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Autore: Shallation    25/06/2013    1 recensioni
Dall’Inno a Iside:
“Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Seconda storia, altra figura di donna.

Grazie a colore che hanno letto la prima, se avete sentimenti da condividere, domande, riflessioni vi prego di scrivermele, è sempre un piacere parlare con i lettori.

Buona lettura!

Glo

 





Neuchatel, 1289 d.C
 
Ginevra camminava attraverso la piazza del mercato portando un cestino di vimini ricolmo di frutta appena acquistata: mele dalla buccia croccante, pere delicatamente chiazzate e mandarini profumati.
Ginevra adorava gironzolare la mattina presto tra le bancarelle colorate, immergendosi nei suoni delle voci degli ambulanti che esponevano le loro merci, nei profumi delle erbe e delle pietanze, che per un attimo attenuavano l’odore dei corpi accalcati.
 
Mentre camminava lentamente tra la folla, fermandosi di tanto in tanto per osservare qualche articolo, il suo sguardo fu attratto da una forza irresistibile verso una figura che avanzava flessuosa in direzione opposta.
 
Un’apparizione inconfondibile di chiome ramate, uno svolazzare di vesti celesti e nell’aria un nuovo, tenue sentore di mela cotogna: Bianca.
 
Incapace di distogliere lo sguardo dalla giovane che camminava a braccetto della madre, Ginevra sentì un groppo alla gola spezzarle il fiato mentre lo sguardo di Bianca incatenava il suo attraverso le teste dei passanti.
 
Gli occhi della giovane si strinsero in un sorriso mentre continuava a guardare Ginevra immobile in mezzo alla strada, con il cestino ancora appeso al braccio.
 
Quelle labbra rosate sillabarono un “Buongiorno” silenzioso alla volta della compagna, ricevendo in cambio un sorriso estasiato e complice.
Badando che la madre non la notasse, Bianca, aveva alzato velocemente la mano destra con tutte le dita aperte, mostrandola a Ginevra, per poi chiudere il pollice e l’indice a formare un piccolo anello.
 
La ragazza annuì in risposta, conosceva il significato di quel gesto: “Alle cinque al pozzo”
 
Prima che Ginevra potesse aggiungere altro, si sentì tirare per la manica del vestito, e voltandosi vide un’anziana donna che reclamava la sua attenzione.
 
“Tu sei  la giovane levatrice vero?” la voce della donna era lieve e soffocata, probabilmente a causa della pronunciata cifosi che la affliggeva
 
“Si sono io, Ginevra” la giovane non era nuova a scene di quel genere, quindi non si stupì della domanda e rispose in modo gentile.
 
“Potresti venire con me?  Mia nipote è incinta e ha cominciato ad avere dolori e perdite rosso vivo, so che tu la puoi aiutare”
 
Ginevra, intuita la gravità della situazione, non perse un secondo di più e seguì la donna che si era incamminata verso casa sua.
Prima di uscire dal mercato, però, si girò fugacemente verso il punto in cui fino a poco prima si trovava Bianca, ma della giovane non vi era più traccia.
Ginevra non si scompose, sapeva quando e dove l’avrebbe rivista: “Al le 5, al pozzo”.
 
 
 
 
Seduta sul letto dove giaceva la giovane Viola in preda ai dolori, Ginevra cercava di stimare la quantità della perdita ematica e di valutarne la qualità, anche se il suo istinto non le faceva avere dubbi.
 
Data l’epoca gestazionale così precoce, la levatrice era quasi certa che si trattasse di un principio di aborto spontaneo: la giovane stava per perdere il suo bambino, le macchie vermiglie sulle lenzuola candide non lasciavano adito a dubbi.
 
In casi come questi anche una donna esperta di medicina naturale ed erbe come lei non poteva fare molto, se non cercare di alleviare il dolore della donna e consigliarle di stare in assoluto riposo a letto, nella speranza che la natura decidesse da sola di invertire il suo corso, cosa che, a dire il vero, succedeva di rado.
 
Ginevra, in ogni caso, non avrebbe lasciato nulla di intentato, la sua vocazione era quella di aiutare le donne come lei, qualunque problema le affliggesse, era così da sempre.
 
Posando un’ ultima gentile carezza sui capelli di Viola, si alzò dal letto e ritornò nella cucina fumosa dove attendeva la nonna, intenta a preparare il pranzo per se e per la nipote.
 
