Centro
Era successo
tutto un giorno d’inverno, uno di quei giorni
freddi e nostalgici di
inizio Dicembre in cui la neve ti si impiglia tra i capelli e risalta
come luci
nell’ombra.
Era uno di quei
giorni in cui si stava zitti,
con le labbra congelate e screpolare, immobili come se da un momento
all’altro
si potessero rompere per un sorriso accennato.
Camminavi,
camminavi tra quello che era fatto
di te - neve, neve
che non finiva, neve
che alla fine acceca gli occhi, non ti ci abitui mai, mai troppo a
lungo – e
quello che ti componeva avevo imparato ad amarlo fino in fondo anche se
non
avrei dovuto. Ti riguardava troppo, riguardava troppo i tuoi sorrisi
accennati
e l’aria tetra nei tuoi occhi.
Tu eri tetro, eri
testardo e mi guardavi come
se non mi avessi mai visto.
Ci siamo scontrati,
abbiamo scontrato gli
occhi, mentre i capelli volavano e l’aria si riscaldava dei
nostri pensieri.
E
in quello sguardo non ho visto niente.
Eri figlio di Draco
Malfoy ed io di Harry
Potter e tendevamo ad ignorarci, forse per paura di farci troppo male
solo
parlandoci. La verità era che non avevamo paura delle nostre
parole ma delle
nostre anime, del nostro sangue, dell’intensità
dei petti.
Avevamo paura di
tremare, di sbagliare, di
guardarci. Forse perché i nostri padri, le nostre madri, le
nostre vene erano
diverse l’una dall’altra, ma quelle dei nostri
genitori erano uguali.
Perché
gli opposti si atraggono.
Avevamo entrambi un
libro in mano, dei libri
babbani.
Io avevo iniziato a
leggere libri babbani
quando avevo tredici anni e avevano iniziato con quelli per bambini.
Quelle
cose erano così lontane, così distanti dalla mia
realtà, nonostante papà ci
avesse sempre portati in stretto contatto con i mondi diversi. Era un
po’ come
salire sulla Luna, così anormale, così diversa,
così lontana da noi, così
paurosa.
Ci eravamo seduti
sull’unica panchina del
giardino per leggere, non c’erano
altre
panchine. Eravamo lontani, molto lontani, ed io mi allontanavo sempre
di più da
te, perché faceva troppo freddo e avvicinandomi al tuo
calore corporeo sarei
scoppiata.
Perché
si ha sempre paura di quello che non si conosce.
Avevamo iniziato ad
avere un appuntamento, in
quel posto, quel posto da definire ‘nostro’. Non ci
parlavamo come non ci
eravamo mai parlare ma gli sguardi erano persistenti (così
come le mie labbra
secche ed il mio nodo alla gola).
Ci avvicinavamo
sempre di più , su quella
panchina, fino ad arriavre a pochi centimetri di distanza
l’uno dall’altro, e
speravo di scoppiare – non riuscivo a leggere, mi distraevano
i tuoi occhi in
cui si riflettevano le pagine bianche con inchiostro nero – e
speravo anche di
baciarti, un giorno, ma sapevo che erano speranze vane.
Avevamo deciso di
rimanere ad Hogwarts per le
vacanze, forse sperando che anche l’altro l’avrebbe
fatto – e io ci speravo e
Dio, Dio, Dio, se ci speravo ogni notte – e la mattina di
Natale eravamo di
nuovo lì, seduti a pochi centimetri l’uno
dall’altram tu che leggevi, io che
leggevo.
«Luna?
» non mi chiamavi mai come mi
chiamavo, non mi chiamavi mai Lily, forse perché la Luna era
un qualcosa di più
lontano, sconosciuto, invitante e particolare, e lo utilizzavi come
appellativo, me lo rivelastri quando iniziammo a parlarci.
«Sì
Scorpius?» erano domande, solo domande
vuote.
«Buon
Natale, Luna» lo guardai con il libro
stretto tra le mani vuote, non avevo da offrirgli niente, cosa potevo
dargli?
«Buon
Natale, Scorpius.»
