei, così avrai pronto il tuo capitolo entro la fine della settimana.”
“Non te la caverai così. Vuoi un’ulteriore proroga, va bene, ma adesso dovrai venire con me.”
“E dove, se posso saperlo?”
“Qualche settimana fa un mio contatto ha organizzato un ‘incontro serale con l’autore’, naturalmente aveva richiesto anche la tua partecipazione, ma, sapendo quanto fossi indietro con il romanzo, avevo rifiutato. L’ho richiamato giusto questa mattina, mi ha detto che oltre agli autori che avevano già dato il loro assenso, non avevano trovato nessun’altro per rimpiazzarti, perciò, diciamo come punizione, passerai le prossime 3 ore a firmare autografi sentendoti ripetere quelle frasi che oramai conosci a memoria. Spero tu abbia una giacca in auto, vorrei almeno che fossi presentabile.” Aveva terminato acida, abbandonando il tono da maestrina usato fino a quel momento.
 
 
Lascia cadere la testa all’indietro sullo schienale del divano chiudendo gli occhi; non si accorge nemmeno quando la mente smette di pensare, il cervello si spegne, e lui cade inesorabilmente preda del sonno di Morfeo.
Si sveglia di soprassalto quando la suoneria del cellulare, dapprima calma e a tono basso, aumenta sempre più di volume fino a raggiungere le sue orecchie. Si alza recuperando il telefono, dando un’occhiata all’ora prima di rispondere, le dieci e mezza.
“Pronto?” Risponde ancora assonnato sentendo la bocca impastata dal bisogno di recuperare il sonno arretrato.
“Hey Castle, dormivi?” Chiede dopo qualche istante di esitazione. Lo ha visto parecchio stanco in questi giorni, e ha tentato più volte di convincerlo a sospendere per qualche giorno le avventure al distretto, ma non c’era stato verso, così non può fare a meno di essere felice nel sapere che finalmente sia riuscito a riposarsi un po’.
“Cosa? Ah, si... sono tornato poco fa, ti avrei chiamato, ma non volevo disturbarvi. Caso chiuso?” Chiede tirandosi la pelle del viso sino alla tempia cercando di recuperare lucidità.
“No, siamo ancora in alto mare. Stacco tra cinque minuti, riuscirai a non addormentarti fino al mio arrivo?”
“Per te questo ed altro.”
“A tra poco allora.”
“A tra poco Kate.”
 
Chiude la chiamata trovandosi a sorridere; anche nelle giornate più nere lei è in grado di metterlo di buon umore, con una semplice parola, con un solo sguardo, con un ‘grazie’ ogni volta che le porta il caffè.
Dopo neanche un decina di minuti sente nuovamente la sua voce all’altro capo dell’apparecchio.
“Che succede, già ti manco? Non dirmi che sei bloccata al distretto.”
“In un certo senso... la macchina non parte, deve essere la batteria.”
“Ti vengo a prendere.” Scatta verso la porta, ed è certa di sentire il tintinnio delle chiavi della macchina mentre lui tenta di afferrarle dal piattino in vetro di Murano che aveva comprato durante una sua vacanza anni prima in Italia.
“No, non c’è n’è bisogno, torno a piedi.”
“Non se ne parla, e poi ha cominciato anche a piovere... non puoi farti dare un passaggio da Ryan o Esposito?”
“Sono già andati via, la Gates mi ha incastrato per un aggiornamento dell’ultimo minuto suoi nuovi risvolti.”
“Beh, allora chiedilo a lei un passaggio.” Il silenzio lascia presagire uno profondo e bruciante sguardo seccato da parte della detective, “non mi guardare male per telefono, non posso vederti e sprechi energie per nulla. Senti ti vengo a prendere, non mi costa nulla, e sono già fuori dalla porta.”
“Allora rientraci. Sono solo un ventina di minuti a piedi, arriverò ancora prima che te ne accorga.”
“Lo sai che non mi piace quella strada. È paradossale che vicino ad un distretto di polizia ci sia una zona alquanto malfamata.”
“Non mi succederà nulla, non è la prima volta che la faccio a piedi, e poi sono già per strada. Senti, io non ho ancora mangiato, ed immagino neanche tu, perché non prepari qualcosa, così quando torno ci godiamo una cena tutta per noi in relax e tranquillità.”
“Va bene”, risponde afflitto, “ma sappi che non sono per niente d’accordo.”
“Sopravvivrò”, ridacchia, “stappa il vino, dieci minuti e sono da te.”
Riattacca prima che lui possa ribattere in qualsiasi altro modo. Adora il lato protettivo che manifesta nei suoi confronti, quello che ha con le persone che ama e che gli stanno a cuore, ma a volte sembra non ricordarsi che per anni è stata in grado di difendersi da sola e che a volte sente ancora il bisogno di sentirsi autonoma. Non vuole precorrere i tempi, non vuole abbandonarsi totalmente a lui, diventerebbe troppo fragile, sarebbe profondamente vulnerabile e dipendente da Rick più di quanto già non lo sia.
 
