e grazie a Sakijune e a Cathleen che mi seguono sempre, siete molto dolci!
Capitolo terzo
La carta da parati
si stava distaccando inesorabilmente, lasciando visibili
due scarafaggi bavosi che probabilmente stavano corteggiandosi. Questo
Grindelwald, preso dallo schifo della scoperta, non poteva proprio
negarlo. Disteso
in un lettino che assomigliava ad una branda militare di terza
categoria ad
osservare le macchie di umidità sul soffitto, e le pareti
fatiscenti di
cartongesso, che non lasciavano nulla all’immaginazione,
sospirò della sua
miseria irrefutabile trovando davvero
impossibile equivocare quei gemiti proibiti che provenivano
dall’appartamento
di Armida Middle, la sua vicina di pianerottolo in quella babele di
gente
ammassata senza futuro nè speranze, che di sicuro non stava
pelando patate, e
probabilmente stava semplicemente cercando di guadagnarsi qualche
spicciolo nel
peggiore e nel più naturale dei modi. La prostituzione
minorile era una di
quelle cose che muovevano il mondo e producevano un profitto certo
anche in
quei tempi promiscui, ambiguamente tetri. Grindelwald non voleva
lasciarsi
conquistare da quella macchina alimentata da menzogne e da corpi
scheletrici,
probabilmente ammalati e percossi, come facevano I suoi coetanei quando
il
desiderio li sorprendeva, senza che potessero frenarlo. Lui non voleva
essere
uno dei tanti. Se proprio avrebbe dovuto darsi in pasto ad una donna,
sarebbe
stato il primo, lo avrebbe fatto per dimostrare al mondo che lui era il
migliore. Non uno qualunque. Quando non potè proprio
ignorare lo sbatacchiare
dei corpi avvinghiati, all’altro capo della parete di
cartongesso, decise di
alzarsi, andare al cesso per orinare una volta per tutte ed abbandonare
per qualche
ora quel postribolo abitato da spiriti, fuorilegge e lucciole, in cui
vigeva la
legge dello sceriffo dai baffoni neri e dal etto villoso, bordello
frequentato
come Picadilly il sabato sera da filibustieri nascosti sotto spoglie di
galantuomini con una banconota fra le mani avide e un gioiello
impacchettato
nelle tasche dei calzoni, per zittire I dubbi e I pianti delle grandi
dame
dalla bellezza appassita, quelle mogli sulla difensiva, troppo
morigerate e
chiuse, donne che l’amore lo conoscevano solo teoricamente,
che avevano passato
le notti sveglie a sbirciare quei libri del sesso vietati nei loro
conventi per
brave mogli e a pregare, a supplicare il perdono con un rosario in mano
di
giorno, perdono, mio Dio, abbi pietà della tua serva
peccatrice, donne che
pensavano in nero ed agivano in bianco. Grindelwald detestava chi non
sapeva
seguire I propri pensieri, I deboli, che si abbassavano, si
soffocavano, per
scegliere tracciati altrui, certamente più sicuri
perchè sarebbero stati
percorsi da più gambe, ma vili, senza alcuna gloria,
perchè nell’uccidere le
proprie idee c’era solo da prendersi a schiaffi e sgozzarsi.
Ammirava
quell’uomo vestito di verde, con la svastica e I baffetti
come segni
distintivi, che aizzava il popolo puro contro quegli spocchiosi usurai,
sodomiti e traditori fino ad allora liberi di deviare la gente che era
loro
vicina. Detestava perfino quegli orridi mongoloidi, con le facce beone
ed il
cervello staccato dal corpo, esseri mastodontici che si muovevano per
le strade
della capitale come in una bolla di sapone, avvolti dalla nebbia,
così lontani
da sembrare eterei eppure reali, da far disgusto alla gente normale.
Ammirava
quel babbano folle che ammaestrava le masse, così piccolo ma
così certo del suo
sogno, delle sue dottrine, da esser entrato nella gabbia dei leoni,
solo e
senza armi e di essere uscito in groppa al loro capo, signore della
vecchia
dama piena d’acciacchi, l’Europa, generale di
schiere sempre più grosse, che
nemmeno si potevano più ignorare per il rumore che sapevano
emettere. Lo
ammirava, e sapeva che uno come lui sarebbe stato di certo un buon
consigliere,
quando avrebbe anche lui messo in pratica I suoi sogni.
<<
già, sarà l’ultimo dei babbani che
verranno schiavizzati >>
sorrise, in quel giorno di primavera in cui l’aria puzzava di
sudori proibiti e
mercato, mentre si incamminava verso il parco cittadino dove, immerso
nel
silenzio, tra le fronde erbose e fruscianti della natura, avrebbe
potuto
smaterializzarsi, per una sana camminata nel mondo dei suoi pari, I
maghi
inglesi che disdegnavano la civiltà babbana. Sì,
gli ci voleva proprio un giro
a Hogsmeade!
