Fumetti/Cartoni americani > Teen Titans
Segui la storia  |       
Autore: DigitalGenius    31/07/2013    6 recensioni
Garfield arrossì lievemente. Non poté evitare che il cuore gli si fermasse, nel guardarla, anche se non era la vera Raven.
«Allora, cosa ti porta qui?» gli domandò lei sorridendo.
Garfield dischiuse le labbra per risponderle. All’improvviso tutti i suoi piani, tutti i discorsi a cui aveva pensato per riportare Raven tra i Titans, sembravano inutili. Chinò lo sguardo e strofinò per terra una suola della scarpa.
Sentiva quegli occhi addosso a sé e quello sguardo lo trafiggeva.
«Dov’è che sono le altre emozioni? Potrei parlare con alcune di voi?» esordì all’improvviso agitando le punte delle orecchie.
Coraggio scrollò le spalle. Il sorriso le si spense mentre si avvicinava al bordo del precipizio su cui si trovavano. «Loro non verranno» annunciò rassegnata. «Si vergognano»
«Perché dovrebbero?» le domandò il ragazzo seguendola. «Sono sempre il buon vecchio Beast Boy, credevo di piacere almeno alla metà di loro»
«Tu ci piaci» lo tranquillizzò lei nel vederlo quasi nel panico. Gli sorrise. «Diciamo che non sono pronte ad incontrarti. O almeno non lo sono la maggior parte di loro»
«Perché?» domandò Garfield mogio. «Perché loro no e tu sì?»
«Perché?» ripeté lei. «Perché io sono il Coraggio»
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beast Boy, Raven, Robin, Starfire
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il vento che soffia via la normalità

Il mercoledì sera era uno di quei momenti dove nella T-Tower dovrebbe regnare il silenzio più assoluto, interrotto solo dal frusciare dei fogli che i Titans stavano smistando in tre mucchi precisi: pubblicità, messaggi da ignorare e quelli a cui rispondere.
Kori l’aveva soprannominato con il sorriso sulle labbra “il giorno dei fans”. Le piaceva ricevere quelle lettere da parte di bambini entusiasti che dichiaravano di voler diventare, un giorno, degli eroi proprio come loro. Avere tra le mani un messaggio come quelli, per lei, era l’equivalente di una carica di energia.
Per Garfield – e per il resto dei ragazzi – mercoledì significava stare svegli fino a tardi per passare lunghe ore di noia, scoccò uno sguardo ai due scatoloni colmi di buste di vari colori. Essere costretto ad abbandonare i suoi amati videogiochi o rallentare il suo lavoro sullo storyboard di Black Wing non gli piaceva, per lo meno, cercava di far fruttare il più possibile quelle ore.
Un ghigno divertito gli si allargò sul volto, si alzò dal divano e tossicchiò «Magda, 57 anni» soffocò una risata mentre Victor e Richard gli scoccarono uno sguardo perplesso. Kori, invece, tenne gli occhi incollati sulla lettera che stava leggendo.
«Signor Cyborg, sono stanca di nascondere questi sentimenti a me stessa» Garfield si mise una mano sul petto e incrinò la voce, quasi a voler aggiungere un tono melodrammatico. Il mezzo robot sbiancò, non era la prima volta che arrivava una lettera di quel tipo: era perfettamente conscio di dove sarebbe andata a parare. «Mi sono innamorata di lei quando mi ha salvato alla metropolitana, ricorda lo sguardo intenso che mi aveva lanciato? Da allora non l’ho più dimenticata» Garfield emise un lieve sospiro «Vorrei che lei mi concedesse una possibilità e se non si sente ancora pronto, le prometto che l’aspetterò» si voltò verso Victor, ora l’espressione affranta era stata sostituita da un sorriso «Sempre».
L’interessato gli strappò la lettera di mano, posizionandola nel mucchietto di lettere a cui non dovevano rispondere «Mai» esalò, infastidito e imbarazzato.
Kori fece un lungo sospiro, intenerita «Che dolci» disse.
Garfield e Victor le scoccarono uno sguardo perplesso «Noi?» domandarono, all’unisono; Richard trattenne a stento una risata.
L’aliena alzò gli occhi dal proprio foglio, confusa «Voi?» ripeté. Scrollò le spalle e rivolse di nuovo l’attenzione alla lettera «Questi Andrew e Thomas sono dolcissimi! Guardate» indicò il foglio dove i bambini avevano disegnato tutti i Titans.
I ragazzi annuirono mentre Kori, entusiasta, metteva la lettera nella pila dei messaggi a cui rispondere. «Pubblicità, pubblicità, pubblicità» mormorò Richard, sfogliando un malloppo di carta arancione, si bloccò e passò il foglio al ragazzo verde «Per Changeling».
Garfield annuì, prese la busta bianca, lievemente spiegazzata, tra le mani e la aprì. Era il messaggio di un ventenne che, a quanto pare, seguiva i Titans fin da quando erano stati fondati. Si complimentava con loro per il lavoro che facevano, diceva che li stimava – alzò gli occhi al soffitto, era il tipo di lettera che considerava noiosa – e che aveva solo una domanda da porgli.
“Come mai hai smesso di farti chiamare Beast Boy, Changeling?”