 
L’olio scoppietta nella padella non appena vi versa dentro la cipolla tritata per il soffritto aiutandosi con il tagliere.
Dà una spolverata al bancone della cucina prima di affettare i pomodorini. La fiamma del gas vacilla sotto la pentola nella quale l’acqua comincia a bollire piano piano.
Un pizzico di sale, e poi butta la pasta impostando il timer.
 
Assaggia il sugo, poi prende il vino rosso dal porta bottiglie minimal in metallo accanto al frigorifero. Un Bordeaux dell’87.
Rimuove la capsula attorno al tappo, fischiettando mentre col cavatappi buca il sughero; guarda l’orologio, versa il vino nei bicchieri prendendoli poi con una mano sola avvicinandosi alla porta. L’altra mano è già sulla maniglia; secondo i suoi calcoli Kate dovrebbe arrivare a breve, e quale modo migliore di accoglierla se non con un bicchiere di vino rosso e un abbraccio ristoratore dopo una giornata pesante per entrambi.
 
I bicchieri cominciano a pesargli nella mano, le gambe iniziano a cedere in quella posizione. Il timer suona; la pasta è pronta e Kate non è ancora arrivata. Poggia i calici sul tavolo, uno cade macchiando la tovaglia bianca. Sospira stressato spegnendo il gas, quando sente un lieve formicolio al palmo della mano su cui ora troneggia una sottile striscia rossa dopo che si è poggiato accidentalmente alla pentola scottandosi.
 
Chiama Kate al cellulare. Non risponde.
Riprova una, due, dieci volte.
È tardi, sarebbe dovuta arrivare da un pezzo; non avrebbe dovuto darle ascolto, sarebbe dovuto andarla a prendere.
Prova con Ryan ma trova sempre occupato, con Esposito risulta staccato; tenta ancora con Kate, poi al 12th, continua per una ventina di minuti, niente da fare. Chiude l’ultima chiamata passandosi l’iphone da mano a mano.
È già in ascensore quando questo squilla.
“Kate!” Risponde istintivamente.
“No Castle, sono Ryan.” Preoccupato per le sorti della fidanzata non si accorge del tono funereo usato da uno dei suoi compagni di avventure.
“Ah Ryan... scusami, è che sto aspettando Kate, è in ritardo e non risponde. Tu per caso l’hai sentita?” Solo ponendo quella domanda sente il suo cuore alleggerirsi, certo che lui sia con lei. Forse c’è stato un nuovo omicidio; forse le si è scaricata la batteria del cellulare o lo ha in silenzioso. Forse si è trovata in una di quelle rare circostanze in cui avvisarlo si è rivelato totalmente impossibile.
“È proprio per questo che ti chiamo. Devi venire subito qui.”
“Qui dove? Che sta succedendo?”
“Ti do l’indirizzo, fai in fretta.”
 
