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Autore: Fanriel Kerrigan    28/07/2013    1 recensioni
Con uno scatto veloce, la sua mano andò ad estrarre il pugnale appeso alla cintura.
Impediscimi di farlo, adesso!
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOTE: questo testo è stato pubblicato ma la pubblicazione è stata ritirata dagli scaffali per mio volere quindi ho riacquistato i diritti sull'opera. Sono qui per raccogliere opinioni su ciò che ho sbagliato al fine di migliorare il lavoro.

Sefron era un piccolo villaggio nascosto nelle nevi gelide delle Terre dell'Est.

Dall'esterno si scorgevano solo le mura grigie, costruite di massiccia pietra dagli antichi per tenere lontani i lupi e gli altri pericoli provenienti dalla Foresta, ma una volta valicato il cancello di ottone massiccio, le piccole e graziose case abbracciavano la vista dei viaggiatori.

Le vie acciottolate di Sefron erano strette e coperte di ghiaccio e neve, e si inerpicavano contorte tra le umili abitazioni dei laboriosi sefroniani, fino al Grande Palazzo d'Ebano, sede del potere.

L'accesso al Palazzo era riservato alle Sette Stelle e alle loro famiglie, e soltanto in occasioni eccezionali, come l'elezione di una nuova Stella , era ammessa anche la popolazione.

Le Sette Stelle erano i condottieri di Sefron, sette anziani saggi che si occupavano della gestione economica, politica e militare della città.

La loro nomina avveniva in via ereditaria oppure, in casi estremamente eccezionali, poteva avvenire per via fiduciaria: l'ordine delle Sette Stelle, doveva rimanere comunque alle sette famiglie prescelte, almeno per la durata di quell'Era.

Il grande palazzo in cui avevano sede era una costruzione meravigliosa e grandiosa, eretta utilizzando materiali che non erano facili da trovare, che provenivano da terre di cui solo le leggende parlavano.

L'ordinamento gerarchico era molto severo, immutato da tempi di cui si era perduta la memoria: il primo capo assoluto dell'ordine era la Settima Stella, e via via a scendere fino alla Prima Stella, colei che aveva il compito minore di riferire al popolo ciò che si era discusso in assemblea.

La Settima Stella era, ai tempi del lungo e crudele inverno di Sefron, Gada lo Stregone, un uomo anziano e burbero, dall'aspetto slanciato ed elegante e dal viso segnato dal freddo e dalle esperienze della vita.

Era l'unico delle Sette Stelle a vivere nel palazzo d'Ebano, assieme al suo unico figlio: Celtern.

Gada non aveva moglie, a Sefron non avevano mai visto nessuna donna assieme a lui, e ciò non faceva che alimentare leggende sull'origine divina di Celtern, che crescendo si rivelava un ragazzo pieno di risorse e di talento, e si vociferava che un giorno avrebbe superato il padre in grandezza.

Ma la verità era assai più triste: la moglie di Gada era morta mettendo al mondo Kohorlberl, ed era questo uno dei motivi che spingeva il padre ad odiare immensamente il figlio.

Già a 10 anni, il giovane era molto alto, robusto e bello, e si ribellava spesso agli insegnamenti del padre, che più tentava di tenerlo a bada, più sentiva che un giorno lo avrebbe perduto.

Celtern avvertiva il rancore del padre verso di lui, pur essendo ancora un bambino, e per questo aveva sviluppato un carattere ribelle e fiero, conservando comunque l'eleganza della stirpe più antica e regale delle terre dell'Est.

Il padre circondava il figlio dei migliore maestri di Sefron, anzi, spesso provenienti anche da terre straniere, per istruirlo sulla strada della giustizia e della virtù, cercando di fare di lui uno stregone maturo, equilibrato, che un giorno avrebbe guidato la città di Sefron al posto suo.

Gada cercava a fatica di nascondere il rancore che nutriva nei confronti del ragazzino, che apprendeva molto velocemente gli insegnamenti che gli erano impartiti, e diventava ogni giorno più bravo, apparentemente senza mai stancarsi troppo.

Accanto a Gada lavorava Conel, la Sesta Stella, seconda in ordine di importanza, ma che spesso si rivelava una risorsa insostituibile, senza la quale alcune crisi, come le epidemie che periodicamente investivano la città, non sarebbero mai potute essere superate.

Conel era un’anziana donna, molto silenziosa, che sceglieva con attenzione le parole da pronunciare, ed era affezionata al burbero Gada, nutrendo comunque un a grande compassione per il piccolo Celtern, quando spesso accadeva che Gada lo punisse, senza nessun motivo apparente.

Nessuno più di lei era mai stato così vicino a Gada dopo la morte di Mayre Midelin, e nessuno meglio di lei poteva capire la sofferenza dell’uomo.

Lei era quasi una madre per Celtern, e cercava di stargli vicina, sempre limitandosi, per non fare infuriare Gada.