Garfield si passò la lingua sulle labbra secche, l’idea di rispondergli “non sono affari tuoi” lo colse per un attimo. Serrò la mascella, poi, controvoglia, mise il messaggio tra le lettere a cui rispondere. Non che ci fosse un grande segreto dietro al suo nome, semplicemente era cresciuto ed erano cambiate troppe cose perché lui si potesse chiamare ancora Beast Boy.

Jeremy sferrò un calcio ad una lattina rossa che andò a sbattere contro lo scivolo del parco giochi, un tonfo spezzò la monotonia del rumore del traffico cittadino. A quell’ora del mattino, i commercianti stavano a malapena iniziando ad alzare le serrande dei negozi. Era l’unico momento della giornata in cui poteva godersi un po’ di calma.
Il ragazzino si morse il labbro inferiore, si tolse il guanto e raccolse la lattina. La mano si colorò di un’aura nerastra, l’alluminio s’accartocciò su se stesso e prese un colorito ramato. La nebbiolina scura svanì, ora nella mano del ragazzino era rimasta solo sabbia. Mosse la mano e fece disperdere i granuli sul prato.
Si rinfilò il guanto, non lasciare tracce, si ripeté. Chiuse gli occhi, l’irritazione gli pulsò nelle tempie e si espanse per tutto il capo, prese un grosso respiro nella speranza di calmarsi. Ringraziò l’assenza di altri esseri umani perché, per ora, non aveva la minima voglia di sentire le loro emozioni rimbombargli in testa. Troppa confusione e, teoricamente, doveva concentrarsi.
Scrollò le spalle e soffocò un’esclamazione di stizza. Aveva battuto palmo a palmo il parco ma non era rimasto nulla del loro passaggio «Bah, tanto meglio».
Slacciò la cerniera della felpa; anche se soffiava una brezza piacevole, la temperatura stava iniziando ad alzarsi. Pensieri confusi gli riempirono la mente, desiderò potersi sdraiare sul proprio letto e smettere di pensare. Quando la città si risvegliava, non riusciva a contenere gli effetti della sua capacità empatica. C’erano troppe sensazioni da dover ignorare.
Un letto dove dormire, eh. Un sorriso ironico gli increspò le labbra. Frammenti di conversazione tra lui e i suoi fratelli gli affollarono la mente. Volti, sguardi seri, i rari sorrisi incoraggianti. Erano venuti in quella città con un solo scopo, dopo se ne sarebbero andati o avrebbero intrapreso strade diverse. Quel legame che li univa era troppo debole per poter durare a lungo.
Scrollò il capo, ciuffi neri gli ricaddero sugli occhi, lì soffiò via, seccato. Aveva voglia di prendere a pugni qualcosa, l’alternativa, era vedere il mondo trasformarsi in sabbia tra le sue dita. Poteva farlo, se lo desiderava.
Guardò i guanti neri che gli coprivano le mani, bastava un istante per disintegrarli. Serrò la mandibola, una sottile irritazione lo avvolse, artigliandogli il capo. Frustrazione, rabbia, le sensazioni gli colarono sulla schiena fino a gelarlo.
Non erano sue emozioni, realizzò.
Si guardò in torno – diamine – si massaggiò una spalla, a disagio. Lì avrebbe dovuto incontrare i suoi fratelli, non aveva nemmeno la possibilità di andarsene per sottrarsi a quelle sensazioni. Devo distrarmi, si disse. Batté la punta della scarpa sul marciapiede; con un rumore di ferraglia, la serranda di un bar s’alzò. Si mordicchiò il labbro inferiore, la rabbia sembrò iniziare a scorrergli sottopelle. Si stava logorando e lo stava facendo troppo velocemente.
Una macchina sportiva sfrecciò in mezzo alla strada anche se il semaforo era rosso, la vide seguire un percorso a zigzag e rischiare di scontrarsi con un altro veicolo. Il peso che gravava sul petto di Jeremy s’alleggerì, inspirò fino a gonfiare i polmoni d’aria tiepida.
A pochi metri da lui c’era un’edicola di dimensioni modeste, il proprietario stava tirando fuori gli espositori dei fumetti. Jeremy si toccò le tasche, se ricordava bene aveva qualche spicciolo con se. Se avesse comprato qualcosa da leggere e avesse concentrato i pensieri su quello, magari si sarebbe liberato completamente da quella sensazione pressante.
S’avvicinò al primo espositore, c’erano manga con copertine colorate e fin troppo appariscenti per i suoi gusti. Riconobbe come unico titolo “Naruto” ma non era mai stato interessato a quelle chiacchiere inutili sull’amicizia e i buoni sentimenti.
Sospirò e passò lo sguardo sull’espositore dei fumetti. I colori erano meno netti, le copertine erano più varie e mature: Ironman, Hulk, i vendicatori. Tutti nomi noti e che, ancora una volta, non l’avevano mai interessato.
Black Wing.
Si trattava di un volumetto in fondo all’espositore, nascosto dall’ultimo numero di Deadpool. Non era un titolo interessante, nemmeno lo stile di disegno brillava eppure c’era un dettaglio della copertina che l’attirava. Un ragazzo girato di schiena, dei dettagli della sua armatura si potevano notare a malapena i bracciali argentati, fissava un essere distante ammantato di nero.
