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Autore: margheritanikolaevna    30/06/2013    4 recensioni
In un'intervista Tim DeKay ha detto che la città di New York è un personaggio vero e proprio di White Collar e non solo un semplice sfondo: se questo è vero, vi siete mai domandati dove fossero Neal, Peter e tutti gli altri nel giorno più tragico per la Grande Mela? Si conoscevano già, oppure i loro destini si sono incrociati per la prima volta in quel drammatico mattino di settembre del 2001?
Questo racconto è la risposta che ho cercato di darmi. Ma non temete, non è una storia angst, perché il sentimento dominante sarà sempre e comunque la speranza.
Per adesso - e non so per quanto - sarà il mio ultimo lavoro su efp e spero veramente che riesca a emozionarvi.
Il racconto è stato scritto per il bellissimo contest "La speranza vive in una creativa realtà", indetto da HopeGiugy sul forum di efp e con mia grande gioia di è classificato al secondo posto (su ben ventinove concorrenti!).
Seconda classificata al contest "Anime, serie tv e sentimenti", indetto da bakakitsune su efp.
Terza classificata al contest "Dal linguaggio iconico a quello verbale", indetto da darllenwr su efp.
Grazie a chiunque avrà voglia di leggere e lasciare un suo parere.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Grazie infinite alle amiche e agli amici che stanno continuando a seguire questa fic: mi fate veramente felice!

Questo capitolo ci conduce per mano dritti dritti sulla soglia dell’Inferno…

 

 

Levando gli occhi al cielo, dove l’aria diventa polvere e lingue di fuoco

 

 

«Signore, ti prego… ti supplico, fa’ che El stia bene» ripeteva ossessivamente tra sé e sé l’agente speciale Peter Burke, mentre arrancava - le palpebre serrate per proteggersi dalla polvere e dal fumo acre - sorreggendo un’anziana donna che si premeva la mano sulla fronte coperta di sangue, nel tentativo di allontanarsi il più possibile da quell’incubo di fiamme e calcinacci che prima era conosciuto come World Trade Center.

La sua parte razionale sapeva che la moglie si trovava al sicuro - era riuscito a contattarla dopo che il primo aereo si era schiantato e le aveva detto di tornare subito a casa e di rimanerci, qualunque cosa fosse accaduta - eppure, nonostante ciò, non riusciva a dominare l’angoscia che gli attanagliava le viscere e gli faceva tremare le gambe.

Si trovava nel suo ufficio, non molto distante dalle Torri Gemelle, quando i telegiornali avevano iniziato a diffondere le notizie, dapprima frammentarie e confuse, poi via via più precise, dell’incredibile attacco sferrato al cuore degli Stati Uniti d’America: dopo aver tranquillizzato El ed essersi sincerato che stesse bene (inutile dire che tentare di mettersi in contatto con lei era stato il primo pensiero che gli aveva attraversato la mente non appena si era reso conto di ciò che stava accadendo) lui e i colleghi erano scesi in strada per dare una mano ai poliziotti e ai vigili del fuoco che già si affannavano a evacuare gli edifici circostanti, allontanando quante più persone potevano dalla nube di fumo e polvere che, come un inquietante fungo atomico, iniziava a sprigionarsi dai grattacieli collassati.

«Questo sarà il giorno peggiore della nostra vita» gli aveva detto con voce tremante Hughes, fissandolo negli occhi, e Peter si stava rendendo conto sempre più che, accidenti, era proprio così.

Nonostante l’addestramento e gli anni di esperienza, nonostante avesse desiderato fin da bambino di fare il poliziotto, servire e proteggere il proprio paese, nulla di ciò che aveva imparato l’aveva preparato a gestire una cosa come quella.

Fino a che si era pensato potesse trattarsi solo di un incidente - drammatico, straziante ma comunque a suo modo casuale - l’accaduto era rimasto racchiuso entro i confini di ciò che la sua mente riusciva a comprendere e a spiegare; quando, invece, il secondo aereo aveva terminato il suo volo impattando contro la Torre Sud e aveva iniziato a farsi strada la consapevolezza che dietro i due schianti potesse esserci una precisa volontà omicida, tutte le sue certezze si erano miseramente sgretolate.

Lui e tutti coloro che, nel mondo, avevano assistito in diretta tv alla scena avevano vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’inconcepibile che si realizza, l’irruzione dell’impossibile nella realtà quotidiana.

Per un istante eterno era rimasto immobile, come paralizzato e quasi incapace di pensare, fissando gli enormi rottami di acciaio e gesso che cominciavano a cadere dall’alto, mentre un fitto fumo riempiva l’aria.