Pronunciavamo i
nostri nomi molto spesso,
forse per non pronunciare i cognomi.
E
quelle parole, quel Luna, mi fecero capire quanto fosse spaventoso,
lontano e ignoto stare con te, parlarti e guardarti mentre le tue
pupille
vibravano attraverso le righe.
Il giorno dopo ci
parlammo di nuovo, e tu mi
portasti una scatola rilegata di rosso ed oro ed io ti portai una
scatola verde
ed argento.
Mi guardasti
stupito e poi un sorriso spuntò
sulle tue labbra e ci scambiammo i regali,a cinque centimetri di
distanza tra i
nostri corpi, con le mani tese.
«Aprilo
prima tu, sono in ansia .» ti guardai in ansia
mentre tu sfilavi il nastro d’argento per poi guardare
– stupefatto – il libro
che avevi tra le mani .
Era
‘Diari’ di Sylvia Plath.
Sorridesti e mi
sentii gratificata. «Apri il mio .»
Lo scartai tremando
e guardai quello che avevo tra le
mani, sorridendo a mia volta. Sentivo il tuo sguardo su di me
– il tuo respiro
su di me, lo sentivo ardente, lo sentivo forte,ti sentivo vicino
– ed era
strano, sentivo qualcosa per te, era la prima volta che sentivo
qualcosa per
qualcuno, perché per me quelle parole avevano significato
tanto.
‘Ipazia’,
si chiamava.
«Era una
filosofa, ed era una combattente. Mi ha
ricordato te .» ti guardai negli occhi, gli vidi grigi.
I tuoi occhi erano
il vuoto.
Da quel giorno ci
parlavamo sempre, era una continuità
che non potevamo fermale, qualcosa che non si poteva fermare con il
corpo con
la mente. Accantonavamo libri o gli leggevamo insieme, il silenzio non
c’era ed
intanto la primavera arrivava e ci prendeva e ci portava in un caldo
tepore,
quello dei nostri corpi, quello dell’aria. Leggevamo
‘Diari’ ed ‘Ipazia’ ad
alta voce, insieme, sentendo il vento tra i capelli e la pelle che si
cercava,
ma che non si toccava.
Eravamo ancora su
quella panchina, a parlare, a ridere, a
leggere, a studiare, a guardarci mentre gli occhi si cercano
– io cercavo la
tua voce, i tuoi rimpianti, le tue lacrime nascoste, ma non trovavo
nulla,
nulla, nulla,e ti vedevo vuoto accanto a me, impossibile, ma tu mi
guardavi – e
i tuoi occhi erano meravigliosi.
Era grigi, intorno
azzurri e vicino alla pupilla verdi.
Ed erano
così spaventosi, solo guardandoli .
«Luna?»
«Sì?»
«Tu hai
mai avuto paura di quello che sta succedendo. Ci
stiamo guardando negli occhi, ci stiamo parlando, ma siamo Potter e
Malfoy e
per anni hanno considerato impossibile questo. Ho paura che da un
momento
all’altro possa finire. Che tu te ne vada. »
Rimasi spiazzata da
quello che avevi detto e
ti guardai con gli occhi languidi, lenti sulla tua pelle, con le gambe
molli.
«Scorpius
… penso sia diverso da così. Questo non
potrà
mai finire, mai, anche se gli diremo addio. Io e te conserveremo sempre
questo
ricordo, anche se tutto questo finirà .»
E fu il primo
momento in cui ti guarda le
labbra, fini, bianche e rigide. Ti sorrisi.
Non
finirà mai.
I nostri sguardi
erano sempre più ardenti,
l’aria sempre più guardi e le nostre pelli sempre
più vicine. Stavamo attaccati,
i nostri corpi mantenevano il contatto e le nostre mani si cercavano,
ma non si
toccavano (come le nostre labbra).
Era proibito
toccarti davvero, proibito da me
stessa, però. Tu mi guardavi implorando un movimento,
proprio come me.