Albus aveva appena
compiuto I suoi diciassette anni, festeggiando nel
Dormitorio di Grifondoro con Elphias Doge,il sui migliore amico sin dai
tempi
dello scandalo di Percival Silente. Aberforth, che era al suo quinto
anno, si
era rifiutato di prendere parte al compleanno, sdegnato e arrabbiato
con il
fratello maggiore e aveva passato quella serata, acclamata dai
professori e
dalle tre case sorelle di Grifondoro, Tassorosso e Corvonero, chiuso
nel suo
dormitorio, mentre I compagni di stanza stavano ballando allegramente
nella
sala comune, gettando scompiglio fra I morbidi sofa poco distanti dal
camino
spento. Per quell’occasione Bathilda Bagshoot una strega
promettente che aveva
la fissa per la storia, ed era l’unica in grado di non
impazzire su quei tomi
voluminosi sui troll, I goblin continue rivolte tra maghi. Viveva nella
casetta
limitrofa alla sua a Godric’s Hollow anche se da qualche
tempo trascorreva i
suoi inverni in giro per il mondo. Aveva molti anni più dei
giovani Grifondoro,
ma si era recata al castello, portando in dono al ragazzo un sacco di
manufatti
intrisi di magia romana risalenti come minimo ai tempi di Augusto.
<< Tuo
fratello, dov’è Al? >> gli aveva
chiesto Bathilda, la
quale aveva permesso ad Albus di incontrare la piccola Minerva, una
bambinetta
del primo anno con I capelli corvini e gli occhi verdi la cui forma
rammentava
vagamente quella dei gatti. Minerva aveva un portamento da signora di
gran
classe sin dall’infanzia, mostrava un sangue freddo e
capacità organizzative da
generalessa, e Albus sorrideva vedendola arrossire quando lei gli
domandava in
prestito un libro qualsiasi, immaginandosela una grande politica,
magari la
prima donna ministro della magia. Anche quella sera, nella Sala Comune,
Minerva
e Elphias gli stavano accanto, aiutandolo nel difficile compito di
servire una
torta gigantesca all’intero dormitorio meno che ad Aberforth.
Albus udendo
quella domanda quasi inciampò, barcollò
debolmente sulle sue gambe molli, e fu
Minerva, rossa in viso, ma con gli occhi verdi severi e decisi, a
sorreggerlo e
a salvare il tavolo delle vettovaglie.
<<
grazie, Minny. Beh, Bathilda cara, Aberforth ha deciso di non
esserci. È ancora arrabbiato con me dall’ultima
lettera di nostra madre
>> sussurrò in un bisbiglio.
Sospirò, poi si scrollò di dosso la sua
malinconia << gli ho detto che non mi importa. Gli
porterò un po’ di
torta su in camera, magari a festa terminata >>. La
giovane strega annuì,
arrossendo violentemente, e sparì, diretta verso Elphias che
stava gareggiando
con altri studenti a chi ingoiava più burrobirra. In effetti
la ragazza si era
dileguata perchè conosceva cosa era accaduto tra I due
fratelli solo qualche
giorno prima.
Aberforth aveva
ricevuto una lettera da Kendra, in cui annunciava che
Ariana finalmente era rinvenuta da quello strano stato di perenne
nenia, aveva
smesso di ripetere sempre le stesse parole, e adesso si era rimessa in
forze,
passeggiava nel giardinetto della loro abitazione e salutava la vicina
con
allegria, la madre di Bathilda, e raccoglieva le primule e I gigli, si
divertiva e si stupiva osservando il volo degli uccelli, aiutava sua
madre
nelle faccende domestiche, ma solo quelle in cui non dovesse stancarsi
troppo,
e da qualche tempo aveva ripreso a mangiare e perfino a sorridere e a
chiedere
dei suoi fratelli. Kendra sperava che I suoi figli potessero
raggiungerla da
Hogwarts, magari nel giorno del compleanno di Albus, perchè
loro lo sapevano,
Ariana non poteva viaggiare e poi I medici avevano consigliato alla
madre di
non bombardare la mente fragile e delicata della figlia conducendola in
luoghi
troppo affollati come una scuola brulicante di adolescenti, cosa che
avrebbe
potuto far tornare in mente la figura di Joe e della sua banda, e di
lasciarla
in un luogo ad Ariana famigliare, perchè solo
così quella creatura avrebbe
potuto conservare una parvenza di volontà e di giudizio.
Così Kendra,
dall’incidente di quella sera tremenda, si era eclissata per
la società per
vivere solo per la piccola, ne divenne l’infermiera, perse
l’appetito e gli
interessi esterni, smise quasi di piangere per Percival, che continuava
a
rodersi in quella prigione inespugnabile, Azkaban, colpevole solo di
essersi
fatto giustizia da solo, prima che il popolo non li scacciasse tutti e
potessero dirsi danneggiati e beffati, anche se con quella mossa la
famiglia
non avrebbe di certo riavuto il sorriso di Ariana, aveva anzi perso il
pilastro,l’albero maestro, e adesso che la piccola
imbarcazione era circondata
dai pirati, ingoiava acqua da un lato, poteva solo arrendersi,
consegnarsi,
supplicare. Vi prego, vi diamo tutto, ma non cacciateci di qua, per
favore, per
favore, sembrava dicessero gli occhi di Kendra, ogni volta in cui era
costretta
a recarsi in paese, in quella gabbia di iene e avvoltoi che la
schernivano con
lo sguardo, le chiedevano spiegazioni sui suoi figli, come se lei
dovesse
metter delle scuse per giustificarsi, le chiedevano principalmente di
Albus,
l’unico di cui non avessero di che vergognarsi, mentre di
Ariana e Aberforth
avevano preferito dimenticarli, affidarli all’oblio, fingere
di non ricordarli
come a voler mettere loro una croce addosso, cancellarli per sempre. Ma
la
bambina che soffriva di convulsioni e gridava come un’ossessa
a volte per una
settimana intera, e si strappava I capelli, si svestiva e si graffiava
il
corpo, strillava istericamente, a volte sembrava davvero posseduta da
qualche
spirito malefico, e I suoi occhi vuoti potevano incutere terrore anche
agli
esseri inanimati. Alcuni dicevano che quando Ariana gridava le pietre
si
spaccavano e le piante si afflosciavano, I bambini dovevano
nascondersi, le ragazze
bisognava che si vestissero di bianco e recitassero tutto il rosario
con la
finestra e la porta della camera chiusa e I ragazzi spesso li si
celava, alcuni
li mascheravano perfino da femmine, perchè la furia della
bambina che nessuno
voleva confessare di udire si sarebbe gettata addosso a loro, per
punirli di
quello che le avevano fatto quando aveva solo otto anni, e adesso che
ne aveva
quasi quindici non poteva più frenare quel dolore, non
poteva soffocare la
vendetta sotto il cuscino. Voleva, doveva ucciderli tutti.