Jeremy tirò fuori dall’espositore il volumetto, concentrò lo sguardo sulla figura: esile, era avvolta da un mantello fatto di piume nere con sfumature azzurre, lo sguardo rassegnato, gli occhi nascosti dai capelli corti, violacei.
Questa è – Jeremy sbatté le palpebre, sconcertato dal pensiero stupido che gli aveva attraversato la mente – Raven?
Una mano lo colpì al petto, il ragazzino arretrò di qualche passo. Alzò lo gli occhi, confuso; il proprietario dell’edicola gli stava lanciando occhiate severe e infastidite «Che ci fai fuori a quest’ora?» chiese, secco. Di nuovo la rabbia si rovesciò su Jeremy come una doccia fredda. Frustrazione, rabbia e irritazione.
Si rese conto, con orrore, che era finito proprio vicino alla fonte di quei sentimenti negativi che voleva evitare. Strinse i denti, lo stomaco si stava contorcendo, la presa su Black Wing si fece spasmodica «Non sono affari che ti riguardano» replicò.
L’uomo strabuzzò gli occhi «Tu guarda-!» incrociò le braccia e gli rivolse un’occhiata severa «Hai tra la mano la mia merce, se la rovini dovrai pagarla» un ghigno divertito gli si allargò sul volto «Come se voi ragazzini di strada poteste farlo» il tono era tronfio.
La frustrazione che pressava il cuore del ragazzino stava scemando, un senso di autocompiacimento e di vittoria lo stordì. Quell’uomo lo stava usando come valvola di sfogo, pensò Jeremy. Tremiti gli mossero il petto, strinse la mano che non reggeva Black Wing, il guanto si stava disfacendo fino a trasformarsi in sabbia. «Non parli?» l’uomo rise, sarcastico «Vi si riconosce ad occhio, sai? Sempre a girare di prima mattina, pronti a rubare ad ogni onesto cittadino. Non vi guadagnate niente di quello che possedete» gli strappò il volume dalla mano «Visto com’è rovinato? Ora non posso venderlo!» lo spintonò «Come pensi di ripagarmi?».
Una pulsazione, Jeremy avvertì la testa in fiamme, l’ennesimo tremito, la vetrata di un bar andò in pezzi e sparse frammenti per la zona. Il senso di autocompiacimento scemò, non c’era nulla. Solo la rabbia cieca che gli consumava la pelle e lo logorava con la potenza di una vampata di fuoco.
L’ululato del vento soffocò ogni suono, il silenzio che desiderava era a portata di mano. I guanti si dispersero nel nulla. Cadde in ginocchio, faticava a respirare. Si mise le mani sul volto, frustrato con se stesso per aver, di nuovo, ceduto alla propria rabbia.
Il volume di Black Wing fu trascinato nel centro della tempesta, si sfilacciò per poi diventare sabbia.

Richard batteva con impeto sulla tastiera del portatile, mentre segnava concentrato i punti principali dell’addestramento del resto del mese.
Gli piaceva svolgere questi compiti di prima mattina; solitamente il resto della giornata se ne andava per ricerche, allenamenti pratici e – raramente – perdite di tempo.
Alle spalle del Ragazzo Meraviglia, Victor armeggiava con i fornelli tra bacon e uova fritte. Sul bancone aveva già preparato i bicchieri e la brocca con il succo di frutta, ed i piatti erano impilati dall’altra parte, pronti ad essere riempiti.
La routine quotidiana prevedeva questo. I due ragazzi erano sempre i primi ad entrare nella sala principale. Victor si occupava del cibo, solo raramente Richard decideva di prendere il suo posto. La terza ad arrivare era Kori, il più delle volte, che scendeva a fare colazione solo dopo aver sorvolato l’isola un paio di volte solo per crogiolarsi al sole. Per quanto riguardava Garfield, invece, le sane abitudini della Torre prevedevano che si aspettasse almeno fino a metà mattinata. Era raro che i ragazzo si facesse vedere tanto presto. Kori aveva scoperto a sue spese, alcuni mesi prima, che il tempo che trascorreva il mutaforma dall’alba alla tarda mattinata non era affatto perso come gli altri avevano sempre pensato.
Garfield aveva preso l’abitudine di allenarsi da solo nella sua stanza prima ancora di fare colazione. Nessuno l’avrebbe scommesso, ma il ragazzo passava almeno due ore tra flessioni e piegamenti vari.
Se Cyborg l’avesse saputo non ci avrebbe mai creduto.
Quando, quel giorno, Kori entro nella sala principale, aveva i capelli più scompigliati del solito.
Richard la accolse con un sorriso, vedendola quasi saltellare nella sua direzione.
«Buongiorno ragazzi!» esclamò la tamariana con un sorriso che avrebbe sciolto anche l’iceberg che aveva affondato il Titanic.
«Giorno Kori» le rispose Victor poggiando sul tavolo la brocca con il succo. Lei lo affiancò per prendere i bicchieri, poi sfrecciò al fianco di Richard, per posargli un leve bacio sulla guancia mentre lui le diceva: «Buongiorno, Principessa».
La ragazza gli fece l’occhiolino, poi gli sfilò dalle mani il portatile, spostandolo dall’altra parte del tavolo. Victor poggiò il piatto colmo di uova e bacon proprio dove prima c’era il computer del ragazzo, poi sistemò l’altro nel posto al suo fianco, per Kori.