“Impeditele di fare movimenti di qualsiasi genere, deve mangiare a letto e espletare i suoi bisogni nel pitale” disse guardando l’anziana dritta in viso
“Io esco un momento a raccogliere delle erbe per un cataplasma che dovrebbe aiutare a calmare i dolori, Voi in tanto vegliatela e se ci fossero ulteriori problemi non esitate a cercarmi” detto questo imboccò l’uscio.
 
La levatrice si diresse a passo spedito verso il bosco di frassini che si stendeva alle spalle del villaggio, dove sapeva che cresceva l’erba che stava cercando: il giusquiamo, una piante dalle innumerevole qualità lenitive e calmanti, ma che, se usata in dosi eccessive si poteva rivelare un veleno letale.
Giunta ai piedi di una betulla dal tipico fusto sbiancato, si inginocchiò nell’erba umida di rugiada, incurante di macchiarsi il vestito.
 
Mentre si trovava in quella posizione, con il busto flesso in avanti e le braccia che tastavano il terreno scostando l’erba, un’ombra oscurò il suo campo visivo, e una voce malevola la raggelò:
 
“Cosa ci fa la giovane Ginevra tutta sola nel bosco?”  quella voce così sgradevole apparteneva al curato del paese, un emissario della curia di Roma e membro del Tribunale della Santa inquisizione, un uomo perverso e abbietto.
 
La giovane si alzò di scatto e si girò a fronteggiarlo, consapevole dello svantaggio che le dava quella posizione accovacciata. Pulendosi le mani nel grembiule, sorresse lo sguardo del prete e parlò con studiata lentezza, cercando di controllare il tremito della voce:
 
“Buon giorno Eminenza, stavo semplicemente raccogliendo alcune erbe per la cena, cicoria e borraggine, sono ottime lessate o aggiunte alla minestra” la sua voce non lasciava trasparire alcun turbamento.
 
“Cicoria e borraggine hai detto?” la voce dell’uomo era velata di malcelato sarcasmo  “Si, le conosco, anche la mia serva si diletta di botanica, un’arte molto affascinate a mio avviso, anche se talvolta può rivelarsi pericolosa” mentre parlava si era chinato a strappare una piantina da terra.
 
“Stai attenta a quel che raccogli, Ginevra” l’ecclesiastico parlava rigirando tra le mani la piantina di giusquiamo.
 “Vedi, per esempio, questo fiorellino all’apparenza innocuo è in realtà un potentissimo veleno. Piante come queste sono usate da donne meno innocenti di te per compiere ogni sorta di crimine.” nel pronunciare queste parole i suoi occhi dalle sclere itteriche brillarono in modo inquietante, la voce carica di sottointesi.
 
“Grazie Reverendo, me ne ricorderò e presterò più attenzione” ora  il respiro delle giovane era leggermente accelerato, così come i battiti del suo cuore, ma la levatrice fece di tutto per mantenere la mente lucida e calma.
 
“Brava ragazza, in ogni caso stai attenta ad addentrarti troppo nel bosco da sola, potresti fare incontri pericolosi” gettando la piantina a terra le voltò le spalle e roteando il bastone da passeggio la salutò con la mano.
 
Non appena la figura scura del prelato fu sparita dalla vista, Ginevra emise un lungo respiro tra le labbra socchiuse e si lascò scivolare lungo il tronco della betulla, sedendosi a gambe aperte nell’erba, il corpo scosso da brividi.
 
Tutti in paese sapevano che il curato era misogino e cattivo, che provava un perverso piacere nel tormentare le giovani donne, minacciandole di denunciarle all’Inquisizione.
Essere trovata in possesso di certe erbe medicamentose era una prova più che sufficiente per essere accusata di voler compiere azioni dannose verso il prossimo.
 
Ginevra pronunciò mentalmente e con orrore quella parola che aleggiava al di sotto di ogni frase insinuante del prete: Strega.
 
 
 
 
 
Ginevra passava pigramente le dita sulla pelle d’alabastro della schiena di Bianca, disegnando infiniti sentieri, dalla nuca all’osso sacro, per poi ritornare mollemente sui propri passi.
 
Le giovani giacevano su un giaciglio improvvisato, ricavato dai loro abiti distesi nell’erba non lontano dal pozzo che ornava la piccola radura nel folto del bosco: quello era il luogo dove si davano appuntamento e dove ogni volta i loro corpi si amavano, vegliati dalle creature silvane.
 