 

Accadde una sera, quando nel palazzo delle sette stelle era già calata la notte, e il piccolo Celtern, dopo una giornata di allenamenti e sacrifici, stava a dormire nel suo letto, che la porta d’ebano del palazzo si spalancò, facendo entrare la brezza frizzante della crudele notte di luna piena.

I passi incostanti e appesantiti di Conel, percorrevano affannosi il corridoio, svegliando il ragazzino, che però non si mosse dal letto.

Gada corse incontro a Conel, allarmato dall’incursione improvvisa della donna nel palazzo.

Celtern sentì le loro voci confuse, poi un silenzio meditabondo.

Conel aveva qualcuno con sé, l’aveva portato in braccio sino a lì, dicevano, l’aveva trovato sul ghiaccio del laghetto ad Est, illuminato dai raggi della luna.

Se non fosse stato per la luna che si rifletteva sulla cotta d’argento che indossava, diceva la donna, quasi piangendo, lei non l’avrebbe mai visto.

Gada diceva che il bambino era freddo, ma non era ancora morto, il cuore batteva ancora.

Poi ancora rumore di passi, l’udito affinato di Celtern sentì che stavano portando il nuovo ospite nella sala ospedale del palazzo, poi ci fu il rumore della pesante porta che si chiuse, e alla fine più nulla.

Celtern non dormì più, quella notte, agitato: sentiva che il nuovo ospite non avrebbe portato niente di buono.

Nella notte fredda e buia di Sefron, il ragazzino si alzò, uscì dalla stanza, silenzioso come un gatto, attendendo che tutte le luci del palazzo si spegnessero, percorse tutti i corridoi, nel silenzio, fino alla stanza ospedale.

Aprì la pesante porta d’ebano, facendola scorrere lentamente sui cardini, e per un attimo temette che nella stanza ci fosse qualcuno, ma poi vide che c’era soltanto il buio, tagliato da una lama di luna che andava a colpire il viso del nuovo arrivato.

 

Il bambino era un po’ più piccolo di lui, con i capelli neri, e lunghi, il volto magrissimo, le dita che sembravano ragni che spuntavano dal lenzuolo di seta.

Dormiva, le palpebre erano viola per il freddo, sotto le coperte era nudo, accanto al letto, su una sedia era adagiata la cotta d’argento, che scintillava alla luce della luna.

Celtern si avvicinò, e la toccò, e il metallo gli rimandò una piccola scossa, come di elettricità, scatenando in lui la stessa sensazione di rabbia di quando non gli riuciva un incantesimo.

Guardò malamente il ragazzino che dormiva sotto le coperte, il cui respiro era talmente silenzioso da averlo indotto quasi a crederlo morto, e riprovò a prendere in mano la cotta d’argento, in virtù di quella testardaggine che l’aveva caratterizzato da sempre.

Non riuscì a carpirla, anzi, la scossa fu talmente dolorosa da fargli emettere un gemito sordo, non particolarmente rumoroso, ma che svegliò il bambino addormentato sul letto.

Celtern si girò, spaventato.

E vide che quel ragazzino aveva degli occhi azzurri che sembravano le profondità dei ghiacciai a nord di Sefron, quei ghiacciai in cui una persona è in grado di perdersi per non tornare mai più, e ne fu spaventato.

Lo sapeva che il nuovo ospite non avrebbe mai portato nulla di buono.

Aveva paura di quel viso così magro, di quei capelli neri come la notte più scura, e di quegli occhi, così gelidi, così freddi, quasi non ci fosse in essi alcuna emozione.

-Chi sei?- gli chiese Celtern, cercando di nascondere ogni emozione che provava dentro, e mantenendosi ad una rispettosa distanza dal letto.

-Tai-berl- gli rispose secco il ragazzino, con una voce roca e sommessa, e un tono freddo quasi quanto il suo sguardo di disprezzo.

Celtern pensò al nome. Taiberl. Specchio della fenice. Un nome proveniente dalla lingua degli antichi.

-E tu chi sei?- chiese Taiberl, con un tono che Celtern cominciava a trovare parecchio irritante.

-Sono il padrone di questo palazzo.- rispose stizzito l’altro, che aveva cominciato a camminare nervosamente attorno al letto quasi fosse un lupo che circondasse la preda.

In realtà era lui che si sentiva una preda, con quegli occhi azzurri che non lo lasciavano andare un istante.

Dal corridoio provenivano dei rumori, e Celtern sparì all’istante dalla stanza, rimaterializzandosi nella sua camera.

Aveva il fiato corto, si sentiva le gambe molli, e fuori la luna stava andando verso l’orizzonte, mentre la luce del mattino si avvertiva debole ad Est.

Aveva in mente Taiberl, quegli occhi così crudeli, e quella voce sprezzante.

Non si rendeva conto che la sua vita sarebbe completamente cambiata.

  
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