«Allora, buon appetito!» esclamò esaltato afferrando coltello e forchetta.
«Grazie per la colazione» canticchiò Kori versandosi del succo nel bicchiere.
«Si, grazie Vic».
Il ragazzo fece un semplice cenno, affamato, e portò una mega forchettata di bacon alla bocca, senza quasi preoccuparsi dell’olio che gli colava giù per il mento.
Mentre Victor spazzolava il contenuto del suo piatto senza pietà e Kori spiluccava educatamente il suo Richard decise di esporre le sue perplessità. «Dovremmo fare una sessione di addestramento intensivo, credo. In queste ultime settimane ce la siamo presa con calma e non ci sono stati neanche tanti problemi giù in città, non vorrei che perdessimo l’abitudine e ci trovassimo impreparati».
Kori annuì semplicemente; avrebbe accettato di buon grado tutto ciò che il ragazzo avrebbe proposto, Victor sospirò rassegnato. «Lasciami almeno fare colazione in pace, Iettatore»
Kori si grattò una guancia divertita; scene come quella erano un’abitudine della mattina da Titans e nessuno di loro le avrebbe cambiate per nulla al mondo.
Richard aprì la bocca per ribattere, ma l’allarme gli impedì di parlare, coprendo anche il suo sussulto stupito. Mentre le luci rosse lampeggiavano per tutta la Torre non poté che sussurrare a sé stesso «Sul serio, di prima mattina?».
«Ti hanno mai detto che se qualcuno dice che una cosa può andare storta questa lo farà?» rimbeccò Victor alzandosi indispettito.
Lasciarono la tavola così com’era, corsero in corridoio a rotta di collo mentre Robin ordinava risoluto: «Mettetevi il costume, ci vediamo in garage tra non più di tre minuti».

Cyborg fece inchiodare la T-Car nel bel mezzo della strada, appena in tempo perché un vecchio bastone da passeggio, ammaccato, si schiantasse contro il parabrezza.
«Da qui si prosegue a piedi» annunciò a Robin con un cenno d’intesa.
Una volta in strada i due notarono soddisfatti che i due amici, arrivati in volo, li avevano preceduti e già vagliavano la situazione con sguardo pratico.
Changeling, sfruttando la sua vista di falco, osservava attentamente lo strano vortice d’aria attorno cui la polizia si era schierata, nel tentativo di contenere un attacco di cui non riusciva neanche a comprendere le dinamiche.
Gli agenti si strinsero tra loro ed avanzarono, tentando di superare il vortice d’aria e raggiungere ciò che lo stava provocando, e che si trovava ben protetto al suo interno.
Non fu una buona idea e tre di loro furono scagliati contro un bacone di frutta allestito sul ciglio della strada.
Robin intervenne immediatamente, facendosi largo tra gli agenti rimasti. «Lasciate fare a noi» disse sicuro, aspettando che gli uomini battessero in ritirata. Cyborg gli fu subito affianco e Starfire li raggiunse immediatamente, atterrando a pochi centimetri dal fianco sinistro del Ragazzo Meraviglia.
Changeling rimase invece in disparte, ruotando leggermente il muso rapace mentre osservava con attenzione il vortice. Da quanto gli era parso di vedere da quando era arrivato la polizia non aveva fatto poi molto, per far innervosire il tipo. E non riusciva assolutamente a spiegarsi la ragione per cui il vortice continuasse ininterrotto, quando lui avrebbe potuto risparmiare le energie e concentrare l’attacco in un solo momento per farsi strada e fuggire, oppure uccidere.
Prese il volo per schivare una busta di plastica e planò fino ad appollaiarsi sul palo di un semaforo. Era più vicino, ora, e quasi riusciva a distinguere i contorni del tipo al centro del vortice.
Era ben più piccolo di quanto l’avesse immaginato all’inizio, gridava, anche se nessun suono poteva superare quello del vento che lo circondava, e non sembrava sapere esattamente ciò che stava facendo. Teneva le mani attorno alla testa, come per trattenersi, ma la cosa non sembrava funzionare.
Changeling lanciò un’occhiata verso gli amici, per controllare le loro intenzioni.
«Andiamo, qualcuno deve fermarlo» si lamentò Cyborg coprendosi gli occhi per ripararli dalla polvere. Un lampione esplose, Starfire sorvolò l’incrocio, alla ricerca di un punto debole nel muro di oggetti che vorticavano attorno al nemico. Lanciò due sfere di energia, ma queste si dissolsero prima di colpirlo.
«Cerca di avvicinarti!» le suggerì Robin, facendo un passo in avanti per cercare di distrarre il nemico.
Starfire fece un altro giro, questa volta volando più lentamente.
La polizia aveva già circoscritto il tutto, restando a distanza di sicurezza, le ambulanze stavano arrivando per portare via i pochi feriti. Robin, sotto lo sguardo sempre vigile delle telecamere, cercava di trovare un modo per fermare questo disastro.
«Changeling!» chiamò all’improvviso. «Puoi distrarlo per permettermi di trovare una breccia ed avvicinarlo?».
Lui lo scrutò poco convinto, poi si trasformò in un leone ed iniziò a ruggire.