Bianca giaceva prona, la schiena nuda esposta all’aria frizzante e alle carezze di Ginevra distesa al duo fianco, la testa appoggiata sulla mano e una gamba a coprire le gambe della compagna, in un contatto più intimo tra i loro corpi.
 
Chinandosi a baciare dolcemente i piccoli nei che si rincorrevano su quella pelle perfetta, Ginevra si lasciò sfuggire una leggere risata, che riverberò in tutto il corpo di Bianca strettamente allacciato al suo.
 
“Perché ridi?” chiese la giovane girando appena il viso verso l’amata, un ciuffo di capelli ramati le velava gli occhi, mentre appoggiava la guancia sugli avambracci piegati.
 
“Stavo solo pensando ad una cosa” il sorriso di Ginevra si allargo impercettibilmente mentre posava un morso leggero sulla curva della sua spalla.
 
“Forza sentiamo cosa passa per quella tua testolina incasinata” Bianca, ora, si era girata in una posizione speculare a quella della compagna, intrecciando le gambe alle sue e allungando una mano per arrotolarsi una ciocca scura tra le dita.
 
“Stavo pensando… sai cosa amo davvero di te?” la giovane parlava piano, la voce un sussurro che lambiva il viso dell’altra.
 
“La tua irrequietezza” nel dirlo si lasciò nuovamente sfuggire una risata “Mi piace il fatto che quando ci vediamo tu non abbia la pazienza di aspettare un secondo prima di baciarmi, che cerchi sempre un contatto più profondo tra le nostre pelli” parlando si era fatta più vicina, i loro seni si sfioravano.
 
“In questo sei totalmente diversa da me” posandole una mano sulla guancia la accarezzò piano e avvicinò il loro visi per rubarle un bacio.
 
Quasi a voler confermare quanto appena detto dalla compagna, Bianca rispose con passione al bacio, serrò le dita tra le ciocche corvine di Ginevra e facendo leva sui fianchi la costrinse a girarsi sulla schiena e le salì a cavalcioni.
 
Posando le mani sulle spalle di Bianca, Ginevra la costrinse ad interrompere il bacio e non appena fu riuscita a riprendere fiato continuò a parlare:
 
“Non potresti mai far la levatrice. Nel mio lavoro la pazienza è la vera compagna e giuda.” la donna parlando le aveva posato le mani sui fianchi morbidi, e ora disegnava con i pollici sensuali cerchi sulle sue anche.
 
“Non siamo noi a dettare i tempi, non la levatrice, non la partoriente, ma la natura stessa. La natura non ha fretta, è capace di impiegare millenni per levigare una piccolissima pietra, ma poi quando ha finito il risultato è sconvolgente e perfetto.”  i capelli di Bianca le solleticavano il ventre mentre si chinava su di lei.
 
“La stessa cosa vale per la procreazione e la nascita”
 
“Hai ragione, non potrei mai farlo, non sarei capace di aspettare, andrei in agitazione facendo solo danni” la risata di Bianca fece vibrare il corpo di Ginevra sotto di lei.
 
A questo punto la giovane posò entrambe le palme aperte sui seni dell’amante, torturando i capezzoli scuri tra le dita. Ginevra emise piccoli gemiti sommessi, si rizzò a sedere e afferrando Bianca per i capelli si impossessò della sua bocca rosea, in un gioco di lingue umide e labbra morbide.
 
Le mani di Ginevra si spostarono lungo le cosce di Bianca stuzzicandone la pelle sensibile e recettiva dell’interno mentre si avvicinavano al centro pulsante della sua femminilità.
Soffocando il gemito della giovane nella propria bocca, mentre la penetrava con le dita, Ginevra strinse ancora di più il corpo dell’amata sfregando tra loro i seni, senza interrompere la danza delle loro lingue intrecciate.
 
Ogni pensiero venne cancellato dalla mente della levatrice dai gemiti erotici di Bianca, dal suo corpo che profumava di mela cotogna e dalla sua intimità umida e calda che si contraeva intorno alle sue dita.
 
Tutto il mondo di Ginevra si tinse improvvisamente di rosso: il rosso dei capelli di Bianca.
 
 
 
 
 
 
“Bene così Miriam, verso il basso, cerca di spingere il più possibile verso il basso, non trattenere il fiato in gola, piuttosto urla” la voce di Ginevra era calma e modulata, era suo compito tranquillizzarla facendole capire di essere in buone mani.
 