Ma chiunque avesse
guardato quell’uccellino morente disteso sul letto, con
gli occhi fissi al soffitto a seguire la filigrana di fiori che si
profilava
fino alla finestra appannata dal freddo, avrebbe sentito le lacrime
sgorgare, e
si sarebbe seduto al capezzale di Ariana, chiedendosi chi fosse in
realtà la
bestia, se lei che gridava inconsciamente o quelli che le avevano fatto
così
tanto male.
Kendra aveva sperato
che, visti I miglioramenti della sorella, Albus
avrebbe potuto passare un po’ di tempo con loro, magari per
infrangere quel
silenzio innaturale, doloroso, che riempiva le ore lente e inesorabili
in cui
Ariana non voleva parlare, o in cui non gridava ossessivamente. Quelle
erano di
certo le eternità peggiori per il cuore della madre,
perchè non poteva negare
che le ceneri di quella famiglia le stavano sfuggendo, rimanevano solo
I suoi
ricordi, le ore trascorse a passeggio con Percival, accarezzando il
pancione in
cui Albus si stava formando lentamente, amore, sarà il
bambino più bello del
mondo, oppure le passeggiate con Aberforth verso I campi di grano,
guardate
madre, quei folletti ci stanno derubando! Oppure quelle giornate
trascorse a
pettinare I capelli della piccola della famiglia, a creare mille
acconciature,
a farle I ricci o le trecce, bambina mia, quale preferisci
oggi?sorridere
sapendo che sarebbe restato così per sempre.
Ma Kendra si era
dovuta smentire: nulla poteva rimanere immutato. Purtroppo.
Aveva aspettato per
giorni la risposta dei suoi figli, che si erano fatti
grandi, e Albus era davvero un ragazzo meraviglioso, intelligente e
pieno di
amici, mentre Aberforth si stava facendo un uomo dalle spalle larghe e
dagli
occhi foschi, che non sapeva amare alla maniera dei rampolli delle
famiglie
nobili, un po’ come il suo povero Perce, che si rattrappiva
in prigione ma lei
gli voleva lo stesso bene, quel genere di uomini che sembra possano
strangolare
una donna in un abbraccio ma che sono I più sensibili e
fedeli e possessivi che
esistano. Aveva atteso, mostrando le foto consumate a furia di
sfogliarle e far
scivolare il dito di Ariana sui visi dei suoi fratelli, quando lei non
li
ricordava o chiedeva di vederli e loro non c’erano e la
ragazza poteva
rammentare un passato sfuggito solo in quel modo scarno, decisamente
triste. Aveva
atteso Kendra, e per ore aveva pianto, perchè il giorno del
compleanno lo aveva
passato da sola, a convincere Ariana che quell’ombra non
fosse un brigante, che
no, non volevano farle del male, tutt’altro, era solo un
gioco di luci, quel
profilo grigiastro disegnato sui fiorellini della carta da parati era
solo una
proiezione, non doveva piangere, non doveva gridare, perchè
si stava strappando
i capelli, perchè non voleva ascoltare sua madre? Ariana era
di nuovo caduta in
un sonno inquieto, una passeggiata tra gli spettri della sua infanzia,
a tratti
rallegrato dalle carezze di Aberforth, a tratti denso degli sguardi di
Albus,
perchè diavolo la stava osservando?, lei non lo sapeva, ma
la cosa le dava da
pensare. Ma non aveva da pensare, perchè lei era una.. come
l’avevano chiamata
quei ragazzi, tanto tempo prima?
Una strega. Si, lo
era stata forse. Ma adesso era solo un corpo vuoto,
fragile e pallido. Adesso che si stava spegnendo e perdeva le forze,
mentre sua
madre piangeva e quelle lacrime le causavano crisi isteriche.
Perchè sua madre
stava piangendo? Lei non lo sapeva, così come non aveva
capito che avere poteri
magici fosse un crimine, non aveva mai capito nulla della vita, per
questo
aveva deciso di affrontarla distruggendo la realtà,
uccidendosi di strida e di
calci, implodendo poco a poco, mettendo a soqquadro la casa dalle
stanze vuote
piena di dolore.
Aberforth si era
raggomitolato nel suo letto. Come in ogni grande occasione
non aveva saputo frenare le lacrime. Pensava a suo fratello e si
sentiva
esplodere: perchè diamine si comportava così?
Albus, perchè sei senza cuore?