Percepiva la minaccia grazie ai suoi sensi animali ma, soprattutto, percepiva l’odore della rabbia e la paura che dimostrava che, qualunque cosa avesse scatenato il loro avversario, ora lui non era più in grado di controllarlo. Fissò Robin un istante di troppo; lui non poteva capire, non sentiva quello che sentiva lui. Doveva calmare il ragazzino, perché Robin l’avrebbe attaccato senza preoccuparsi di ferirlo, mettendo al primo posto la sicurezza della squadra e dei cittadini. Ma Garfield voleva provare a placarlo.
Mutò in un elefante, sperando che questo avrebbe impedito al vento di spazzarlo via, ma questo servì solo a renderlo un bersaglio più facile. Cambiò ancora in un falco, evitando abilmente una cassa di frutta vuota ed una ventiquattrore che, probabilmente, era sfuggita ad un passante.
Robin lo richiamò furioso, ordinandogli di stare attento, di lasciar perdere, ma Garfield lo ignorò risoluto, battendo le ali per spostarsi tra una corrente d’aria e l’altra.
«Dannazione! Changeling! Lascia perdere!»
Ma Garfield scomparve dalla sua vista oltre il vortice. Starfire, che aveva tentato di raggiungerlo per tirarlo indietro, fu sbalzata via. Presa in pieno da una bicicletta venne scagliata contro la vetrina di un negozio, infrangendola sul colpo.
«Starfire!» gridò Robin furioso con l’amico e preoccupato per la ragazza. Ma conosceva la resistenza di lei e, come si aspettava, la vide venire fuori dal negozio quasi illesa.
Cyborg teneva i suoi cannoni puntati verso il vortice, aspettandosi quasi di vedere Changeling volare fuori dall’uragano da un momento all’altro.
Changeling tornò umano, puntò gli artigli nel terreno, tra i pezzi di asfalto, e sollevò gli occhi. I suoi dubbi vennero dissipati all’istante; il ragazzino dimostrava una quindicina di anni e stava chino sul terreno, con la testa tra le mani, esattamente come gli era parso dall’esterno. Ripeteva qualcosa che lui non riusciva a comprendere a causa del vento che gli feriva le orecchie. Garfield si abbassò appena in tempo per evitare di essere beccato in pieno da un monopattino, finendo invece per essere colpito al fianco da un pezzo d’asfalto. Il colpo fu abbastanza doloroso. Si trascinò avanti a fatica.
Il ragazzino distava ancora una mezza dozzina di metri ed il cerchio si stava lentamente stringendo quando Garfield cominciò a gridare.
«Ehi! Tu!» sbraitò contro al ragazzino. «Devi calmarti! Stai facendo a pezzi tutto il quartiere».
«Stai lontano da me!» gli urlò il ragazzino.
Garfield sospirò, notando che il vento si stava concentrando nella sua direzione. «Ascoltami, capisco cosa ti sta succedendo. Non riesci a controllarti, ma se riesci a calmarti prometto che andrà tutto bene. Non vogliamo farti del male, non vogliamo che nessuno si faccia male. Per favore».
Il ragazzino non rispose, ma Garfield percepì l’assenza di ostilità nei suoi confronti. Lui non si sentiva minacciato dall’eroe verde e non sembrava avere intenzione di attaccarlo. Almeno non volontariamente.
«Io sono Changeling» si presentò. «Qual è il tuo nome?».
Il ragazzino sollevò il viso, lo guardò, aspettò il momento in cui il Changeling l’avrebbe guardato con astio o con timore per via dei suoi occhi bicolore, ma il ragazzo verde gli sorrise.
«Jeremy. Mi chiamo Jeremy».
«Bene, Jeremy. Puoi fermare tutto questo, per favore? So che puoi farlo».
Jeremy annuì. Chiuse gli occhi, chinò il capo, si sedette a gambe incrociate e cominciò a borbottare tra sé. La voce era troppo bassa per sapere cosa stesse dicendo, ma Garfield capì subito che si stava calmando. In breve tempo tutti gli oggetti fluttuanti vennero giù dal cieli. Una pioggia di biciclette, cestini della spazzatura, gomme di auto, zaini scolastici. Molti finirono in testa a Garfield che dovette proteggersi con le braccia come meglio poteva. «Augh! Ehi!» si lamentò poco prima di venire sommerso.
In pochi secondi il punto un cui Jeremy si trovava fu circondato da una montagna di oggetti.
Garfield venne fuori a forza, sotto forma di topolino verde. Poi tornò umano e sorrise sornione a Robin. «Visto? La violenza non sempre è la risposta giusta».
Il Ragazzo Meraviglia lo guardò furioso. Il mutaforma sospirò, pregustando la ramanzina che avrebbe avuto una volta tornato alla torre.
Ma ora Robin aveva altro da fare. Si arrampicò sulla montagnola di rifiuti e si avvicinò a Jeremy arrancando. «Tu, ragazzino» disse serio pronto ad afferrarlo e trascinarlo via per – probabilmente – consegnarlo alla polizia. «Ti rendi conto del disastro che hai causato».
Garfield accorse, tentando di calmare l’amico. «Ehi! Non è colpa sua, so che non riusciva a controllare i suoi poteri. Non è una storia nuova; ha solo bisogno di una guida».