Quel pomeriggio
stavamo leggendo ‘Orgoglio e
Pregiudizio’ sulla panchina. Eri comodamente appoggiato sullo
schienale della
panchina, con lo sguardo rivolto verso di me, mentre io leggevo
possiata in
avanti sulle mie cosce, ai margini della panchina, con il libro tra le
mani.
Tu mi guardavi e di
tanto in tanto sfioravi –
mi lambivi, per quei momenti proibiti – i capelli rossi. Era
una sensazione
rilassante stare così, seduta all’ombra di un
albero, con il sole che batteva e
che ti andava sugli occhi grigi.
Io ero al mio
quinto anno, tu al settimo,
avevamo due anni di differenza.
Io ero una
Grifondoro, tu un Serpeverde, due posti completamente diversi
l’uno dall’altra.
Eppure, per qualche ragione, ci guardavamo negli occhi –
trapassavamo gli occhi
l’uni agli altri – e mi piaceva guardarti. I nostri
incontri prevedevano una
panchina, un albero ed un libro, e possibilmente anche una buona
manciata di
parole da dire - e
stavamo lì, sicuri di
noi , o meglio, tu sicuro di te, ed io mi stupivo sempre della tua aria
spensierata e così maledettamente tranquilla, fantastica,
vuota, come se non ci
fossero problemi, i problemi che ci dividevano – e
così continuava.
In quel
momento, quello alla parola amore – ricordo
l’imbarazzo, come se fosse stata
una vera dichiarazione fatta a te, te, te, a nessun altro, non avevo
bisogno di
nessun altro – siamo stati interrotti.
«Lily?
Che ci fai qui con lui?»
Ti
guardò con disprezzo, come se potessi molestarmi da un
momento all’altro, ma tu non eri così solo
perché eri un Serpeverde.
«Che te
ne … »
«Stavo
per farmi tua sorella, Potter, qualcosa in
contrario? » ti guardai con gli occhi spalancati mentre
iniziavo a sentire il
cuore che batteva forte nelle orecchie. Albus digrignò i
denti per poi voltarsi
verso di me.
«Lily,
cosa ci fai con il Serpeverde? » Il Serpeverde,
non Scorpius. E fu questo che mi
diede più fastidioso, ma sentii solo
dolore mentre, alle continue frecciatine di Albus rispondevi con
taglienti
frasi.
Alla fine mi alzai
con le lacrime agli occhi, buttando
‘Orgoglio e Pregiudizio’ per terra, davanti ai tuoi
piedi, mentre correvo con
le lacrime agli occhi.
Ma
non era un addio.
Il giorno dopo non
venni da te, non venni, e questo penso
ti fece pentire.
«Lily?
»
Alzai gli occhi
pieni di lacrime verso Charlotte, la mia
compagna di stanza.
« Dimmi
Charlie. »
«Qui
… qui c’è Malfoy, Lily, fuori dalla
porta ed ha
detto di darti questo » mi consegnò un cofanetto
per poi ritirarsi in bagno,
sicuramente a ritoccare il trucco. La scatola era argento satinato,
piccola, e
la aprii con lentezza trovando un bracciare. Era d’argento,
leggero e poco
fastidioso, con solo un ciondolo.
Corsi verso la
porta aprendola.
Una
Luna.
L’anno
era finito, il tuo ultimo anno, la fine del quinto
per me. Non ci potevamo più vedere ad Hogwarts, ma pensavo
sarebbe stato carino
vederci ad Hogsmeade. Anche tu lo pensavi, ricordi? Poi tutto si
è spezzato,
rotto, caduto come l’estate che stava iniziando e la
primavera che ci stava
inondando di petali di ciliegio.
Continuavamo ad
incontrarci sulla panchina, solo lì, e
stavamo seduti senza parlare, senza leggere, senza guardarci.
Ingoiavamo la
pillola, respiravamo e qualche sguardo sfuggente iniziava la sua danza
d’ardore. Non ci eravamo ancora baciati, e se non allora,
quando?
Ma noi non facevamo
la prima mossa, nessuno di noi si
muoveva, ci bastava guardarci negli occhi (per quanto fragile,
spezzante e
frustante fosse guardarci solo
negli
occhi).