A Natale Aberforth
era stato a casa, dalla sua adorata sorella. Chissà
perchè, ma si aspettava che la sua sola presenza
l’avrebbe risvegliata. Si era
presentato con delle roselline fresche, appena colte dalla serra della
scuola,
sotto la concessione della professoressa di Erbologia che per qualche
motivo
gli sorrideva sempre, con fare materno e lo faceva arrossire. Aveva
chiesto a
suo fratello se volesse accompagnarlo a casa, ma Albus aveva
l’aria di stare su
di un altro pianeta, aveva detto di essere impegnato, così
il ragazzo si era
rassegnato a partire da solo, chiedendosi come fosse possibile
dimenticarsi
della famiglia nelle occasioni speciali. Aberforth però non
lo avrebbe mai
detto a voce alta: diamine, lui non poteva mostrarsi debole, romantico!
Ma sua
sorella aveva bisogno di dolcezza, e un caprone rude come lui non
poteva non
piegarsi di fronte a quella creatura delicata, Ariana.
La neve
quell’anno non era ancora caduta, ma il cielo terso dava
l’impressione che avrebbe messo in scena un putiferio. La
carrozza aveva
piegato velocemente verso Godric’s Hollow, fermandosi poco
distante dalla
casetta dei Silente. Aberforth era sceso, assaporando l’aria
incantata del
borgo a Natale: per quanto lo detestasse era pur sempre bello, tornare
a casa e
avere un bagaglio di ricordi che cascando all’improvviso, si
apriva riversando
addosso le giornate dell’infanzia. Per il tragico incidente,
Aberforth aveva
portato un bagaglio a parte, in modo che I bei tempi non si
macchiassero di
marcio, delle sue mani sanguinanti, della furia pazza che gli era
montata in
corpo e delle urla di sua sorella, del suo corpicino bagnato di sputi e
pieno
di lividi, delle lacrime di Kendra e della bacchetta infranta di
Percival, del
fratello con il libro aperto e senza parole da rivolgere alla famiglia,
già,
quel fratello che non aveva mai amato I suoi parenti, troppo normali,
troppo
insulsi, troppo compromettenti, perchè tra un padre
fuorilegge, una madre depressa,
un fratello violento e una sorella trasparente non avrebbe avuto nulla
di cui
vantarsi, poteva fingersi umile, inumidirsi le ciglia, in modo che le
ragazze
volessero consolarlo e I professori elargirgli favori e trofei.
Aberforth si
decise a dimenticare quelle sue opinioni, per il bene della madre. Per
Ariana.
Quando sfiorò il battente, un brivido lo percorse
raggiungendogli le ossa: sua
sorella stava strillando.
Entrò,
battendo come un pazzo contro la porta, giusto in tempo per vedere
la sua dea sbattere a terra Kendra, saltarle addosso, graffiandola,
mordendola,
furiosamente. Aberforth si era sentito morire, ma aveva deciso di
mantenere il
sangue freddo, così aveva afferrato Ariana per la schiena,
incurante dei calci
e dei pugni che gli avrebbe assestato e fece in modo di liberare sua
madre
dalla morsa assassina in cui stava soffocando. La donna
recuperò lucidità in un
baleno, cosa che fece presagire al ragazzo che quella scena si fosse
ripetuta
diverse volte, con la stessa tragica foga, e poi anche lei, con le
rughe
appesantite sul viso, aveva aiutato il figlio nel mettere a letto
Ariana, darle
un calmante ed osservare le convulsioni scemare, fino a ritrovarla
febbricitante e stupita, un uccellino appena nato in balia del vento.
Si erano seduti a
tavola, Kendra aveva cercato di rendere la casa
confortevole, ma assomigliava al mausoleo del tempo andato, e Aberforth
avrebbe
preferito morire piuttosto che osservare quella donnona rattrappirsi, a
furia
di ingoiare dolore e frenare le lacrime. Ma lui non poteva ancora tener
fede a
quella promessa che si era fatto,
Quel ricordo gli
faceva intendere perchè Albus non volesse ritornare
lì
dove gli orrori si susseguivano senza mai lasciar a riposo I Silente.
Lo poteva
capire, forse, ma di certo non lo apprezzava. Anzi, lo odiava sul serio
perchè
Kendra e Ariana non si meritavano la sua noncuranza. Sapeva solo
passeggiare
con la sua ristretta cerchia di eletti, perchè di amici ne
aveva fin troppi, ma
il circolo scipionico era una sorta di setta riservata a pochi scelti,
e
spadroneggiare per la scuola, beccarsi con qualche Serpeverde una volta
ogni
tanto, ma poi a finire nei pasticci era sempre il fratello rude, non il
perfetto primogenito dal naso aquilino e dall’intuito quasi
infallibile.
Così
quando Albus entrò nel suo dormitorio, con la faccia
ammorbidita da un
sorriso smagliante, gli parve che stesse gettando fango sul nome della
famiglia. Gli prudevano le mani, come tutte le volte che doveva
difendersi e
dar pugni. << voglio solo parlarti >>
sussurrò Albus, imperterrito.
<<
va’ al diavolo >> disse lui, di rimando.
Albus si era
sistemato in un cantuccio della stanza chiusa, cercando nella
penombra delle parole per spiegarsi. Lui che ne aveva sempre fin troppe
adesso
le aveva smarrite tutte.