Dal canto suo la donna cercava di impegnarsi nelle spinte, così che il dolore cessasse il più velocemente possibile.
Non era la prima volta che Ginevra assisteva Miriam durante il parto, era stata lei ad aiutarla a far nascere i sui tre figli, e ormai tra le due donne si era instaurato un legame di rispetto e fiducia, un legame d’amicizia.
 
“Ginevraaa!” il suo nome uscì dalle labbra della partoriente in un ringhio “Credo che stia per nascere”
 
“Allora forza Miriam, prendi fiato e alla prossima contrazioni butta fuori tutto lì dove senti il dolore” ora le stringeva forte la mano per darle forza.
 
La spinta successiva della donna fu sufficiente perché la testa sgusciasse fuori dal canale del parto, e dopo di essa anche il resto del corpicino.
Ginevra era pronte ad accogliere il piccolo con dei teli puliti, affinché l’impatto con il mondo fosse il meno traumatico possibile.
 
Richiamata dal pianto istintivo del neonato, la madre di Miriam giunse dalla stanza accanto portando una bacinella con dell’acqua tiepida per lavare il piccolo, che ora riposava in braccio alla madre.
Il lavoro di Ginevra però era lungi dall’esser finito, infatti la donna doveva sincerarsi che Miriam espellesse la placenta, azione che tra le levatrici veniva definita “secondo parto”.
 
Mentre aspettava che la natura facesse il suo corso, Ginevra si rese conto che qualcosa non andava, la donna cominciava a perdere molto sangue e la placenta ancora non si vedeva.
 
Immediatamente afferò la borsa che conteneva tutto il necessario per svolgere il suo lavoro,  alla ricerca del medicamento che le serviva, ma con suo sommo orrore si ricordò di averlo lasciato in casa poggiato sul tavolo della cucina.
 
Sapendo che non avrebbe fatto in tempo a correre a casa per recuperarlo, schizzò fuori nel prato per cercare ciò che le serviva: la segale cornuta, una pianta dalle portentose proprietà.
Troppo intenta a cercare e preoccupata per le sorti della donna, la giovane non si accorse dell’uomo vestito di nero che, appoggiato al bastone da passeggio osservava con occhi maligni ogni sua mossa, e che sparì non appena lei, trovato ciò che cercava rientrò in casa.
 
“Celeste, presto un mortaio” disse la levatrice all’indirizzo della donna che stava in piedi di fianco al letto.
 
Non appena questa le porse quanto richiesto, Ginevra si mise all’opera per creare con la pianta una poltiglia, che mischiata con acqua avrebbe fatto bere alla puerpera.
 
“Miriam, sto preparando un pestato di segale cornuta, questa pianta ti impedirà di perdere altro sangue, contraendo l’utero e facendo uscire la placenta” detto questo verso l’intruglio in un bicchiere e lo porse alla donna, che senza una parola lo bevve tutto d’un sorso.
 
“E’ orribile” il volto di Miriam si contorse in una smorfia disgustata.
 
“Si hai ragione, ma farà effetto, fidati di me”
 
 
 
 
 
 
Il sonno di Ginevra fu interrotto da un scarica di colpi che si abbattè con violenza sulla porta di casa sua. Sbadigliando la donna si alzò dal letto e andò a sincerarsi del perché qualcuno stesse cercando di abbattere l’uscio.
 
Appena aprì la porta il terrore le sbiancò il volto, mentre il cuore sprofondava nel petto, sopraffatto dai presagi funesti elaborati dalla sua mente.
 