Dopo cinque minuti è sul posto; la sua macchina arriva insieme all’ambulanza. I lampeggianti blu si riflettono sulla carrozzeria metallizzata della sua auto e sui muri della case producendo giochi simili alle ombre cinesi.
Spegne la macchina al volo, togliendo le chiavi quando il motore sta ancora borbottando; scende sbattendo la portiera con violenza, apprestandosi a correre vicino alle volanti della polizia e ad una figura in impermeabile scuro che ha riconosciuto da lontano.
“Kevin-” la voce si spezza notando i paramedici issare un corpo esamine sulla barella. Prova a dirigersi dentro quel vicolo angusto, ma l’irlandese gli stringe il braccio all’altezza della spalla. “L’hanno trovata dei passanti qualche minuto fa. Mi dispiace Castle.” Lo scrittore scuote la testa incredulo, gli occhi lucidi si posano indistintamente su ogni cosa che si muove. “È...?” Non riesce a pronunciarla quella parola, ne ha una profonda repulsione. Kate è stata vicina alla morte così tante volte, che il solo pensarci lo fa star male.
Subito dopo lo sparo, aveva rischiato più volte di essere colpito da seri attacchi di panico, e sentiva che questa volta non lo avrebbe superato.
“No, no” , si affretta a rispondergli, “ma non sappiamo ancora cosa possa esserle successo, cosa possano averle fatto. Dovrai essere forte, ancora di più di quando le hanno sparato.”
“Possano? Erano in più di uno? Mio dio...” La paura che deve aver sentito, la forza che deve aver usato fino all’ultimo mentre l’aggredivano privandola della sua dignità, gli sembra quasi di riuscire a sentire ciò che deve aver provato, ma nessuno può saperlo con certezza, solo lei, e chissà se risvegliandosi avrà il coraggio di ricordarlo.
“È solo un’ipotesi, ma conoscendo Kate, se si è lasciata sopraffare chi l’ha aggredita non era solo.”
“Detective la portiamo al Saint Andrew qualcuno vuole stare con lei?”
Paralizzato Rick non risponde, non riesce a capacitarsi di cosa possa essere accaduto. Non può fare a meno di pensare che se solo le si fosse opposto, se avesse insistito di più per andarla a prendere, probabilmente ora non sarebbero lì.
“Castle, sei con noi?”
“Come?”
“Vai tu con lei, io rintraccio Javier e ci mettiamo al lavoro.”
Annuisce debolmente salendo poi sull’ambulanza, “è cosciente?” chiede prendendole la mano.
“A tratti alterni... David parti!” Urla sbattendo la mano sul portellone.
 
Seduto accanto a lei la sfiora con lo sguardo; l’odore di sangue si insinua violento nella sue narici, è amaro. La squadra da capo a piedi, gli occhi sono gonfi, i tagli sulle braccia sembrano non essere particolarmente profondi. Lo squarcio sui pantaloni lascia poco spazio all’immaginazione, e non è difficile ipotizzare il peggio.
La vede schiudere la bocca. Le stringe forte la mano, attento a non sfiorare le abrasioni.
“Sono qui Kate, sono qui. Non ti lascio, non ti lascio più.” Le bacia il dorso e, continuando a tenere la mano tra le sue, chiude gli occhi cercando di svuotare la mente almeno per qualche istante.
 