<< ho
intenzione di partire dopodomani, per restare fino al settimo
anno a casa. Da Ariana e nostra madre. Ho intenzione di lavorare a
Godric’s
Hollow, di scrivere per I giornali e proporre le mie idee. Magari mi
brevettano
qualcosa e possiamo comprare con quei soldi un regalo a nostra madre,
un
soggiorno in qualche clinica specializzata per Ariana… ho
sentito dire che in
Francia ce n’è una in cui solo I Purosangue
possono entrare, o per lo meno,
solo loro teoricamente possono permetterselo…
>>
Aberforth
scattò in piedi << quindi tu vorresti porre
fine ai nostri
problemi con un gioiello per la mamma e un viaggio di sola andata per
Ariana? Vuoi
mandarla da uno.. >> abbassò il tono
<< strizzacervelli, questo
vuoi Albus? >>
Il giovane scosse il
capo << non mi vuoi capire! È come parlare con
un muro, Ab. Voglio solo fare qualcosa per lei >>
<< lei
voleva che noi fossimo a Godric’s Hollow, oggi, con una torta
e un fiore appassito in mano, con un sorriso, che non costa nulla, e
qualche
favoletta per cullarla quando mamma l’avrebbe portata a
dormire! >>
Albus
scoppiò a ridere << e una volta che ce ne
fossimo andati, cosa
sarebbe cambiato? Lei soffre nel vedere partenze ed arrivi in
continuazione…
non abita in un porto, si sentirebbe usata! >>
<< tu
non sai nulla di nostra sorella! Sei così dentro quei tuoi
libracci che non ti accorgi di quello che la gente dice di lei, di me,
di te,
nè ti interessa che nostra madre sia sfiorita in pochi anni,
ed ora assomiglia
ad una vecchia quando non ha neanche quarant’anni, non ti
importa di
allontanare Ariana da casa, perchè è per il suo
bene, giusto? E magari, quando
quei babbani saranno stanchi di aizzarsi l’un
l’altro e cominceranno la guerra
vera e propria la lascerai come ostaggio ai vincitori, così
potrà capire come
va il mondo, eh?? >>
<<
stai divagando, fratello >> disse Albus, con il viso
annoiato << non vuoi capire proprio. Ho parlato con il
preside e mi ha
accordato il permesso di poter dare gli esami questo
giovedì. Sono già
preparato, e partirò per Godric’s Hollow sabato
sera. Baderò io alla famiglia,
mentre tu ti affannerai sui G.U.F.O >> e detto
ciò uscì, lasciando
Aberforth a tirar pugni contro il materasso e a maledire il mondo, a
bestemmiare contro chi aveva fatto franare il loro piccolo paradiso
personale.
<<
avrebbero dovuto farlo a me, non a lei >>
sussurrò Albus,
quando fu sicuro che nessuno lo udisse, lo cantò al
firmamento, a quelle stelle
amare che lo avevano beffato da sempre. Lui era diverso, e ne era ben
conscio.
Se qualcuno avesse
chiesto a Gridelwald dove si trovasse il paradiso, lui
avrebbe gridato ai quattro venti Hogsmeade senza alcuna esitazione.
Perchè in
quel borgo per soli maghi, lontano dal tempo e dalle sue angherie,
sembrava che
una festa eterna, una fiera sfarzosa e allegra, regnasse sovrana. Dopo
tutti I
contadini morti per la fame, gli attacchi di panico chiuso in celle
fredde, ad
aspettare che gli eserciti smettessero di far razzia o violentare le
donne
della propria famiglia, o a star nella stalla, mentre fuori infuriava
la
tempesta, e dover rimanere immobile, nel buio, tra lo sterco e
l’odore
ammorbante della morte, spirito che mai lo abbandonava, sembrava quello
l’ombelico del mondo, dove non c’era da temere per
la fame, dove il sole
splendeva sul serio e non per pura convenzione, e I soldi non mancavano
così
come il cibo, e di eserciti vi erano solo le schiere di giullari e
allegre
danzatrici, che lanciavano nell’aria volantini inseguite dai
bambini e dai
ragazzi dal viso in fiamme. Sembrava una grande giostra circense, e
Grindelwald
si chiedeva quando sarebbero apparsi I cavalieri e le dame,
costeggiando la
stradina, agguantando una copia della Gazzetta del Profeta, il giornale
più in
voga della nazione magica inglese. Gli veniva da ridere, se ripensava
alla sua
camera puzzolente, dove gli amanti del pettegolezzo avrebbero potuto
farsi
quattro risate, giocando a indovinare con chi si accompagnassero le
ragazzine,
dall’altro capo del cartongesso. In quel mentre, una carrozza
dall’aria
ufficiale stava scendendo dal pendio più remoto che si
poteva intravedere dalla
larga strada maestra, ininterrotta, sebbene ci fossero così
tante buche da far
invidia ad una talpa. Dietro le cortine rosse e dorate un ragazzo dagli
occhi
d’un azzurro intenso, come l’oceano in un giorno di
sole si godeva gli ultimi
momenti di libertà, prima di riportare a casa le sue
conoscenze, la sua pagella
piena di eccezionali. Riportava I saluti di Bathilda a Ariana e alla
cara
Kendra e la promessa di rivedere presto Elphias Doge per una
scampagnata, le
lacrime di Minerva, che aveva deciso di comportarsi con
dignità, senza addii
teatrali, ma che poi aveva dato il via ad un melodramma vero e proprio
nell’intimità delle sue stanze. Aberforth non
aveva voluto salutarlo, la torta
di compleanno l’aveva fatta marcire, e se le era date di
santa ragione con
quella testa calda di Hoggins, un Serpeverde dell’ultimo anno
delle fattezze di
una balena tanto per smaltire la rabbia. Era così simile a
Percival… Albus lo
invidiava, perchè anche lui avrebbe dovuto essere brutale
almeno un pochino,
magari non avrebbe mostrato in pubblico quel suo lato, ma ad averlo
qualche
volta si sarebbe risparmiato le lacrime e le nottate insonni. Lui non
odiava
gli uomini, nonostante gli orrori trascorsi e non amava le donne, le
rispettava
troppo per poterle usare, o corteggiare. Quelle cose erano tutte
finzioni,
l’amore cos’era se non la più grande
burla del mondo? Era un sentimento che non
conosceva e forse non voleva conoscere, perchè nessuno
avrebbe amato un animo
come il suo, troppo saggio per un adolescente, nessuno poteva capire
cosa
significasse sentirsi fuori posto, non sapere cosa farsene con quella
strana
bellezza che ammorbidiva le sue fattezze, di quel coso che occupava le
sue
mutande, che a volte non voleva nemmeno dargli retta, si comportava
come se
avesse vita propria, facendogli scordare perfino delle sue disgrazie.