Davanti a lei stavano fermi immobili tre uomini reggendo ognuno una torcia accesa.
Il primo in testa era il curato del paese, che la fissava con un ghigno di vittoria, alla sua sinistra stava ritto il marito di Miriam che reggeva un fagotto con il braccio, mentre alla sua destra c’era un uomo che Ginevra non riconobbe.
Fu lo sconosciuto il primo a parlare: “Lei è Ginevra figlia di Gregorio?” la voce dell’uomo era gelida come un lago in una notte d’inverno.
“Si sono io Signore, perché bussate in piena notte alla mia porta?” l’indole fiammeggiante della donna non potè trattenersi dal parlare.
L’uomo finse di non averla udita e proseguì nel suo discorso: “E’ stata lei ad assistere la moglie di quest’uomo nel far nascere la creatura che stringe tra le braccia?”
La donna annuì in silenzio mentre il marito di Miriam le mostrava brevemente  il neonato.
“Lei è accusata di stregoneria” le parole dell’uomo erano taglienti come lame “il qui presente curato l’ha vista mentre raccoglieva delle erbe magiche con cui poi ha avvelenato la madre e il bambino”
“Non è vero i..” Ginevra cercò disperatamente di difendersi da quelle accuse assurde e infondate.
“Non cerchi di raggirarci con le sue infide arti femminili, la prova del suo peccato è sotto gli occhi di tutti” affermò con sicurezza e nel farlo strappò il piccolo dalle braccia del padre, lo scoprì e mise in mostra un’ampia macchia scura che sia allargava sul piccolo fianco.
“Dio ci ha avvertiti del suo malvagio tentativo con questo inequivocabile segno, Lui la cui misericordia è infinita” e con uno scatto fulmineo della mano scandì freddamente:  “Prendetela!”
 
Le mani del curato e dell’altro uomo la afferrarono rudemente la sollevarono da terra, senza che un singolo suono lasciasse le sue labbra.
 
 
 
 
Bianca guardava fisso di fronte a se, gli occhi arrossati non avevano più lacrime da versare, ormai prosciugati da quegli infiniti giorni di inferno.
Ginevra era stata accusata di stregoneria e incarcerata nella canonica, dove l’Inquisitore giunto dalla Santa Sede l’aveva interrogata e torturata per ore ed ore, senza che dalla sua bocca uscisse una singola parola.
Alla fine le testimonianze del prete e del marito di Miriam erano state decisive e Ginevra era stata condannata al rogo.
 
Per la prima volta l’auto da fé di sarebbe tenuta in un paesino così piccolo e molti non stavano nella pelle dall’eccitazione a giudicare dalla folla che si era riunita sul sagrato della Chiesa.
Bianca aveva cercato in tutti i modi di scagionare la compagna, aveva chiesto a tutte le donne che aveva aiutato di testimoniare in sua difesa, ma il problema era proprio questo, erano tutte donne. In un mondo di uomini come quello in cui vivevano, le voci delle donne erano come miagolii inghiottiti dal rombo di una cascata: inutili, privi di senso.
Ora non poteva fare altro che stare a guardare impotente mentre l’amore della sua vita veniva arsa viva per l’unica colpa di aver dedicato la sua vita ad aiutare le donne.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dall’apparizione di Ginevra sul sagrato, trascinata per i polsi legati da un uomo, come una bestia.
Bianca represse un singhiozzo quando vide come quei porci avevano ridotto la donna che amava. La veste di tela che portava era stracciata in più punti, da cui si intravedeva il corpo martoriato, ecchimosi e tagli deturpavano quella pelle olivastra che tante volte si era fusa con la sua.
Quel volto che aveva baciato fino allo sfinimento era ridotto a una maschera di sangue, che colava dalle labbra spaccate, e dai tagli sugli zigomi e sulla fronte.
I suoi capelli, quegli splendidi capelli corvini che avevano spesso  riposato sparsi sul suo ventre, ora non esistevano più, spazzati via dalla furia distruttrice di quegli uomini decisi a deturpare la bellezza di quel corpo.
 
Guardando quel cranio pelato Bianca provò un moto infinito d’amore, e strinse forte il piccolo sacchetto che portava al collo, vi aveva racchiuso alcune ciocche dei capelli di Ginevra, recuperati da dove i suoi aguzzini li avevano gettati, sarebbero stati l’ultimo ricordo tangibile di lei, questo la donna lo sapeva.
Bianca si costrinse a non distogliere lo sguardo mentre Ginevra veniva issata sopra le cataste di legna, e legata con le braccia dietro la schiena al palo ritto nel mezzo.
Tenne lo sguardo fisso sul suo volto nella speranza che la donna trovasse la forza di alzare gli occhi per incontrare i suoi.
Come sempre gli occhi di Ginevra risposero al suo richiamo, anche ora, ad un passo dalla fine, il loro legame perdurava immutato.
Mille promesse infrante, mille possibilità sfumate, mille desideri irrealizzati fluirono attraverso quel contatto di sguardi, in mezzo alla folla non avevano occhi che per l’altra.
Mentre le fiamme divampavano e lambivano le membra di Ginevra, Bianca sussurrò piano due parole:
“Ti amo”.
  
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