 
L’odore di disinfettante è forte anche nella sala d’attesa; sente lo stridore del pianto dei neonati, un giovane tiene stretto a sé  un secchio continuando a rimettere, probabilmente dopo una festa in cui l’uso di alcol si è spinto oltre il limite. Un uomo minuto, sulla trentina, capelli biondo cenere, cammina agitato avanti e indietro nello stretto corridoio, nella speranza, come lui, di ottenere buone notizie. Una donna dai tratti orientali tiene premuto un fazzoletto insanguinato sul dito, mormorando parole in una lingua incomprensibile. Forse un’imprecazione soffocata, o forse una preghiera.
Non farebbe male neanche a lui pregare in questo momento, ma non ne ha le forze, non è concentrato per chiedere aiuto ad un qualunque potere superiore. Spera solo che chiunque ci sia lassù gli tenda anche solo una mano.
I piedi tamburellano nervosi sul pavimento, la suola delle scarpe schiocca a contatto con il linoleum, provocando quel fastidioso effetto ventosa. Alza il capo dando un’occhiata attorno a sé; la lancetta dei secondi dell’orologio analogico appeso alla colonna a qualche metro da lui sembra andare a rilento. Il tic-tac risuona come un fragoroso gong nella sua testa ed è in quell’istante che intercetta lo sguardo di un medico appena uscito dalla sala in cui, una volta arrivati, gli avevano impedito di entrare.
Lo vede consegnare una cartelletta all’infermiera dietro il bancone, si alza deciso ad avvicinarsi, ma il tutto avviene con calma quasi innaturale, gli sembra di muoversi a rallentatore.
“Mi scusi...” sospira.
“Si?”
Quando si volta nota il viso stanco, le rughe a zampa di gallina che gli solcano il contorno occhi in profondità.
“È lei che si è occupato della donna arrivata qui circa una quarantina di minuti fa? Si chiama Kate, ehm... volevo dire Beckett, Katherine Beckett.”
“Meg, potresti...” lascia la frase sospesa a metà, ma non è necessario che la completi; l’infermiera si china sull’archivio, scosta una ciocca i capelli sfuggita alla treccia fatta poco prima che il suo turno iniziasse, e recupera la cartellina datale dallo stesso dottore qualche secondo prima.
L’uomo dai capelli brizzolati dà una rapida scorsa ai fogli, “si, eccola, Katherine Beckett, giusto?”
“Si... Come sta?”
Poggia nuovamente la cartella sul banco ringraziando con un sorriso tirato la giovane Meg. “Lei è un parente?” Quella frase è ormai di routine per il medico, che nel frattempo pulisce accuratamente le lenti degli occhiali osservandole in controluce nel tentativo di individuare gli aloni.
“Sono il fidanzato.”
Inforca gli occhiali stanco, reprimendo uno sbadiglio; sarebbe dovuto andare via alle sei quella sera, e invece sono le undici passate e si trova ancora in ospedale dopo quasi una settimana di turno di notte.
“In questo caso non posso darle informazioni.”
“Mi dica almeno se sta bene, se avrà... se avrà danni permanenti. Qualsiasi cosa, la prego.”
“Mi spiace, ma come le ho detto non posso dirle nulla.”
Non sa in che momento, ma quando alza gli occhi puntandoli in quelli del medico, la sua mano è già stretta attorno al camice. Le nocche diventano bianche in fretta sotto lo sguardo allibito delle infermiere all’accettazione e del ragazzo delle pulizie che, tolte le cuffie del grande walkman giallo vecchio stile, agganciato ai passanti della cintura, e poggiato il mocio alla parete, si prepara ad intervenire.
“Signore la prego di calmarsi o sarò costretto a chiamare la sicurezza”, in quel momento può sentire come se un’ombra, impossessatasi di lui, lo lasciasse. Allenta la presa passandosi le mani sul viso arrossato, “mi scusi tanto, n-non so cosa mi sia preso.”
“Non si preoccupi, ora scusi, ma devo continuare il mio giro.”
Si accascia nuovamente su una delle sedie pieghevoli in legno plasticato, sentendo ancora su di sé gli sguardi attoniti di coloro che avevano assistito alla scena.
Le dita scorrono tra i capelli corti come tra le setole di un tappeto persiano mentre maledice se stesso per la sua stoltezza. Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, sono il cugino, il fratello, il padre adottivo. No, lui aveva dovuto precisare di essere il fidanzato, nessun legame di sangue, nessun legame ufficiale davanti alla legge, ma solo nei loro cuori.
È proprio in quel preciso istante che gli viene alla mente una cosa importante. Prende il telefonino nella tasca della giacca; le mani tremano per l’agitazione, così tanto da far cadere il cellulare sul pavimento. Lo recupera velocemente, cercando nella rubrica quel numero che forse, dopo stasera, gli rimarrà impresso nella mente.
 