Albus
aveva sospirato tristemente: che essere imperfetto l’uomo! Ma
poi non aveva
smarrito il sorriso, quella capacità di non perdere il
coraggio nemmeno di
fronte alla morte certa gli sarebbe servito ad accettare con ironia
tutti
quegli avvenimenti che avrebbero segnato per sempre la sua esistenza.
Quel
sorriso un po’ ironico un po’ triste, enigmatico
alla stregua del famoso cenno
della Gioconda, non lo avrebbe mai abbandonato.
Improvvisamente la
carrozza si fermò. Albus fece quasi un capitombolo, non
era abituato a viaggiare con I mezzi babbani, non a sedici anni quasi
diciassette, nella meravigliosa speranza di potersi smaterializzare
entro pochi
mesi, per questo scese tutto ammaccato e con il voltastomaco e
maledicendo a
mezza voce il cocchiere d’occasione.
<<
cosa succede, messere? >> chiese Albus, sorridendo
amabilmente. Il cocchiere, un uomo dal capo spelacchiato e con due
folti
mustacchi sulle labbra indicò la strada senza replicare se
non con gesti. Un
cartello annunciava che le strade sarebbero state inagibili fino alla
sera. <<
beh, allora non mi resta che adattarmi >>
sospirò il ragazzo, alzando le
spalle. Si congedò dal cocchiere, che sarebbe tornato a
prenderlo solo nel
tardo pomeriggio e decise di non perdere tempo rimuginando su quanto
potesse
esser sfortunato uno come lui, anzi, si sarebbe goduto al pieno quelle
ore di
libertà. In fondo se non poteva esser felice alla sua
età che vita miserabile
sarebbe stata? Così si diede alla pazza gioia, dimenticando
di dover
risparmiare un po’ di denaro per quella clinica particolare
di cui aveva
sentito parlare, ricacciandosi nello zaino I dolci di Mielandia, un
locale
luminoso in cui le bancarelle trasudavano di zuccheri, leccornie di
ogni genere,
per poi fare un salto nella biblioteca dei Burbage poco distante al
gioco degli
scherzi di Zonko, il locale più matto della
città. Quando ebbe mangiato dolci a
sazietà, dopo aver duettato con il vecchio proprietario
della biblioteca sui
versi di un babbano famosissimo, William Shakespeare, ed aver lasciato
una
serie di articoli nella redazione della Gazzetta del Profeta, che aveva
aperto
una filiale in una casetta sbilenca nel vicolo più squallido
della cittadella,
Albus sentì che non avrebbe potuto più frenare la
fame, così decise di cercare
in quel borgo in cui le donne potevano passeggiare senza essere
importunate e I
maghi si levavano il cappello con la galanteria d’altri
tempi, e I bambini e
gli anziani camminavano dolcemente, l’uno svelando
all’altro I misteri del
mondo, l’altro sorreggendo il primo con dolcezza e
ammirazione, una tavola
calda che non gli spillasse più soldi del dovuto. Gli fu
chiaro che ai Tre
Manici di Scopa, un locale che da poco aveva aperto per la gioia degli
adolescenti sfaccendati, non c’era posto per lui: in effetti
quel ristorante
era troppo affollato, e lui troppo solo per potervisi divertire. Era
tutta
un’altra storia, a braccetto con la vecchia Bathilda, seguito
da Minerva e dal
caro Elphias, che sapeva sempre sgraffignare dalla scuola un pacco di
gelatine
tutti I gusti più uno da sgranocchiare mentre aspettavano i
boccali di
burrobirra. Così decise di correre a ritroso verso il
confine di Hogsmeade,
sorridendo come un pazzo del sole nel cielo, della strada bloccata che
gli
aveva regalato quelle ore di allegria. Giunse fino ad un locale che era
stato
aperto nella seconda metà del 1500, la Testa di Porco, in
cui si diceva che
trovassero l’estro artisti melensi e gli spiriti di storie da
dover narrare che
nessuno fino ad allora aveva accettato di ospitare nella mente e nel
cuore,
trovavano ascolto, diventavano personaggi reali, con vita e sentimenti
visibili. Era anche locanda di sberle e di pugni, di sbronze da
capogiro e di
amori acerbi, un luogo in cui Albus incontrava il sapore della storia
del
mondo, e per un attimo capiva Bathilda e I suoi occhi lucenti quando si
parlava
del passato. Il ragazzo però non poteva che ammirarlo da
lontano, ma non
invidiarlo: ricordarsi di ciò che era stato per lui non era
lecito, faceva male,
preferiva non pensarci, era meglio continuare così, seguire
il tracciato
rettilineo che si era imposto di percorrere. Mentre rifletteva su
questo, si
ritrovò di fronte all’insegna arrugginita, marcia
e ricoperta di una strana
muffa verde della Testa di Porco. Con un sorriso che gli illuminava
perfino lo
sguardo aprì il portone, salutando garbatamente e
socchiudendo gli occhi,
sorpreso dalla penobra che avviluppava l’ambiente interno:
quattro tavoli rosi
dai topi con sgabelli abbinati, mezzi zoppi decisamente fatiscenti,
muri che
sembravano fossero macchiati di olio, tappezzati di incisioni, quadri,
forse a
nascondere i buchi nelle pareti dai quali penetrava il freddo e rendeva
l’ambiente un frigorifero pure d’estate. Le
finestre erano ottenebrate da
tendaggi violacei, solo un filo di luce poteva penetrane
all’interno,
interrompendo il dominio continuo della notte. Albus notò
che il locale era
apparentemente vuoto, ma quando si accasciò su una seggiola
del bancone,
premendo con l’indice sul piano levigato e guadagnandosi una
scheggia,
sorridendo della polvere che si era depositata sulla sua pelle rosea e
poi
aprendo il libro appena acquistato e una bustina di caramelle, si rese
conto
che un ragazzo dalla pelle olivastra, scuro e pensieroso lo stava
osservano dall’altro
capo del bancone. Albus finse indifferenza, prendendo a sfogliare con
decisione
quel libro, sempre percependo gli occhi scuri dello sconosciuto sul
corpo.