L’anno
era passato, finito, come quello che si era creato
tra di noi.
«Finirà,
finirà sempre .»
«Non
finirà se non vuoi . »
«Non
voglio ma … stai per andartene, stai per
andare via, via da me .»
«Non
farò mai finire tutto questo, è ancora
nostro, finché sentiremo ancora le emozioni questo non
finirà .» E poi un bacio
tra i miei capelli rossi senza neve tra le ciocche.
Era
una bugia.
Quell’estate
ci sentimmo via gufo, non ci
andava di tradire la nostra panchina, anche se tu non ti ci potevi
più sedere,
ed io mi rinquoravo del fatto che ci saremmo sentiti, che avremmo fatto
quello
che avremmo fatto con il tempo, che ci saremmo amati poi (anche se
sapevo che
non mi amavi perché mi avevi abbandonata, abbandonata a me
stessa, mi avevi
lasciata sola con un libro che riguardava una filosofa).
Era tutto
così sbagliato, sbagliato sapere
che se ti avessi amato ancora mi sarei fatta del male,
perché Dio, Dio, Dio
… io ti amavo più di
quanto potessi credere, più dei libri, più della
mia stessa vita (che aveva
iniziato ad avere senso quando ti sei seduto su quella maledetta
panchina,
quando mi hai chiamata Luna e quando io ti chiamavo Ius – Ius, Ius,
Ius
… - continuavo a chiamarti Ius, perché tu mi
confondevi, tu eri me, ecco perché
Ius. Io. )
Tuttavia mi piaceva
farmi del male, una forma
di masochismo nascosta dentro il buio del mio cuore, io ero masochista,
lo ero
dal primo momento che mi hai guardato.
Ed ero ancora
più masochista quando,
all’inizio della scuola annunciarono una nuova materia,
Lettere, per invogliare
i giovani di ogni età alla lettura. Era un nuovo progetto,
di prova, per vedere
com’era efficace sui ragazzi, quali svolte positive aveva.
Sicuramente io non
ero molto brava in questo argomento, sicché eri tu il
professore e non avevi un
flusso così tanto positivo su di me.
«Il
professore scelto è stato uno dei
migliori alunni di questa scuola … il signor Scorpius
Malfoy!» alzai di scatto
lo sguardo, allibita, sconvolta, assente, con il terreno che mi
mancava, il
cuore in gola e le lacrime agli occhi mentre tu ti mostravi a tutti,
gli occhi
fiera, la mascella pronunciata e i capelli ordinati.
Non ti guardai, non
volevo guardarti, mi
faceva troppo male, mi stavi facendo troppo male mentre le mie lacrime
si
mischiavano alla zuppa saporita che stavo bevendo. Piangevo, con gli occhi appannati,
mentre Charlie mi
stringeva la mano.
Lei solo sapeva, e
forse era anche un bene.
Ero felice che Albus non ci fosse, che Rose non ci fosse, ma
c’erano Hugo,
Lucy, Charlie e loro potevano capire, ed io non volevo che capissero.
Tu eri una cosa
mia, ti sentivo come una cosa
mia, semplicemente per il fatto che mi eri entrato nel cuore e tutte le
cose
che ti trafiggono il cuore diventano tue.
Tu
però non eri mio, ed io ti sentivo lontano.
Ci incontravamo a
lezione e io tenevo lo
sguardo basso verso il blocco degli appunti, scrivendo con molto
vigore, per
fare le tue parole anche mie.
Erano mie, in
qualche modo, in quel modo
elegante in cui parlavi di ‘Orgoglio
e
Pregiudizio’ de ‘I
fiori del Male’
ed infine il tocco, finale, quello che mi aveva fatto crollare
pesantemente
come cemento.
Ipazia.
Io sapevo
già tutto su di lei e non presi
appunti ed intanto tenevo aperta la mia copia mentre tu leggevi la tua
e
spiegavi i versi. I versi che io sapevo a memoria, che mi avevi
spiegato seduti
sulla panchina all’ombra di un albero di ciliegio.