Si era guardato intorno, poi, e aveva visto lo shock e il terrore dipinti sui visi dei colleghi: proprio come lui, nessuno di loro riusciva a comprendere esattamente cosa stesse succedendo, né chi avesse mai potuto organizzare qualcosa del genere. Prevederlo, poi, sarebbe stato del tutto impensabile.

E nemmeno adesso ci riusciva, lottando contro l’angoscia e il disagio causatogli dalla polvere densa che gli riempiva il naso e gli bruciava la gola, mentre consegnava la donna che aveva portato in salvo a due paramedici; bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia che uno di loro gli porse, si terse il sudore dalla fronte e poi si tirò su nuovamente il lembo di camicia stracciata che aveva annodato intorno al collo per proteggere il viso dalla fuliggine.

Deglutì dolorosamente, come se stesse inghiottendo spine, e fissando il via vai di pompieri intenti a estrarre le persone dalle macerie considerò che no, non era abbastanza forte per tenere il conto di quanti corpi senza vita stava restituendo il ventre squarciato di New York ai suoi soccorritori… meglio non pensare a quante esistenze fossero state spezzate, né immaginare qualcuno che gli fosse caro in quell’inferno.

D’improvviso vide avanzare verso di lui un uomo, che emerse dalla coltre biancastra di polvere come una sorta di fantasma disorientato, la pelle scura coperta da una patina grigia sulla quale erano evidenti i solchi scavati dalle lacrime; era giovane, dannatamente giovane, e senza far caso a lui gli passò accanto cercando di farsi largo attraverso la pesante cortina di fumo e detriti.

Peter credette che fosse un civile riuscito a superare i cordoni di sicurezza, scattò in avanti e lo afferrò per un braccio, tirandolo con energia verso la postazione di soccorso; il ragazzo sussultò, fissò prima l’uomo in viso e poi il distintivo che portava alla cintola e cercò di divincolarsi, ma la disperazione regalò al federale inaspettate energie.

C’erano già i vigili del fuoco all’opera e lui sapeva che, nonostante l’addestramento e tutto il loro  equipaggiamento, stavano rischiando a loro volta la vita: il suo compito adesso era impedire che anche solo un’altra persona mettesse a repentaglio la propria sicurezza per coraggiosa disperazione.

«Sono un marine!» gridò allora l’altro, tentando ancora di sottarsi alla presa ferrea dell’uomo «Devo andare laggiù! ».

Peter scosse la testa, seguitando a non lasciarlo andare.

Per tutta risposta, il giovane gli mostrò la medaglietta metallica che portava appesa al collo, convinto che il federale non gli credesse, e urlò con quanto fiato aveva in gola: «Primo Tenente Clinton Jones, mi lasci… io devo andare laggiù».

L’agente a quel punto gli si mise di fronte, di fatto sbarrandogli la strada, e rispose: «È inutile, ragazzo: laggiù non è rimasto più nessuno da salvare».

«Sono morti tutti»  aggiunse tristemente. 

 L’orrore e la disperazione che vide riflessi negli occhi neri del ragazzo erano i suoi.

 

***

 

Quando uscì dal bagno, Diana era rilassata e persino di buon umore; avvolta nel morbido accappatoio azzurro cupo si diresse verso la cucina per prepararsi un buon caffè e la colazione… era giovane, era sana e il sangue correva allegramente nelle sue vene, impedendole di rimanere a lungo depressa in una mattinata bagnata di sole come quella.

Il trillo del cellulare la colse mentre tentava di far partire la complicatissima e ipertecnologica macchinetta del caffè che Jo aveva voluto comprare a tutti i costi un paio di mesi prima: la ragazza rispose con un sorriso, ma la voce di sua madre dall’altra parte era talmente strana che subito l’allegria scomparve dal suo viso, cedendo il posto a un inspiegabile timore.

«Diana»  disse la donna, quasi ansimante come se facesse fatica ad articolare le parole «accendi la tv, presto, sta succedendo qualcosa di terribile».

Ancora inconsapevole, la giovane afferrò il telecomando e obbedì.

«Su quale canale?» chiese, premendo i tasti rapidamente.

«Uno qualsiasi»  fu la risposta.

Mentre contemplava le immagini del World Trade Center che collassava su se stesso in una nube di fumo e polvere e senza ancora aver capito cosa stesse succedendo, confusamente Diana si rese conto che uno dei ricordi che avrebbe per sempre portato dentro di sé di quella terribile giornata sarebbe stata l’inutilità della domanda che aveva appena rivolto a sua madre.

 

  
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