Strano,
pensò il giovane, inizialmente quel viso olivastro, color
della
notte, non lo aveva notato, perchè gli era parso parte
integrante delle
tenebre. Apparve in quel dunque un vecchio inserviente, senza denti ma
non per
questo incapace di sorridere: si chiamava Matthew, ed era il
proprietario del
locale che amministrava con l’aiuto del figlio Anthon. In
comune I due, avevano
solo il cognome, perchè se il primo era solare e cozzava con
le tenebre in cui
era avvolta la stanza, il secondo era silenzioso, ed andava
d’accordo più con
le portate da preparare che con I clienti. Matthew stava invecchiando,
e tante
volte aveva proposto al figlio di prendere le redini dell’
azienda di famiglia,
ma l’altro aveva scosso il capo, non era la sua strada, lui
voleva solo
specializzarsi nell’arte culinaria. Matthew allora aveva
cominciato a cercare
negli sguardi dei ragazzi che si fermavano a quella mensa il suo degno
erede. Aveva
conosciuto Aberforth e da quel momento, scorgendo I suoi modi un
po’ rudi,
decisi, forti, indomabili, aveva visto in lui un grande uomo
d’affari, magari
avrebbe potuto fare gavetta con quel locale. Perchè la Testa
di Porco, per
quanto vecchia e ammuffita, non poteva chiudere. Era un patrimonio
nazionale,
un pezzo di storia.
Quando Matthew vide
Albus lo salutò allegramente, scorgendolo un po’
preocupato e con un sorrisetto falso sul viso, gli offri da bere,
mentre lui
sceglieva qualcosa per pranzo.
<< e
dimmi, come sta tuo fratello? E la vecchia Hogwarts continua
ancora a combattere? Ah, I bei tempi della mia giovinezza, quante
ragazze ho
baciato! >>
Albus
scoppiò a ridere, e rimase colpito nel sentire una risata
profonda
giungere da poco distante, da quello sconosciuto dagli occhi foschi.
Vedendolo
partecipe, il ragazzo non si sentì più uno spione
e potè osservare l’altro
apertamente. Aveva capelli color pece, occhi truci e pesanti, che
potevano
raccogliere in uno sguardo il cielo della tempesta. La pelle era
olivastra ma
fresca, forse erano coetanei, e per di più un naso marcato
segnava il suo
profilo, un segno che bene si armonizzava alla mascella, dandogli un
fascino
che in Albus non si poteva rintracciare. Anche lui, a detta di Bathilda
però
non era propriamente orrendo: I suoi capelli ricci e lisci erano
raccolti in
una coda morbida che gli conferiva un’aria da saggio, e aveva
occhi dolci e
comprensivi, da buon confidente, occhi che sapevano a tempo debito far
tremare
la voce e le gambe.
<< ehi
ragazzo, cosa fai lì in quell’angolo buio del
locale? Vieniti
a sedere qui, vicino a noi! È sempre bello fare nuove
conoscenze, e tu mi
sembri un viaggiatore che ha visto mille soli diversi >>
Grindelwald
grugnì, strozzandosi con un po’ di birra
<< e voi dovete
aver visto l’intera umanità da quel bancone,
signore, se ritenete di saper
leggermi solo con uno sguardo, signore >>
replicò con un sorriso. Aveva
denti candidi, che risplendevano nel buio del primo meriggio.
Nonostante la
nota polemica, che Albus notò in quella replica
apparentemente cordiale, lo
sconosciuto seguì l’invito dell’oste, e
si sedette poco distante da Albus. Chissà
perchè, ma Silente si sentì come in trappola, e
smise di ingozzarsi di
caramelle, facendo cadere lo sguardo sul suo libro nuovamente. Matthew
sorrise
e aprì le finestre << diamine, facciamo
entrare un po’ di luce! Mio
figlio e le sue fissazioni! È convinto che abbiano tassato
perfino il sole! Beh,
io devo andare a prepararvi da mangiare, sennò non
saprò come cacciarvi da qui.