Non andavo da molto
su quella panchina, più
che altro perché non mi aveva mai accarezzata
l’idea di andarci.
E magari trovare qualcuno, sedermi,
e ricominciare a leggere un libro mai finito. L’idea di
trovarci un altro,
trovare nei suoi occhi i tuoi, di sentire le stesse sensazioni
… non volevo,
non sentivo più le emozioni perché ero troppo
concentrata su quello che avevo
sentito con te.
Poi un giorno, per
caso, ero alla finestra,
quella rivolta verso il giardino, ed il mio sguardo andò
alla panchina dove tu
leggevi, seduto, tranquilla, con il sole tra i capelli.
Il
mio posto era lì, libero, intatto, pronto per me, vicino a
te, come
prima. Ma non era come prima.
«Posso
sedermi, professore?»
Tu mi hai guardata
sorpreso,come se fossi
pazza e hai guardato il posto libero come per acconsentire. Mi sono
seduta
all’ombra dell’albero ed ho aperto il mio libro.
Memorie di una Geisha. Iniziai
a leggerlo ad alta voce, come facevamo prima, interrompendo la tua
lettura,
sperando che non fosse cambiato niente.
Finii il capitolo a
pagina 399 con una frase
fredda e potente.
‘Eravamo
due punti bagnati in mezzo a carboni ardenti’.
Chiusi il libro di scatto
con le lacrime agli occhi, lasciandole cadere sull’asfalto.
Mi accarezzasti i
capelli, scuotendo la
testa.
«Perché
mi hai chiamato professore?»
Decisi di essere
più sincera possibile.
«Non
sapevo come chiamarmi. Non so se è
rimasto tutto come prima, non so se sei ‘Malfoy’
‘Scorpius’ o … » mi
mancò la
voce sotto il tuo sguardo.
«Non
è cambiato niente, Luna.
Chiamami come hai sempre fatto, con il sorriso sulle labbra e
la spensieratezza negli occhi. »
Ius
Era bello stare con
te, mi faceva sentire
protetta e, in qualche modo, amata.
Bello quando mi
guardavi e sorridevi mentre
io leggevo.
Bello a lezione,
quando mi interrogavi senza
fare preferenze in nulla, chiedendomi gli argomenti più
difficili, perché
sapevi che le cose difficili mi avevano sempre spaventate.
E così
il posto in cui ci incontravamo non
era unicamente la panchina ma a lezione. A lezione però non
ci guardavamo negli
occhi, non ci sfioravamo e non ci sentivamo nostri, in qualche modo non
eravamo
noi veramente.
Leggevano
‘Lolita’, quel giorno, sulla
panchina, mentre l’autunno arrancava lento.
Mi cadde il libro e
io mi morsi il labbro
dato che non avevo segnato la pagina, ci eravamo entrambi chinati a
raccoglierlo, di slancio, con forza.
Ci eravamo
scontrati, tu dietro di me, io che
perdevo l’equilibrio per la bocca contro la tua spalla. Mi
hai mantenuta per la
vita e mi sono girata per ringraziarti, ma eri troppo vicino e le
nostre labbra
si sono scontrate violentemente.
Mi hai morso il
labbro ed hai introdotto la
lingua dentro la mia bocca, tra i denti, giocando con la mia mentre mi
stringevi e Lolita se ne stava a terra come se l’avessimo
dimenticato.
Ci staccammo
guardando la prima foglia rossa
dell’albero di ciliegio cadere tra i miei capelli.
E
quella foglia la tengo nascosta gelosamente tra le pagine di Lolita, e
nel mio cuore con i tuoi baci.
Da quel giorno non
ci siamo più baciati,
forse per paura, forse perché un bacio lo devi sentire
– noi l’abbiamo sentito?
– deve essere qualcosa che sale, una voglia nascosta
– abbindolata dal rosso
della carne – ed intanto i giorni, i mesi passavano si
riscaldavano e si
raffreddavano.
Ed era arrivato
all’improvviso il 5 Dicembre,
il giorno in cui si erano visti per la prima volta, il giorno in cui si
erano
guardati negli occhi.