Attende paziente, alzando il capo ogni volta che sente le porte scorrevoli di ingresso del pronto soccorso aprirsi, lasciando entrare il caos della notte.
Quando intercetta i suoi occhi guardarsi attorno spaesati e smarriti, gli va incontro cercando di trattenere lo sconforto pronto ad uscire prepotente e copioso dai suoi occhi chiari.
“Jim...”
L’uomo gli stringe la mano notando leggere tracce di sangue; cerca una possibile fonte per quelle macchie, ma non c’è traccia di tagli sul suo corpo, sul suo viso. Anche se indirettamente, ha appena toccato il sangue della sua bambina.
“Come sta?” Chiede sciogliendo quel contatto; Rick gli poggia la mano sulla spalla invitandolo poi con un gesto del capo a seguirlo.
Si siedono uno accanto all’altro. le loro ombre allungate vengono proiettate dal neon sopra le loro teste sul pavimento grigio.
“Non hanno voluto dirmi niente, aspettavano un familiare. Il medico dovrebbe essere qui a momenti.”
“Cosa le è accaduto?”
Inspira con forza prima di dare inizio al racconto, “è stata aggredita non molto lontano dal distretto. Pioveva, era tardi, probabilmente ha abbassato la guardia, non si è accorta di essere seguita. L’hanno trovata i-in un vicolo.” Dice titubante, convinto che per Jim sarà inevitabile ripensare a Johanna; ed infatti, nella sua mente, l’uomo rivive l’assassinio della moglie, fino a che, al posto del corpo della sua amata, non sostituisce quello della figlia. Scuote il capo, tanto rapido che sembra non aver compiuto alcun movimento, e torna a concentrarsi su quella calda e profonda voce. “Non sappiamo ancora la dinamica dell’accaduto. Ha provato a difendersi, sono certo che abbia provato, ma era, o erano troppo forti. I segni, i tagli e gli strappi sui vestiti fanno pensare ad uno stupro.”
Stupro, era la sola parola che aveva colto all’interno dell’ambulanza e ora, dopo averla pronunciata, la sua forza svanisce, lasciando solo un semplice ragazzo distrutto dal dolore e dai sensi di colpa. “Stava tornando a casa da me, le si era... le si era rotta la macchina. Non ha voluto che andassi a penderla, lei, lei... è colpa mia, non sono riuscito a convincerla, non sono... non sono riuscito a-a... Jim mi dispiace così tanto.”
Non trattiene più quelle lacrime che gli avevano irritato gli occhi da quando era arrivato sul posto, da quando la vista di Kate picchiata, sottomessa ha creato in lui l’illusione che tutto ciò che di bello c’è al mondo sia svanito, che le luci dell’universo che lei, e solo lei, gli ha permesso di scoprire si siano spente.
Sente il calore delle braccia dell’uomo che lo circondano. Un abbraccio dato con amore, nonostante chi fosse bisognoso di conforto fosse proprio lui. Un gesto paterno che inibisce le difese dello scrittore -ora rimasto totalmente senza parole, senza alcuna frase ad effetto da poter dire per smorzare l’atmosfera pesante-, che gli fa ripensare a suo padre con profondo rammarico, sentendone l’imponente mancanza soprattutto dopo che, conosciuto, il destino lo aveva allontanato subito da lui senza dargli la minima opportunità di conoscerlo davvero, di raccontargli la sua vita, con le sue delusioni, le sue vittorie e i suoi regali, tra i quali c’era Kate, uno dei più belli che potesse ricevere.
“Richard, non è colpa di nessuno. Non potevate prevederlo.”
“Si invece, io avrei dovuto! Avrei dovuto!” Ripete convulsamente tra singhiozzi smorzati.
“Ragazzo, se c’è una cosa che ho imparato nella vita, è che sono poche le cose che vanno come previsto. Spesso gli avvenimenti inaspettati sono portatori di gioie immense, ma... purtroppo questo non ne è un esempio. Un paio di anni fa ti affidai Kate, ti affidai le mie speranze di vederla tornare a casa la sera, di saperla al sicuro, e ancora oggi sono certo che sia tu la persona più adatta per lei, per proteggerla e prendertene cura. Quello che è successo questa notte non cambia il mio giudizio su di te, e neanche tu dovresti essere così severo con te stesso.”
“Come fa?”
L’uomo inclina lievemente il capo verso destra, scrollando di poco le spalle; aggrotta le sopracciglia facendo assumere al viso un’aria interrogativa.
“Come fa ad essere così calmo? Io... se fosse Alexis io...”
“Reagiresti proprio come me, o forse in maniera completamente diversa. La mente dell’uomo è misteriosa, i nostri pensieri cambiano all’improvviso, e a volte senza un reale motivo. Sai, dentro di me sto esplodendo, la voglia di prendere i responsabili, di fargli patire le peggior pene mi sta divorando e la voglia di scolarmi uno scotch è così forte che fatico a resistere, ma lo faccio per lei... quando si sveglierà, quando ricollegherà tutti i pezzi e realizzerà ciò che le è accaduto, sarà difficile. Passerà brutti momenti, il peggiore di tutti sarà la negazione, e a questo non voglio aggiungerle la mia ansia, o la preoccupazione che avrebbe e i sensi di colpa che sentirebbe se io dovessi riprendere a bere per questo. E neanche tu vorresti che si preoccupasse vedendo la tua espressione colpevole e compassionevole, o sapendoti in pericolo e dietro le sbarre per aver compiuto un’azione stupida, dico bene?”
Annuisce schiudendo le labbra in un debolissimo ‘si’.
“Bene. Allora asciugati le lacrime. Tra poco arriverà il dottore, e con un po’ di fortuna e le giuste argomentazioni riusciremo a convincerlo a farci entrare entrambi nella sua stanza.”
 
