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Autore: AstronautOnTheMoon    06/07/2013    2 recensioni
Storia di una ragazza comune che sognava, ma che non é riuscita a realizzare il suo sogno.
Un passato felice,due genitori che le vogliono bene, ma la rabbia e la delusione sono nel suo cuore, perché aveva vissuto tutta la vita per la realizzazione del suo grande sogno.
Rabbia perché ha avuto tutto.
Delusione perchè non ha ottenuto niente.
Genere: Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4. Under12, un sogno più vicino...

Durante gli allenamenti mi distinguevo spesso dalla massa, soprattutto perché erano tutti esercizi che avevo già fatto a casa, quindi quasi subito fui aggiunta al gruppo delle ragazze più grandi.

Avevo nove anni quando fui aggiunta nell'under 12, ovviamente ero spaventatissima e felicissima.

All'improvviso mi ero ritrovata con delle ragazze che avevano tutte due anni in più di me!

Pensavo che non sarei mai riuscita ad integrarmi, pensavo che mi sarei sentita sempre di troppo, pensavo “chissà quanto saranno forti!Io cosa c'entro?”

Invece le ragazze furono molto simpatiche e comprensive con me ed è proprio in questo gruppo che conobbi una delle mie più vere e sincere amiche. Si chiama Silvia è l'opposto di me: non è molto alta, ha gli occhi chiari e i capelli scuri, inoltre è sempre stata circondata da amici, mentre io sono sempre stata piuttosto sola. La scuola e il mio sogno hanno sempre occupato buona parte del mio tempo, quindi non sono mai riuscita a coltivare delle amicizie lunghe e durature all'infuori di quelle nate in palestre.

Gli allenamenti non erano facili e il divario di età impressionante, ma nonostante tutto riuscii a mettermi in mostra e quell'anno migliorai veramente tanto: alla fine dell'anno schiacciavo molto bene per un'under12 e già iniziavo a battere dall'alto.

Sono sempre stata molto alta come ragazza e per mia fortuna anche abbastanza coordinata.

A Silvia non è mai interessato veramente della pallavolo, per lei era solo un modo per uscire di casa e divertirsi. Ha smesso di giocare tre anni fa, ma le nostre strade si sono divise molto prima.

Comunque nonostante tutto, grazie al mio impegno, riuscii a riservarmi un posto come prima riserva ed entrai spesso in campo, o almeno più di quanto avevo previsto.

Quell'anno arrivammo secondi, perdemmo la finale, che per ironia è l'unica partita che ho giocato per intero.

Era una domenica mattina con il sole che era alto e caldo nel cielo, ma nella palestra c'era un clima piuttosto teso e l'agitazione era ovunque.

Quella mattina mi accompagnarono in macchina entrambi i miei genitori, che tentarono di distrarmi parlando di tutt'altro, erano consapevoli della paura che avevo dentro di me e conoscevano anche la mia voglia di vincere, perché era la stessa che tante volte ha illuminato i loro occhi.

Prima di andare negli spogliatoi vidi mio babbo che si era fermato a parlare in privato con il mio allenatore, ero curiosa di sapere cosa si stessero dicendo, ma allo stesso tempo tentavo di convincermi che non era niente di poi tanto importante, altrimenti ne avrebbero parlato con me.

Ero un po' stordita e senza dire una parola appoggiai la mia borsa di fianco a quella di Silvia, mi tolsi le scarpe, i pantaloni della tuta ed indossai i pantaloncini, le ginocchiere rosse e le scarpe da ginnastica. Alzai la testa verso l'alto e vidi Silvia che mi sorrideva, ricambiai incerta il sorriso e mi slacciai la maglia, lasciando intravedere la divisa blu e rossa da partita.

Quelle divise erano una cosa oscena, erano vecchie e consumate con lo stemma della squadra sbiadito e il tessuto consumato.

Così in una sorta di fila scomposta entrammo in palestra e iniziammo il riscaldamento.

Dopo aver finito le andature l'allenatore mi chiamò ed io ebbi un salto al cuore “cosa vuole questo?” mi chiesi, lui mi guardò serio e mi disse : “Sono molto felice dei tuoi miglioramenti, dei tuoi passi da gigante e sono molto felice di averti in squadra – mi chiesi dove volesse arrivare... - so che vuoi tornare a riscaldarti quindi voglio essere diretto con te, ti va di essere capitano visto che oggi non c'è Anna?” Subito mi guardai intorno e mi accorsi che non mi ero nemmeno accorta della mancanza del capitano, poi lo guardai con la faccia di uno che sta guardando un alieno e dopo essermi ripresa dissi: “Perché io?” lui mi rispose dicendo che l'avrei capito a fine partita.

Quella era la prima partita che giocavo come capitano ed ero emozionatissima.

Lo scotch sotto il numero, la mano fredda dell'arbitro, la scelta di testa o croce, il saluto con gli avversari, l'urlare “per noi”, tutto ottenne un significato magico e fantastico.

Non perdemmo perché inferiori dal punto di vista di grinta ma semplicemente perché erano molto più forti di noi e si meritarono quella vittoria.

Tra la fine della partita e la premiazione vidi un signore parlare con il mio allenatore.

Era alto, pelato con il pancione e le gambe sottili, ma ciò che mi sorprese di più fu il suo occhio attento e osservatore e le sue scarpe di cuoio marroni, inadatte per una palestra.

Parlarono a lungo fino a quando, poco prima della premiazione gli indicò mio padre e il signore iniziò a parlare con lui, mentre facevamo le foto con la coppa pensai che si dovevano conoscere per il suo passato di pallavolista, quindi non diedi molto peso a tutto.

Dopo le foto di rito, feci la doccia, mi cambiai e uscii, il signore era ancora lì seduto sugli scalini parlando con i miei genitori. Mi avvicinai sorridendo e salutai calorosamente.

Il signore si alzò e dopo avermi dato una pacca sulla spalla allontanandosi urlò “Parlagliene!”.

Dopo essere saliti in macchina chiesi: “Chi era?”

Mi spiegarono che era un osservatore e che mi aveva proposto un posto nel settore giovanile di una squadra che giocava in A2, aggiunsero che aveva detto di avere tanti progetti per il mio futuro, che era un occasione unica, da non perdere. Dissero che era stato chiamato dal mio allenatore.

Io non sapevo cosa pensare, ancora una volta ero confusa, ero eccitata per la proposta, ma allo stesso tempo ero ancora spaventata.

Mi dissero che c'era un problema: la palestra dove si allena la squadra distava quasi un'ora dal posto in cui vivevo. Trassi un respiro di sollievo e di rabbia. Di sollievo perché la paura si era alleviata di rabbia perché mi ero allontanata dal mio sogno.

Dissi “Allora, in conclusione?”

Risposero dicendo che ne avrebbero parlato e avrebbero deciso.

Rimasi giorni in ansia aspettando una risposta che non arrivava, quando facevo gli allenamenti avevo la testa altrove, a scuola non ascoltavo mai, la voglia di andare a giocare in quella squadra si stava mangiando la mia anima.

Un giorno, era quasi Giugno mio padre mi disse: “Non so se riusciamo a portarti agli allenamenti, non so se ti troverai bene con le nuove compagne, ma so che non sarà facile, ne sei consapevole?” Annuii speranzosa, continuò dicendo “ Ma ne vale la pena di provare!”

Lo abbracciai gioiosa e iniziai a correre per la casa come se fossi isterica.

Ero troppo felice, troppo esaltata, troppo contenta: finalmente sarebbe iniziato il mio sogno!

  
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