Seduti sulla
panchina, tu con un libro tra le
mani a leggere, io appoggia allo schienale stretta nel mio cappotto.
«Luna?»
fermasti per un momento la lettura,
guardandomi.
«Sì?»
«Stasera
… stasera vieni nella mia stanza, ti
prego .» lo guardai come se fosse pazzo.
«Cosa?»
«Ho
bisogno di parlarti. »
Annuii lentamente.
«D’accordo,
verrò. Verrò .»
«Stai
attenta .»
Era stato qualcosa
di impacciato, improvviso,
una pillola da masticare a poco a poco
-
stare con te, poterti baciare senza avere paura, sentirti, sentirti
davvero,
sentire il tuo cuore battere e poterci posare la mano senza avere paura
di
cadere nella mia stessa trappola, senza sentire i nostri cuori battere
all’unisono – ed era stato tutto così
intenso.
Tu mi guardavi
negli occhi ed io avevo paura
– la paura, dicevi che
era il mio
peggior difetto – però tu mi stringevi, e mi
stringevi forte, e mi sembrava
quasi che non mi volessi abbandonare, che non volessi essere
abbandonato ed
intanto ci guardavamo negli occhi – quante parole ci siamo
detti in quel modo –
e così restavamo. A noi bastava, a te bastava,
perché non volevi da me più di
quanto io potessi darti.
Era bello leggere,
ma era anche bello
leggerti, ed ogni volta eri una scoperta. Ci sarebbe voluta una vita
per
conoscerti, e io ti volevo conoscere, volevo conoscere ogni tua
sfaccettatura,
ogni tuo riflesso degli occhi.
Era una voglia
irrefrenabile – era forte, era
forte e tu mi invogliavi a conoscere, a conoscerti, perché
lo volevi anche tu –
e tu non facevi niente per fermarmi.
E
la cosa peggiore era che mi andava bene così.
Quell’estate
ti chiesi se potevi venire a
casa mia a conoscere i miei. I miei genitori ti dovevano conoscere
– conoscere
come ti avevo conosciuto io, come una persona, non come il figlio
dell’uomo con
il Marchio Nero sul braccio – e così decidemmo la
data.
All’inizio
non dissi a mamma, papà e i miei fratelli chi
eri, volevo che fosse una
specie di sorpresa. Ma quando ti videro ti riconobbero subito
– forse per la
somiglianza, forse perché il tuo sguardo impaurito gli aveva
ricordato lui,
anche se tu non eri tuo padre. Furono così freddi con te che
mi vergognai di
loro. Sapevano che eri un professore, ma tu avevi detto che non avrei
lavorato
ad Hogwarts l’anno seguente quindi era tutto in regola.
Dovevo frequentare
il settimo anno, ero
spaventata ma tu mi aiutavi a studiare.
Eravamo in camera
mia, i miei genitori
probabilmente non erano molto d’accordo, e avevamo iniziato a
leggere.
«Luna?
»
«Sì?
»
«So di
non essegli piaciuto .»
Mi avvicinai piano
a te e ti baciai
delicatamente. «Piaci a me . »
Fu
la prima volta che vidi il tuo sorriso triste.
I miei genitori mi
proibirono di vederti, e
io non capivo perché. Non eri una persona pericolosa, per
niente, e continuavi
a stare con me, continuavi ad amarmi, e io mi stupivo ogni volta, come
un colpo
al cuore, ma tu sapevi di non piacere ai miei genitori, e lo sapevi
così bene
che mi faceva male al cuore.
Capitò
alla fine dell’estate, eravamo nel
giardino di casa mia e stavamo sgranocchiando dei biscotti al
cioccolato
sporcandoci i denti.
Stavamo
raccogliendo citazioni e continuavamo
a scrivere sul quaderno delle
citazioni, come una raccolta silenzionziosa e preziosa, ed intanto
continuavamo
a sentire le parole sulla nostra pelle.
Avevo iniziato a
scrivere, scrivere davvero,
scrivere storie, novelle, racconti – qualcosa di vero che
somigliava a noi –
però tu non lo sapevi.