Tra cinque minuti vi porto da mangiare. Voi non siate timidi,
socializzate! È
quello che ci resta, in questi tempi tremendi >>
Grindelwald mosse il
suo boccale nell’aria, brindando alla salute del
vecchietto. Albus sorseggiò a sua volta un po’ di
burrobirra. L’aria era
improvvisamente rovente, o forse stava capitando di nuovo? Si stava
sentendo
in… imbarazzo? E per chi? Per uno di cui non conosceva
nemmeno il suo nome.
Grindelwald si volse
e fece cozzare I boccali per una frazione di secondo. Albus
rimase stupito, ma non seppe cosa dire. Doveva essere arrossito, cosa
che gli
capitava raramente, e non senza apparente motivo. <<
è bella la vostra
nazione >> sussurrò rocamente quel giovane,
strascicando la voce con il
suo accento pesante, nordico, troppo duro. Era la voce di un generale
quella
abbinata agi occhi color petrolio. Albus bevve un altro po’
di birra. Non
sapeva cosa dire. Sorrise semplicemente << in molti lo
pensano. Io però
farei di tutto per cambiarne la mentalità >>
Grindelwald si
grattò il naso, osservando il soffitto <<
quanto pensi
sia vecchia questa catapecchia? Mi fa rimpiangere quasi casa mia
>>.
Silente lo guardò con un sopracciglio alzato. Grindelwald
scoppiò a ridere
<< voi inglese e le vostre sopracciglia mobili. Ho
provato ore a
copiarvi, ma non ci riesco proprio. Mi sentirò dei vostri
solo quando sarò in
grado di farlo muovere per la fronte a mio piacimento >>
poi si ricordò
di non essersi nemmeno presentato. Gli porse la mano, sorridendo con
quei
grandi occhi foschi << mi chiamo Gellert Grindelwald e ho
ottenuto una
borsa di studio dalla mia scuola di Dumstrang. Ho finito gli studi per
quest’anno e credo che per un po’
resterò qui sulla vostra isola. Mi manca solo
un anno prima dei MAGO >>
<<
beh, benvenuto allora! >> prese la mano tra le sue. La
prima
era callosa, indurita dalla guerra. Mani di adulto. La sua sembrava
pasta per
il pane, così soffice e delicata. Solo un minuscolo callo,
dovuto al modo
sbagliato di reggere la piuma, si era insinuato nella cavità
laterale del suo
dito medio, ma comunque non era nulla di cui vantarsi, non
c’erano storie
legate che avrebbe potuto narrare ad un pubblico << io
sono Albus
Silente, piacere mio. Beh, anche io ho una borsa di studio e sto
ritornando a
casa da Hogwarts. Anche io sono al sesto anno >>
Gellert
annuì << è una coincidenza alquanto
strana che due studenti
si ritrovino in una baracca del genere e che abbiano ordinato lo stesso
cibo
per pranzo >> osservò, quando Matthew
tornò con due piatti identici per
loro. << già >>
commentò l’altro ridendo <<
chissà se la
pensiamo ugualmente sul mondo? >>
Ma non pensavano
nello stesso modo. O meglio, entrambi avevano grandi
progetti per il futuro. Uno voleva costruire, l’altro
distruggere. Uno voleva
ricongiungere I cocci, l’altro voleva spazzarli via.
L’uno si sarebbe
innamorato, l’altro avrebbe finto per non perdere un sostegno
contro le
avversità. O forse, aveva amato solo a modo suo. In quella
locanda che un
giorno avrebbe visto Aberforth invecchiato e ingobbito pulire I
bicchieri senza
convinzione, perchè del resto non avrebbero mai brillato
quei dannati boccali,
dove I due giovani si sarebbero incontrati tante altre volte
l’uno felice come
in paradiso,l’altro con sul volto la febbrile follia delle
sue idee, qualcosa
era appena sbocciato. Un interesse timido da un lato e curioso
dall’altro. Non
sapevano cosa potesse essere quella forza che li aveva fatti
incontrare. Era da
approfondire, pensarono entrambi, quando vollero scambiarsi gli
indirizzi, e
Albus, salendo sulla carrozza molte ore dopo, pregò Gellert
di potersi recare
lui nel palazzetto degli amori proibiti, perchè in casa sua
aveva la madre che
soffriva di salute, mentì. Non voleva che quel giovane
dovesse conoscere
Ariana. O Aberforth.
<<
certo, ci vedremo presto. Hai delle buone idee, Albus Silente
>>
Si, idee fasulle,
che lui non condivideva. Aveva detto una seconda bugia. Per
parlare con quel misterioso cavaliere finito per studi nella sua terra
aveva
detto senza pensarci << per me I babbani dovrebbero
essere usati come
elfi domestici >>. Che grande cazzata.
Albus
sbattè la testa contro la tappezzeria della carrozza, mentre
la luna
piena occupava il cielo illuminandolo dolcemente, ripensando alla
giornata
appena trascorsa. Chi era quel giovane inciampato nella sua vita? Non
lo
sapeva, solo Gellert Grindelwald, un ragazzo dalle idee strane e dagli
occhi
crudeli. Occhi misteriosi. Occhi affascinanti. Quegli occhi che non lo
fecero
dormire per molte notti, nell’attesa di poterli rivedere.
Continua…
bene, che ve ne pare come terzo capitolo?????