Jeremy chinò il volto, stringendo i denti. Era esattamente quello che sua sorella gli diceva sempre. Una guida. Ma lui non voleva una guida, voleva soltanto essere lasciato in pace. D'altronde, se nessuno si era mai occupato di lui prima perché ora avrebbe dovuto essere diverso? Un idrante saltò in aria, investendo con un violento getto d’acqua il povero Victor. Robin saltò sull’attenti.
«Fermo!» urlò al ragazzino. Si mise in posizione di difesa, pronto a fermarlo con la forza in caso di fuga. Ma questo non poté che fare innervosire ulteriormente Jeremy.
L’energia nera si dipanò da lui fino allo spazio attorno, in maniera fin troppo familiare.
Garfield strabuzzò gli occhi. Tutto quello che aveva appena fatto per calmare Jeremy sembrava ora inutile. «Jeremy! Fermati, per favore. So che non vuoi fare del male a nessuno, Robin non è cattivo, ha solo difficoltà ad ascoltare quello che gli dicono gli altri». Fulminò l’amico con lo sguardo e si guadagnò un’occhiataccia in cambio.
Un palo della luce venne sradicato e piombò sulla strada, appena dietro Cyborg.
«D’accordo, via di lì!» gridò il mezzo robot caricando i suoi cannoni.
Garfield si parò tra lui e Jeremy, supplicandolo di fermarsi.
«Tranquillo, questo lo stordirà e basta» urlò l’amico di rimando. Robin lo afferrò di peso e lo buttò di lato, poi Cyborg sparò.
L’aria si fece pesante mentre un gran polverone li investiva tutti in pieno. Per alcuni secondi nessuno di loro riuscì a vedere oltre il proprio naso e il fumo non si era ancora dissolto del tutto quando Robin fissò con un sorriso sollevato il punto in cui avevano visto per l’ultima volta il ragazzino.
Questo doveva averlo neutralizzato di sicuro.
Ma la polvere non si era ancora posata quando un altro tipo di vento la spinse indietro, verso di loro. Li costrinse a distogliere lo sguardo, a coprirsi gli occhi e le bocche.
Tossirono.
C’era una figura sfocata, ora, tra loro ed il ragazzino.
Garfield si strofinò il palmo contro gli occhi, per liberarsi dai granelli di polvere che gli si erano infilati sotto le palpebre. Gemette, incredulo. La figura longilinea stava a braccia incrociate, il mantello scuro la avvolgeva quasi completamente e il cappuccio le oscurava il viso. Un alone nero circondava lei e Jeremy.
Esso si dissolse mentre la ragazza girava loro le spalle, si chinò per poter fissare negli occhi Jeremy «Stai bene?». «Sto bene» la voce di lui tremò. La ragazza sorrise da sotto il cappuccio, lo abbracciò, sotto lo sguardo sbigottito di tutti i Titans.
Starfire serrò le labbra e prese il volo, atterrò a un paio di passi da loro. L’aliena fissò la nuova arrivata «Raven?» la chiamò con un tono preoccupato nella voce «Sei tu?».
Raven si abbassò il cappuccio, aveva la fronte corrugata «Che diavolo vi siete messi in testa?» disse, funerea. Lanciò un’occhiata a tutti loro, incrociò le braccia «Volevate ucciderlo? Non è colpa sua se non controlla i suoi poteri».
Cyborg si toccò il petto «Volevo solo stordirlo» mosse la mano, indicando il paesaggio circostante «Stava distruggendo tutto, non potevamo lasciarlo fare».
Robin si mise di fianco a Cyborg, prima di indicare Garfield «Lui ha provato a fermarlo e guarda come è ridotto».
Raven guardò Garfield negli occhi, i lividi e le contusioni parvero a quest’ultimo iniziare a bruciare. Sapeva di aver bisogno di cure ma non fino a quel punto. Sbuffò «Io ero riuscito a calmarlo» distolse lo sguardo «Poi sei arrivato tu a gridargli addosso, mandando in fumo tutto il mio lavoro».
Robin aprì la bocca per ribattere, ma Raven gli tirò una frustata di energia nera dietro la nuca. Jeremy sorrise, divertito.
Starfire si avvicinò a lei, ora le spalle delle due ragazze si potevano sfiorare ma la maga non si voltò «Dove sei stata tutto questo tempo?» chiese, le mise una mano sulla spalla «Tornerai con noi adesso?».
Silenzio.
Jeremy aveva un sorriso sarcastico stampato sul volto, mosse le labbra senza far uscire alcun suono. Si mise una mano sulla faccia, prima di passarla tra i capelli neri. Per Garfield non fu difficile interpretare il silenzio della ragazza come indice di un nuovo problema.
Starfire abbassò gli occhi, concentrandosi sul ragazzino sconosciuto «Lo conosci?» chiese.
Raven scrollò le spalle «È mio fratello» disse, si voltò verso Garfield; i loro occhi s’incrociarono di nuovo «Grazie per avergli impedito di farsi del male, Beast Boy».
Le guance del ragazzo si arrossarono, sentendola pronunciare il suo vecchio nome di battaglia. Aprì la bocca per risponderle, ma lei afferrò Jeremy per un braccio ed entrambi sparirono in una chiazza d’oscurità.