Non
credo ai principi e alle belle addormentate,
ai vissero felici e contenti. Credo alle persone che si sopportano. A
quelli
che maledicono il giorno in cui si sono incontrati. A quelli che si
odiano e si
amano nello stesso tempo. Quelli che nonostante tutto continuano ad
amarsi, in
quel modo che nessuno sa.
«È
strano trovare
delle citazioni anonime che rispecchino tutto quello che hai vissuto,
hai
sentito sotto la tua pelle come un marchio … è
davvero strano .»
«Credi? Beh, si è vero, ma non ti fa sentire solo.
Sai che qualcun altro ha
provato le tue stesse emozioni, ed è come se le tue emozioni
fossero trasparite
da qualcun altro, sai, secondo me è perfetto quello che si
forma in noi quando
ci si innamora. È per questo che si scrive .» ti
guardai, la tua risposta era
stata più che esauriente.
«Un bacio
è diverso
invece .» sussurai abbassando lo sguardo. Il tuo sorriso mi
aveva illuminata.
«Un bacio
lo devi
sentire, giusto? Secondo me sì, non bisogna baciare
perché si ha bisogno di un
contatto, non ci devi pensare ad un bacio, non c’è
cosa più stupida che tu
possa fare. Un bacio vero e quando non te ne accordi, quando ti trovi
con gli
occhi socchiusi e la mente annebbiata. Un bacio ti deve far innamorare.
»
Sorrisi leggermente
e
tu sorridesti a tua volta.
«Sai
cosa?» mi
guardasti incuriosito. «A volte mi pento del nostro bacio,
perché è stato lui a
farci innamorare, nonostante tutto .»
Mi guardasti in
silenzio, ma sapevi cosa intendevo.
Avrei
preferito avere un solo respiro dei suoi capelli, un solo bacio della
bocca, un
solo tocco della mano che stare un'eternità senza.
Non era il tempo
per
gli addii, davanti a King Cross, guardandoci negli occhi.
Mamma era malata e
tutti erano a casa e così io ero rimasta sola e tu ti eri
offerto di
accompagnarmi.
«Non
è tempo di
addii, Luna .»
«Mi fai
un favore?
Uno piccolo .»
«Dimmi
… »
«Chiamami
Lily, solo
per oggi .»
«D’accordo
…
comunque, dimenticavo .» ti eri posizionato davanti a me con
occhi ansiosi.
«Sì
… ?»
Ti abbassasti
leggermente. «Buon compleanno .» Nessun bacio,
nessuno, ci bastava guardarci
negli occhi.
Mi ritrovai le tue
labbra sulle mie all’improvviso, e sentii quel bacio, lo
sentii nelle orecchie
piene di bisbigli, negli occhi socchiusi e nella carne tiempiba
– la tua carne,
il tuo corpo, il tuo tepore – e seppi cosa voleva dire
davvero un ‘bacio
sentito’ un ‘bacio voluto’. Sapevo che ci
stavano guarando, ma non importava,
ed intando continuavo a stringere i tuoi capelli tra le dita,
stringergli
forte.
«Sai
cosa? »
«Cosa?
» il tuo
sguardo era confuso ed io sorrisi.
«Ti amo.
» mi
guardasti imbambolato mentre io salivo sul treno senza guardati.
Non
avevo aspettato una risposta, sapevo che mi
amavi, non avevi bisogno di sentirlo. Perché ci sono persone
che lo dicono e
che non lo dimostrano e altre che lo dimostrano ma non lo dicono.
Amavo i tuoi baci.
Amavo sentire sulla mia
pelle, sulle mie labbra le tue ed amavo il modo in cui mi trattavi.
Mi trattavi come un
fiore, come un oggetto
speciale, come un qualcosa che si può rompere, ma tu mi
aiutavi a non richiare
di schiantarmi rovinosamente.
Era bello sentirti
– per quanto raro potesse
essere – e ti sentivo così poco spesso che speravo
che il cuscino su cui mi
accavallavo per dormire.