Entrano lentamente nella camera; il medico fu facile da convincere, del resto il Signor Beckett è un fantastico avvocato, arringhe e opere di convincimento della giuria sono il suo pane quotidiano.
“Dovrebbe svegliarsi a momenti. Io vi lascio, se ci sono problemi premete quel tasto rosso e arriverà subito un’infermiera.”
“La ringrazio.”
Si accomodano sulle sedie accanto al letto, uno a lato di una sponda, e uno a lato dell’altra. Sembra ancora più piccola e fragile in quel grande letto; le lenzuola candide fanno risaltare gli ematomi sul viso, i segni di dita lungo il collo liscio.
Poggia il gomito sul bordo del materasso incastrando poi il capo nella sua mano, massaggiandosi la fronte.
“Ce la fai, sii forte” ripeteva nella sua testa, un incoraggiamento volto a se stesso ed anche a lei.
Le scosta un ciuffo di capelli dal viso sfiorandole la pelle calda. Le palpebre accennano deboli movimenti finché non apre gli occhi.
“Ehi”
“E-ehi...” si guarda intorno cercando di capire dove si trovi “p-papà.”
“Ciao bambina. Come ti senti?”
“I-io... cosa è successo?”
“Non ricordi?”
Si volta verso Rick, scruta i suoi occhi azzurri; vi sprofonda dentro, rivivendo quello che è accaduto solo poche ore prima.
 
La macchina l’aveva lasciata a piedi, l’ombrello l’aveva dimenticato al distretto, ed era troppo stanca per tornare indietro a prenderlo.
Già immaginava il suo arrivo al loft.
Il corpo caldo di Castle che si sarebbe stretto al suo emanando calore, un bicchiere di vino che le avrebbe fatto sciogliere i nervi. Si sarebbe spogliata togliendosi i vestiti zuppi, avrebbe infilato una maglietta di Rick e sarebbe tornata in salone per godersi la cena mentre si passava un asciugamano tra i capelli fradici.
D’improvviso si ritrova in quel vicolo, un uomo la tiene ferma mentre l’altro la tocca viscido. Sono in due e... no, no, forse in tre.
Sente il dolore delle loro mani strette a pugno che si posano sul suo viso, la lama di un coltello che le graffia la pelle passando poi a stuzzicarle il tessuto dei pantaloni. Il loro insinuarsi in lei, le sue urla soffocate da una mano sulla bocca e una stretta attorno al collo.
 
Il battito cardiaco accelera, lei non sembra accorgersi dell’incessante bip del monitor, persa ancora in cui grigi ricordi.
“Kate, calmati. Kate tesoro va tutto bene, sei qui.”
Il suo sguardo è vuoto e freddo, la carnagione ancor più pallida.
“Voglio andare a casa”, dice solamente.
“Vado a sentire il medico cosa dice, resta tu con lei.” Jim sfiora con le labbra la fronte della figlia uscendo poi dalla stanza.
 
La mattina presto, verso le sette, e dopo un breve colloquio tra il medico e Kate, Castle la spinge su una sedia a rotelle fino alla sua auto nel parcheggio, che cortesemente Jim era andato a recuperare dopo che lo scrittore l’aveva abbandonata per strada per salire sull’ambulanza.
“Posso camminare” borbotta la detective contrariata dall’essere trattata come un’inferma.
“Avrai tempo per camminare, ora fatti viziare un po’. Tuo padre ci aspetta al loft, sta portando lì alcune delle tue cose. Ho pensato che potresti stare da me per qualche tempo. Non voglio che ti spaventi”, le suggerisce aiutandola a salire in macchina, “non ti sto chiedendo di trasferirti, non ti sto proponendo la convivenza. Non ti voglio obbligare a venire a vivere da me, quando saremo pronti te lo chiederò, e allora potrai scegliere. Ma credo che adesso ti farebbe bene non restare da sola. Se preferisci posso chiamare tuo padre e dirgli che andrai da lui, ma non voglio che tu stia
sola.”
“Va bene.” Mormora solo, non incrociando neanche il suo sguardo.
 
La sente già distante, se ne rende conto immediatamente, la sta già perdendo, e non sa se sarà in grado di impedirle di allontanarsi sempre di più da lui.
  
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