I Titans rimasero soli. Si guardarono l’un l’altro, preoccupati. Incapaci di comprendere ciò che era successo e, forse, di accettarlo.
Garfield crollò sull’asfalto «È tornata davvero?» chiese. Tutta l’adrenalina della battaglia lo aveva ormai abbandonato e non vedeva l’ora di dormire. Se non fosse stato per il dolore diffuso per tutto il corpo, avrebbe pensato che questo fosse solo un sogno.

Victor poggiò la spalla sullo stipite della porta dell’infermeria.
Garfield era disteso sulla brandina, gli occhi rivolti al soffitto, il petto si alzava e abbassava con lentezza. Aveva quasi ogni centimetro di pelle coperto da bendaggi, oltre che un vistoso cerotto sulla fronte «Come stanno Kori e Richard?» chiese.
Victor accennò una risata sarcastica «Beh, lui sta dando fondo al suo dizionario di imprecazioni» si umettò le labbra, non che non si aspettasse quella reazione da parte del loro leader, al contrario, la pacatezza di Garfield era troppo strana. Avevano appena rincontrato Raven e l’unico che non pareva troppo sconvolto era proprio lui. Che starà pensando, adesso?
Il ragazzo verde prese un profondo respiro, batté le mani e si mise a sedere. Un lampo di dolore gli attraversò il viso, si portò una mano al fianco e sbatté le palpebre «Ohi, prima o poi io e Jeremy faremo un discorsetto» ridacchiò. Calmo, si stava comportando nella stessa identica maniera in cui si era comportato in quegli anni dopo che Raven era scappata «Ah!».
Victor corrugò la fronte, perplesso «Ah…?» ripeté.
Garfield gli rivolse un’occhiata curiosa «Non mi hai detto cosa sta facendo Kori. rimprovera il suo fidanzatino per il linguaggio» mosse le dita come a mimare delle virgolette «non consono ad un eroe?». Era fasullo. Il robot avrebbe preferito vedere l’amico vacillare ed affidarsi a loro, non sforzarsi di essere allegro.
Gli sorrise di rimando, si portò le mani dietro al capo «Beh, sta cucinando qualcosa per farti sentire meglio» si voltò verso il corridoio e fece un passo in avanti «Sai, qualcosa tipico tamariano».
Udì Garfield emettere un gemito spaventato, la porta si chiuse dietro di lui. Victor sospirò, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Si chiese, inconsciamente, dove il ritorno di Raven li avrebbe portati.

Raven non si fece problemi a teletrasportarsi direttamente dentro al salotto dell’appartamento. La stanza era illuminata, ogni singola finestra spalancata nel probabile tentativo di portare un po’ dell’aria fresca all’interno. Certo, non era facile in città.
Jeremy fremeva, a testa china, col respiro trattenuto e lo sguardo basso. All’interno era un vortice di emozioni contrastanti, Raven lo sentiva, e non voleva che lui provasse tanta confusione, rabbia e paura.
«Respira» suggerì pazientemente poggiando una mano sulla spalla del ragazzo. Lui la scrollò via con un gesto secco, cercando di ritrovare il suo spazio personale. Indietreggiò di alcuni passi, tentando di mettere distanza tra loro, ma non lasciò la stanza.
«Quelli erano i Titans» osservò, tentando di fare ordine nella sua mente. Raven ritenne superfluo rispondere, così Jeremy continuò, infastidito dalla situazione, arrabbiato con sé stesso per aver perso il controllo a quel modo, per avere attirato l’attenzione.
Era stato lui, in fondo, ad uscire allo scoperto. Era per lui che Raven si era esposta, sapeva di aver messo a rischio tutto ma la rabbia non avrebbe risolto nulla.
Diede le spalle alla sorella e passò le mani tra i capelli, frustrato. Se i Titans si fossero messi in mezzo la colpa sarebbe ricaduta su di lui.
La lampada del soggiorno saltò in aria, spargendo pezzi di vetro e plastica sul pavimento e sui cuscini del divano.
Raven si tenne a distanza. Fin da quando l’aveva conosciuto le era subito stato chiaro quanto detestasse il contatto fisico e la vicinanza con le altre persone. C’era un limite che doveva porre per non percepire troppo soffocanti i sentimenti negativi delle persone. Jeremy era un vaso colmo di rabbia verso il mondo, ma riusciva a domarla, finché poteva tenerla dentro ed ignorare la rabbia del resto del mondo.
«Non è successo nulla» gli disse Raven per provare a calmarla. Cercava di mantenersi a distanza, di calmare anche la propria agitazione per impedire che disturbasse la concentrazione che a lui serviva per non esplodere.
«Come può non essere nulla? Loro non avrebbero neanche dovuto immaginare che tu fossi qui, invece ora lo sanno per certo»
Raven stette ad osservarlo consapevole. Trovava che non vi fosse bisogno di ribadire l’ovvio, ma dirlo ad alta voce non sarebbe servito ad altro che a peggiorare le cose. Jeremy era empatico, però, non c’era modo di nascondergli le sensazioni che smuovevano il petto della ragazza.
«Non importa» mormorò Raven scuotendo la testa con voce morbida. «Noi non gli permetteremo rovinare i nostri piani». C’era troppo in ballo per preoccuparsi di loro, adesso. Il fatto che i Titans potessero intromettersi passava in secondo piano rispetto a tutto il resto. «Ora calmati e fai un bel respiro, andrà tutto bene».