Ed era bello anche
guardarti – sapere che
qualcosa è tuo, tuo, tuo,
incodizionatamente tuo e che nessuno potesse abbandonarlo toglierlo dal
cuore –
e, onestamente, tu eri una visione per nulla brutta.
Ci eravao trovati
di nuovo sulla panchina,
con il permesso della preside eri venuto, ed eravamo rannicchiati
lì tra il
vento, io con la neve tra i capelli e tu che mi stringevi a te.
Ed intanto ti
guardavo negli occhi. E gli
guardavo gli lambivo – erano grigi, grigio freddo, mi
congelavano ma erano
ardenti, io gli volevo, gli volevo e ti volevo, ti volevo, volevo
baciarti,
toccarti, esplorarti perché tutto quello che era mio lo
volevo conoscere e non
ti conoscevo – maledetta breve vita
–perché non sarebbe bastata solo una vita
per osservare tutte le tue sfaccettature .
Ed
intanto il tuo sguardo mi lambiva, le tue mani ardevano e le tue
labbra si muovevano inesorabili sulle mie.
Avevo iniziato a
scrivere davvero, piccole
storie, semplici, quelle con cui si inizia qualcos’altro
– qualcosa di più
grande, più importante, più profondo –
e quello era il mio inizio.
Aprivo il quaderno
delle citazione – le
sapevo ormai a memoria, me le avevi fatte imparare perché
erano impresse nei
fatti – e così scrivevo, scrivevo …
Le vacanze di
Natale erano imminenti e la mia
compagnia di stanza, Charlie, era malata e quindi si trovava in
infermeria.
Tuttavia tu eri
lì, vicino alla finestra
aperta con i capelli scompigliati e la giacca pesante.
«Scorpius
… » mi ero alzata dal letto e mi
ero avvicinata. «Che ci fai qui?»
Tu mi hai sorriso e
la stanza si è quasi
illuminata per il tuo sorriso. «Sono felice di essere
così bene accetto … » hai
scherzato ed io mi sono buttata su di te, avvinghiandomi al tuo petto e
ti ho
baciato il collo.
Hai riso e mi hai
sollevata con forza prima
di metterti sul letto accanto a me. Ti ho guardato con
severità .
«Togliti
le scarpe .» hai sbuffato ma hai
obbedito, poi ti sei tolto la giacca di pelle rimanendo in maglia
grigio chiaro
a maniche lunghe.
«Posso
entrare?»
Ti ho sorriso e ti
ho fatto avvicinare al
margine del letto facendoti sedere.
«Come sei
arrivato qui?»
Tu alzasti le
spalle, come se quello che
avevi fatto fosse una cosa normale. «Esperienza.»
Ho scosso la testa,
rassegnata.
Hai guardato oltre
di me e hai visto il quaderno
ad anelli in cui scrivevo. «Posso leggere?»
Abbassai lo
sguardo, non volevo risponderti,
sapevo che ti avrei ferito e tu hai annuito dandomi un bacio sulla
testa.
«Non
preoccuparti, Lul .»
Mi hai dato un
bacio sul naso, che io ho
prontamente arricciato e tu hai sorriso.
Le parole erano
come la mia essenza, la cosa
che nessuno poteva leggere, sentire sulla propria pelle.
Perché le parole sono
efficaci, sono violente, ti graffiano come l’amore, e non
c’è meglio delle
parole per descrivere i graffi, la violenza …
l’amore. I baci sono qualcosa di
relativo nell’amore, il sesso è qualcosa di
relavito, sono tutti miscugli di
appagamento corporeo che coinvolge, in un modo o nell’altro,
anche la mente.
Ecco
perché non volevo farti leggere.
Le
parole ti avrebbero corroso, e tu eri la mia roccia, eri il mio
centro.
E non avere un
centro mi
spezza il cuore […]
-Agorà
“Anche
se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei
potuto dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell’amore,
credo.La parola è
danno. L’amore non è quello che i poeti del cazzo
vogliono farvi credere.
L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono
mai. Nessuna
parola, nessuna combinazione di parole, può chiudere le
ferite d’amore. È tutto
il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si
asciugano,le parole
muoiono con loro.”
—Stephen King