Ma se c’era una cosa che Jeremy non riusciva a sopportare era la compassione, il tentativo di lei di assecondarlo, di proteggerlo. Lui non aveva mai avuto bisogno di qualcuno che gli guardasse le spalle e non le aveva chiesto di fare nulla, per calmarlo.
«Basta, Finiscila! Smettila di ripeterlo!» sbottò Jeremy furioso. Il fatto che Raven insistesse a cercare di comprenderlo, il fatto che fingesse di non avercela con lui per aver ferito quello che probabilmente era stato uno dei suoi migliori amici lo mandava in bestia.
Un mucchio di libri saltarono giù dalla mensola, volando sul pavimento ed aprendosi di botto. Il divano tremò.
Raven lanciò un’occhiata al disastro che stava diventando la stanza e riprovò: «Jeremy, voglio solo evitare che tu ti faccia male. Calmati, agitarsi così non serve a nulla».
Il ragazzo la fulminò con un’occhiata. Lo scambio di sguardi tra i due fratelli fu tanto intenso da distrarli al punto di non accorgersi della terza persona che li aveva raggiunti nella stanza.
Il giovane sembrava squadrarli con le orbite vuote, le pupille bianche quasi si confondevano con il bianco del bulbo. Era stato attirato dal frastuono, probabilmente, e li aveva raggiunti per evitare che si facessero male.
Allungò la mano per poggiarla sulla spalla di Jeremy, ma lui si ritrasse, percependo il movimento.
«Smettila, non prendertela con tua sorella, sai che lei non ha nessuna colpa, qualunque cosa sia successa» disse Belial con calma.
Jeremy tremò un secondo, strinse i pugni per celare il movimento ai due. «Io ho… In centro, ho avuto un piccolo scontro con i Titans» mormorò, tentando di sminuire l’avvenimento, per quanto fosse possibile. Distolse lo sguardo anche se Belial non riusciva a vederlo, anche se non poteva scrutare la sua espressione colpevole. Si aspettava una ramanzina, che il ragazzo se la prendesse con lui, ma Belial sospirò.
«E tu ti sei fatto male?» gli domandò invece spiazzandolo.
Jeremy scosse la testa, poi trattenne il fiato e la rabbia lo travolse. «Io sto bene! Non ho nessun problema! Smettetela di continuare a trattarmi come un bambino, ho quindici anni e me la sono sempre cavata da solo».
«Voglio solo assicurarmi che tu stia bene, prendermi cura ti te» gli disse Raven.
«Beh, sai la novità, Raven?» la interruppe lui, crudele. «Tu non sei mia madre, non hai alcun dovere nei miei confronti» poi si voltò verso Belial ed aggiunse: «E tu non sei mio padre, non cercare di fingere di capirmi. Tu non sai cosa ho passato».
Il ragazzo rimase zitto, lo sguardo vitreo ancora rivolto verso Jeremy. Nascose i suoi pensieri meglio che poté, poi poggiò una mano sulla spalla di Jeremy. «È vero, non siamo i tuoi genitori, ma non puoi avercela con noi per qualcosa che ti hanno fatto altri. Ed è inutile che tu chieda a tua sorella di smettere di occuparsi di te e di preoccuparsi, sai bene che è una cosa che non può fare. E poi, ricordatelo sempre, tua madre ti ha abbandonato, Raven ha lasciato tutto per te. E non ha mai preteso di prendere il suo posto».
Lo sguardo serio di Jeremy vacillò, i pugni che teneva chiusi si sciolsero e lanciò uno sguardo colpevole alla ragazza. Avrebbe voluto chiederle scusa, ma non era abituato ad ammettere i propri errori e le parole gli morirono in gola.
«Non importa» gli disse Raven con un lieve sorriso, intuendo il suo disagio.
Jeremy annuì grato, poi si voltò e si allontanò per andare in camera da letto. Raven si chinò a raccogliere i cocci di verto, ma Belial la fermò, afferrandola per un braccio e costringendola a fermarsi. «Non stai andando male, sai?» le disse sorridendole.
Raven arrossì lievemente; non era abituata a sentirsi tanto legata a qualcuno, a sentirsi compresa e parte di qualcosa. Certo, aveva amato stare con i Titans, ma con Belial era diverso. Quando lui era in giro sentiva che tutto avrebbe potuto andare apposto solo perché lui lo voleva. Sentiva che lui non l’avrebbe giudicata, che l’avrebbe appoggiata in ogni cosa.
Lentamente, e dolcemente, si abbracciarono.

L'angolino delle Autrici
E niente, io e Genius stiamo scommettendo su quante minacce di morte ci voleranno addosso, in ogni caso, ringraziamo i lettori e siamo sicure che apprezzerete molto i personaggi di Jeremy e Belial, soprattutto Belial.
Rinnoviamo la richiesta, se il capitolo vi è piaciuto, vi ha entusiasmato o simili -per favore- scrivete Boom nella recensione. Linguaggio in codice, sì.
Vi lovviamo e alla prossima,
Digital e Genius

  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > Teen Titans / Vai alla pagina dell'autore: DigitalGenius